Uomini senza donne
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Uomini senza donne

  1. 224 pagine
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Informazioni sul libro

«Se la letteratura fosse come la boxe, Murakami avrebbe il dono più prezioso: la capacità di sferrare un colpo da ko quando l'avversario meno se lo aspetta».
«Corriere della Sera» «Murakami Haruki ha la freschezza di chi narra il mondo ricominciando da capo e permettendosi infinite variazioni: non è uno scrittore, ma una serie di scrittori racchiusi in uno».
«la Repubblica» *** Una mattina Gregor Samsa si sveglia in un letto e scopre con orrore di essersi trasformato in un essere umano. Non ricorda nulla della sua vita precedente. Che fine ha fatto lo spesso carapace che lo proteggeva? E perché adesso è ricoperto da questa sottile, delicata pelle rosa? Chi, o cosa, era prima di quel risveglio? Insomma, adesso Samsa dovrà adattarsi alla nuova e «mostruosa» condizione di uomo. Quando però alla sua porta bussa una ragazza il cui fisico è deformato da un'enorme gobba, Samsa dovrà fare i conti con qualcos'altro di sconosciuto: il desiderio e l'erotismo visto con gli occhi nuovi di chi sa andare oltre le apparenze. Habara, il protagonista di Shahrazad, è un uomo solo, confinato in una casa nella quale gli è vietato ogni contatto col mondo. Non sapremo mai perché, e in fondo non è importante: quello che sappiamo è che il suo unico svago sono le visite regolari di una donna misteriosa che lo rifornisce di libri, musica, film... e sesso. Ma soprattutto gli racconta delle storie, proprio come faceva Shahrazad. E in queste storie Habara si tuffa come un bambino, finalmente libero. Ecco, è proprio questo che vive il lettore di Murakami: la sensazione di inoltrarsi in un altro universo, di essere «come una lavagna pulita con uno straccio umido, libero da preoccupazioni e brutti ricordi». Almeno fino alla storia successiva. Nove anni dopo I salici ciechi e la donna addormentata, Murakami Haruki regala ai suoi lettori una nuova raccolta di racconti, sette distillati della sua arte e dei suoi temi: il fantastico che irrompe nel quotidiano, la nostalgia per ciò che non è stato, ma soprattutto la ricerca della felicità tra uomini e donne.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858419540

Yesterday

Per quel che ne so io, la sola persona che abbia mai provato a tradurre Yesterday dei Beatles in giapponese – anzi, nel dialetto del Kansai – è stato un ragazzo chiamato Kitaru. La cantava spesso nel bagno di casa sua.
Ieri è l’altro ieri di domani
il domani dell’altro ieri…
Ricordo che l’incipit era qualcosa del genere, ma è passato tanto di quel tempo che non sono sicurissimo che facesse proprio cosí. In ogni caso erano parole sconclusionate, dall’inizio alla fine. Erano… come dire… una roba davvero assurda che faceva il verso al testo originale senza assomigliarci neanche un po’. La familiare melodia originale, cosí bella e malinconica, associata alla cadenza un po’ indolente – priva di pathos, si potrebbe dire – del dialetto del Kansai, formavano un abbinamento strano, un’accoppiata talmente priva di senso da risultare quasi ardita. Perlomeno, alle mie orecchie produceva quest’effetto. Mi faceva ridere, la trovavo sciocca, ma al tempo stesso vi percepivo un messaggio segreto. In ogni caso mi limitavo ad ascoltarla sconcertato.
Kitaru, pur essendo nato e cresciuto nel quartiere di Dennenchōfu a Ōta, nella cintura di Tōkyō, parlava il dialetto del Kansai in modo praticamente perfetto. Io invece, che ero nato e cresciuto nel Kansai, mi esprimevo in un giapponese standard quasi impeccabile – quello che si parla a Tōkyō, insomma. Ora che ci penso, eravamo un’accoppiata davvero singolare.
L’avevo conosciuto quando lavoravo part-time in un caffè vicino all’ingresso principale del campus di Waseda. Io stavo in cucina, Kitaru serviva ai tavoli. Nei momenti di calma chiacchieravamo volentieri. Entrambi ventenni, eravamo nati a una settimana di distanza l’uno dall’altro.
– È un nome insolito, Kitaru, – gli dissi.
– Sí, è vero. Non ce ne sono molti, – fece lui, col suo forte accento del Kansai.
– C’era un lanciatore dei Lotte che si chiamava cosí.
– Sí, ma non c’entra niente con la mia famiglia. Anche se una qualche relazione probabilmente ci sarà, visto che è un nome piuttosto raro.
All’epoca frequentavo il secondo anno di Lettere dell’Università di Waseda. Lui era rōnin1 e seguiva un corso preparatorio all’esame di ammissione, per il secondo anno di fila, ma non dava certo l’impressione di impegnarsi sul serio. Nel tempo libero leggeva cose che non avevano il minimo rapporto con lo studio. La biografia di Jimi Hendrix, manuali di shōgi, Origine del cosmo… roba del genere. Mi disse che veniva ogni giorno al lavoro da casa dei suoi a Ōta.
– Casa dei tuoi? – chiesi. – E io che ero sicuro che fossi del Kansai!
– Figurati! Sono nato e cresciuto a Dennenchōfu.
A quelle parole rimasi disorientato.
– Scusa, ma allora perché parli nel dialetto del Kansai?
– Be’, mi sono messo d’impegno e l’ho imparato. Ce l’ho messa davvero tutta.
– Ti sei messo d’impegno?
– Sí, davvero, l’ho studiato seriamente. I verbi, i sostantivi… insomma, è come studiare l’inglese o il francese. Sono anche andato a far pratica sul luogo.
Impressionante. Era la prima volta che sentivo di qualcuno che «si metteva d’impegno» per imparare il dialetto del Kansai, come fosse una lingua straniera. A Tōkyō c’era veramente di tutto, mi dissi. Mi sentivo come Sanshirō, l’ingenuo protagonista dell’omonimo romanzo di Sōseki che dalla provincia va a studiare nella capitale.
– Sono sempre stato un tifoso degli Hanshin Tigers, fin da bambino. Non mi sono mai perso una loro partita, quando giocavano a Tōkyō. Mettevo l’uniforme bianca a righe nere e andavo a piazzarmi nella sezione dello stadio riservata ai tifosi ospiti. Ma non c’era niente da fare, col mio accento di Tōkyō, appena aprivo bocca nessuno mi degnava piú di uno sguardo. Non c’era verso di farsi accettare nella comunità. Devo imparare il dialetto del Kansai, ho pensato a quel punto. Mi sono rimboccato le maniche e ho studiato tanto da sudare sangue.
– E l’hai imparato cosí bene solo a questo scopo? – chiesi stupefatto.
– Certo. Gli Hanshin Tigers per me erano tutto. Da allora ho sempre parlato nel dialetto del Kansai, sia a casa che a scuola. Persino quando parlo nel sonno, parlo nel dialetto del Kansai, – disse Kitaru. – Come lo trovi il mio accento, non è perfetto?
– Assolutamente. Sembri proprio uno del Kansai, – gli risposi. – Solo che non è veramente l’accento dell’area Hanshin, ma piuttosto quello di Ōsaka. La parlata dell’entroterra, insomma.
– Questo lo so. Quando ero al liceo, durante le vacanze estive ho fatto una vacanza studio a Ōsaka, nel quartiere di Tennōji. Mi sono divertito un casino. Ho persino fatto un giro allo zoo.
– Una vacanza studio? – domandai. Da non crederci!
– Già, se mettessi nella preparazione del concorso lo stesso ardore che ho messo nello studio del dialetto del Kansai, adesso non sarei rōnin per il secondo anno consecutivo… – fece Kitaru.
Proprio cosí, pensai. Anche il vizio di fare un’idiozia e poi darsi del cretino era tipico del Kansai.
– E tu? Di dove sei?
– Della zona di Kōbe.
– Dove, di preciso?
– Ashiya.
– Accidenti! I quartieri alti! Avresti dovuto dirlo subito, invece di girarci intorno.
Cercai di spiegargli. Quando mi chiedevano da dove venivo, se rispondevo «da Ashiya» la gente pensava subito che la mia famiglia fosse ricca. Ma ad Ashiya c’erano famiglie di ogni classe sociale. I miei non erano ricchi. Mio padre era impiegato in una ditta farmaceutica, mia madre segretaria in una biblioteca. Abitavamo in una casa piuttosto piccola, la nostra macchina era una Toyota Corolla beige. Quindi, se qualcuno mi chiedeva da dove venivo, per evitare che si facesse idee sbagliate, avevo deciso di rispondere sempre «dalla zona di Kōbe».
– Be’, per me è uguale! – disse Kitaru. – Abito a Dennenchōfu, ma nella parte piú squallida del quartiere, se devo essere sincero. Vieni a vedere, una volta. Non ci crederai. «Come è possibile? Questo sarebbe Dennenchōfu?» Ma perché preoccuparsi di certe cazzate? È solo un indirizzo. Al contrario di te, io gliela sparo in faccia: «Allora? Sono nato e cresciuto a Dennenchōfu, io!»
Lo ammirai. E diventammo amici.
Ci sono diverse ragioni per le quali, dopo essermi trasferito nella capitale, ho smesso di parlare nel dialetto di Ōsaka. Per tutti gli anni del liceo, fino all’esame di maturità, non mi ero mai espresso in altro modo. Dopo aver passato un mese a Tōkyō, però, mi resi conto, con un certo stupore, che ne avevo adottato la parlata con facilità e naturalezza. Chissà, forse ho la natura di un camaleonte. Oppure ho orecchio per le lingue. Comunque sia, quando dicevo che venivo dal Kansai, nessuno mi credeva.
Un altro motivo che mi ha indotto ad abbandonare il mio dialetto era il desiderio di diventare un’altra persona.
Quando sono venuto a Tōkyō per iniziare l’università, nel treno che mi portava nella capitale non ho fatto altro che riflettere e ripercorrere mentalmente i miei diciotto anni di vita: della maggior parte delle cose che mi erano successe, potevo solo vergognarmi. No, non sto esagerando. La mia esistenza era stata un susseguirsi di idiozie che preferivo dimenticare. Piú ci pensavo, piú mi trovavo detestabile. Naturalmente c’era anche qualche ricordo bellissimo. Alcune esperienze pulite, alcuni pensieri elevati, li avevo avuti. Lo riconosco. Ma le cose di cui arrossire, per le quali potevo solo prendermi la testa fra le mani, erano in numero molto maggiore. Anche il mio modo di vedere la vita, ripensandoci, era talmente banale, talmente limitato, che non vale nemmeno la pena di parlarne. Un cumulo di idee prive di fantasia, ciarpame da borghesucci. Roba che avrei voluto impacchettare e cacciare in fondo a un cassetto. Oppure darvi fuoco e ridurla in cenere – quale fumo ne sarebbe uscito? In ogni caso, desideravo solo sbarazzarmi di tutto quanto e iniziare a Tōkyō una vita nuova, da persona nuova. Sperimentare nuove possibilità. Quindi per me abbandonare il dialetto del Kansai e adottare un altro modo di esprimermi era un mezzo pratico – e al tempo stesso simbolico – per arrivare allo scopo. Perché in conclusione il linguaggio che parliamo ci presenta come persone. Perlomeno, è quello che pensavo quando avevo diciotto anni.
– Vergognarti? Di che cosa ti vergognavi tanto? – mi chiese Kitaru.
– Oh, un po’ di tutto…
– Avevi problemi con i tuoi?
– No, non si può dire che avessi dei problemi. Comunque mi vergognavo. Anche solo a stare in loro compagnia.
– Sai che sei davvero strano? Perché mai uno dovrebbe vergognarsi a stare con i propri famigliari? Io ci sto benissimo, con i miei.
Non risposi. Non riuscivo a spiegarmi bene. Né avrei saputo dire cosa ci fosse di sbagliato in una Toyota Corolla beige. In fondo rivelava semplicemente che la strada davanti a casa era stretta, e che mio padre e mia madre non erano persone da buttare soldi per le apparenze.
– Tutti i santi giorni i miei me ne dicono di tutti i colori perché non studio, una bella rottura, credimi, ma che ci posso fare? È il loro compito. Non bisogna prendersela troppo per queste cose.
– Beato te, che te ne freghi! – dissi sinceramente ammirato.
– La ragazza ce l’hai? – mi chiese Kitaru.
– Al momento no.
– E prima?
– Sí, fino a poco tempo fa.
– Vi siete lasciati?
– Esatto, – risposi.
– Come mai?
– È una lunga storia, in questo momento non ho voglia di parlarne.
– Era una ragazza di Ashiya? – insistette Kitaru.
– No, non di Ashiya. Era di Shukugawa. Lí vicino, insomma.
– Hai fatto tutto, con lei? C’è stata?
Scossi la testa.
– No, non ha voluto.
– È per questo che vi siete lasciati?
– Anche per questo, – risposi dopo averci pensato un po’.
– Cioè, avete fatto tutto, tranne quello?
– Praticamente quasi tutto.
– Sí, ma fin dove siete arrivati? Concretamente, cioè.
– Non ho voglia di parlarne.
– Anche questa è una delle cose di cui dici di vergognarti?
– Esatto, – risposi. Anche quella era una delle cose che preferivo non ricordare.
– Certo che sei ben complicato, tu! – fece Kitaru perplesso.
La prima volta che avevo sentito Kitaru cantare Yesterday nella sua strana versione ero davanti al bagno di casa sua a Dennenchōfu. Né la casa né la zona erano squallide come pretendeva lui. Erano ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Uomini senza donne
  4. Drive my car
  5. Yesterday
  6. Organo indipendente
  7. Shahrazād
  8. Kino
  9. Samsa innamorato
  10. Uomini senza donne
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright