Infanzia berlinese
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Infanzia berlinese

intorno al millenovecento

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Infanzia berlinese

intorno al millenovecento

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Un'autobiografia anomala, una sorta di mosaico in cui Benjamin condensa le esperienze e la topografia della propria infanzia, ridando anima ai sogni, facendo rivivere le ore e i luoghi di magia, e al contempo gli angosciosi presentimenti di un bambino ebreo nella Berlino dell'epoca. Benjamin scava nell'infanzia, negli strati nascosti, perduti della vita per riattivare quella "promessa di felicità" che è patrimonio di ogni essere umano, senza tuttavia dimenticare che questa possibile felicità è perennemente esposta ai venti della storia. Un testo che ha svelato Benjamin come grande scrittore, oltre che pensatore e intellettuale. Infanzia berlinese consiste di miniature che evocano singole strade, persone, oggetti, intérieurs. Non c'è dubbio che chi si accinge a scrivere cose di questo tipo è, come Proust, di cui Benjamin fu traduttore, alla ricerca del tempo perduto. Ma il tema di Proust e quello di Benjamin sono davvero lo stesso? Le loro ricerche del tempo perduto perseguono il medesimo obiettivo? Proust cerca il passato per sfuggire al tempo, e ciò significa soprattutto: al futuro, ai suoi pericoli, alle sue minacce, la cui minaccia estrema è la morte. Benjamin, al contrario, nel passato cerca il proprio futuro. I luoghi a cui lo riconduce il suo rammemorare hanno quasi tutti «i tratti dell'avvenire». E non è casuale che il suo ricordo colga una figura dell'infanzia «nel ruolo del veggente che predice il futuro». Proust presta attenzione al risuonare del passato, Benjamin a ciò che anticipa un futuro che, nel frattempo, è diventato a sua volta passato. A differenza di Proust, Benjamin non vuole liberarsi della temporalità, non vuole osservare le cose nella loro essenza astorica ma aspira all'esperienza e alla conoscenza storica. Dal saggio di Peter Szondi

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858420096

Speranza nel passato. Su Walter Benjamin

di Peter Szondi

Il saggio è compreso in P. Szondi, Schriften II, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1978, pp. 278 sgg.
La traduzione è di Roberto Gilodi.
Le note fra parentesi quadre sono a cura di Enrico Ganni.
Il libro della memoria di Walter Benjamin si apre con le seguenti frasi1:
Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta. I nomi delle strade devono parlare all’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi, e le viuzze del centro gli devono scandire senza incertezze, come in montagna un avvallamento, le ore del giorno. Quest’arte l’ho appresa tardi; essa ha esaudito il sogno, le cui prime tracce furono i labirinti sulle carte assorbenti dei miei quaderni. No, non le prime, poiché le precedette quell’altro che a esse è sopravvissuto. La via verso questo labirinto, cui non è mancata la sua Arianna, passava sul ponte Bendler, il cui dolce arco fu per me il primo pendio collinare. Non lontano da lí era la meta: Federico Guglielmo e la regina Luisa. Emergevano dalle aiuole su tondi piedestalli e parevano ammaliati dalle magiche curve che un corso d’acqua disegnava davanti a loro nella sabbia. Piú che ai regnanti, però, rivolgevo la mia attenzione ai piedestalli, perché le scene che vi erano rappresentate, pur non essendo chiari i riferimenti, erano piú vicine. Che questo labirinto avesse una sua importanza, l’ho avvertito da sempre in quell’ampio e insignificante spiazzo che per nulla lasciava presagire come qui, solo a pochi passi dalla fila delle carrozze e delle vetture di piazza, dormisse la parte piú misteriosa del parco. Ne ebbi molto presto un segno. In quel punto, infatti, o non lontano, deve aver avuto la sua dimora quell’Arianna alla cui presenza per la prima volta, e per non dimenticarlo mai piú, avvertii ciò di cui solo piú tardi appresi il nome: l’amore.
Infanzia berlinese è stato scritto negli anni successivi al 1930. Benjamin ne pubblicò alcune parti su giornali; come opera intera apparve solo nel 1950, dieci anni dopo la morte dell’autore. Questo libro, una delle prose letterarie piú belle del nostro tempo, per un lungo periodo è rimasto quasi sconosciuto. Il libro, che nell’edizione in due volumi delle opere di Walter Benjamin2 occupa a stento settanta pagine, consiste di miniature che evocano singole strade, persone, oggetti, intérieurs. Vi incontriamo titoli come Colonna della Vittoria, Porta di Halle3, Logge, Partenza e ritorno, Kaiserpanorama. Non c’è dubbio che chi si accinge a scrivere cose di questo tipo è, come Proust, di cui Benjamin fu traduttore, alla ricerca del tempo perduto. È comprensibile dunque che Benjamin, all’epoca in cui scriveva Infanzia berlinese, potesse dire a un amico di «non voler leggere una sola parola di Proust» piú di quanto non dovesse tradurre perché altrimenti sarebbe caduto «in una morbosa dipendenza che avrebbe ostacolato» la sua produzione»4. Questa frase è piú di una testimonianza dell’effetto che il romanzo di Proust ebbe su Walter Benjamin, e sembra indicare una affinità elettiva senza la quale la lettura dell’opera proustiana difficilmente avrebbe potuto sostituirsi alla sua. Pertanto non si situa semplicemente nella storia della fortuna della Recherche du temps perdu, ma rappresenta forse anche un punto di partenza se vogliamo dire qualcosa sulla specificità dell’opera di Benjamin.
Sarà bene tuttavia non perdere di vista la storia della ricezione di Proust in Germania, che è legata ai nomi di Rilke, Ernst Robert Curtius e Walter Benjamin. Il poeta, l’erudito e il filosofo che era anche poeta ed erudito, appartengono non solo ai primi che in Germania hanno subito l’influenza di Proust ma, dal canto loro, sono stati anche quelli che hanno determinato l’influenza di Proust. Non appena Rilke ebbe terminata la lettura del primo volume della Recherche nel 1913, subito cercò di indurre il suo editore ad acquisirne i diritti per la lingua tedesca, naturalmente senza successo5. Fu poi Ernst Robert Curtius a dedicare a Proust nel 1925 un ampio saggio e a determinare, in virtú della sua acuta critica al primo volume dell’edizione tedesca nel frattempo uscita, il passaggio dell’opera di traduzione in mani piú esperte6. I volumi successivi furono tradotti da Franz Hessel e Walter Benjamin7 del quale uscí nel 1929 l’importante saggio Per un ritratto di Proust8. Successivamente la diffusione dell’opera di Proust in Germania conobbe una fine traumatica: il manoscritto delle parti non ancora pubblicate della traduzione andò perduto e la comprensione dell’opera resa del tutto impossibile. A essa si sostituirono giudizi come quelli formulati da Kurt Wais:
Una vera e propria rottura della forma stabile e autoctona del romanzo […] fu intrapresa da due mezzi-francesi, il mezzo-ebreo Marcel Proust e André Gide, cresciuto nel piú cupo calvinismo. […] In Proust le personalità vengono sbriciolate in singoli lineamenti contraddittori […]. Chi non ha provato commozione non potrà muovere le passioni altrui. Le cento figure restano schemi che egli silenziosamente dissangua (nel corso dei tredici volumi a cui si sono estesi i tre inizialmente progettati) nel monologo neuropatico À la Recherche du temps perdu. Uomini effemminati, signore dai modi maschili circondati da un vortice di chiacchiere pedanti e di estenuate similitudini e fatti oggetto di una iperintelligente interpretazione talmudistica. Già la stessa aria viziata della camera da degenza semibuia che è stata per quindici anni l’incubatrice di questo cagionevole e maligno pedante i cui soli interessi erano quelli di penetrare negli ambiti sociali a lui preclusi, la curiosità che lo induce all’osservazione microscopica dei problemi della pubertà e della palude degli scellerati turbamenti sessuali che Proust ha in comune con molti romanzieri europei di origine ebraica […] tutto ciò dovrebbe allontanare un lettore di oggi che non sia un neurologo9.
Se ci si interroga su quale sia stata la fortuna di Proust, da un lato si incontra l’ambito della follia ideologica che tuttavia è inserito in un contesto fin troppo reale da poter accampare un diritto all’oblio – anche Benjamin ha trovato la morte fuggendo dalla Gestapo –, dall’altro si penetra nell’interno dell’opera. Nell’ultimo volume, laddove l’eroe si decide a scrivere il romanzo che il lettore ha in mano, laddove il libro per cosí dire si appropria di se stesso e la paura dell’iniziare si associa in modo memorabile al trionfo del compimento, ci si interroga sulla peculiarità dell’opera che è già stata scritta e che nondimeno dovrà ancora essere scritta. E non da ultimo tale peculiarità viene vista nella particolare efficacia che dovrebbe esserle propria. Si legge (dopo la similitudine della cattedrale divenuta famosa):
Ma, per tornare a me, pensavo in termini piú modesti al mio libro, e troppo inesatto sarebbe il dire, pensando a coloro che lo avrebbero letto, anche ai miei lettori. Invero, questi, come ho dimostrato, non sarebbero stati «miei lettori», ma i lettori di se stessi, essendo il mio libro qualcosa di simile a quelle lenti d’ingrandimento che l’ottico di Combray porgeva al cliente; il mio libro, grazie al quale avrei fornito loro il mezzo di leggere in loro stessi»10.
Senza conoscere queste frasi, Rilke si dimostrò assai presto quale quel lettore di se stesso che Proust si era immaginato. Certo il poeta che pochi anni prima aveva ultimato I quaderni di Malte Laurids Brigge era un lettore predestinato di Proust, ma la sua opera si differenzia profondamente dalla Recherche perché, contrariamente alla tesi di Proust del ricordo involontario, della mémoire involontaire, essa rappresenta il tentativo consapevole e intenzionale di «riprodurre» nuovamente la propria infanzia: un tentativo che egli stesso definí retrospettivamente come fallito poiché in luogo della propria infanzia era subentrata quella di un altro, dell’eroe immaginario Malte. Rilke divenne lettore di se stesso probabilmente solo quando lesse il primo volume di Proust. Ne dà conferma il passaggio di una lettera del 1914, un ricordo d’infanzia di un luogo di cura boemo, lettera scritta a Magda von Hattingberg, quell’amica a cui Rilke poco prima aveva inviato entusiasta la sua copia di Du Côté de chez Swann11.
La fedeltà con cui Rilke restituisce l’immagine fornita dalla memoria ricorda Proust. Nulla vi appare ritoccato, ciò che è logoro non subisce miglioramento, le lacune non vengono artificialmente colmate. Ad esempio manca il nome proprio della ragazza di cui si parla, i lineamenti del suo volto si sono dileguati, solo «qualcosa di snello, di biondo» attraversa fugacemente la memoria. Anche il suo comportamento nella scena descritta è sfuggito alla memoria di Rilke. Dalle risate, che ancora echeggiano nelle orecchie di Rilke, non è lecito trarre delle conclusioni poiché chi dice che quelle fossero sue risate? E l’immagine testimonia nei suoi spazi vuoti della peculiarità del suo pittore che non è Rilke ma la memoria stessa. Ad esempio della sua predilezione per l’acustico: essa conserva i cognomi in virtú della loro attrattiva e lascia sfuggire il nome proprio, essa trattiene la risata, ma non la persona.
Proustiano in quest’immagine, il cui carattere di abbozzo sarebbe impensabile nel Malte, è anche il luogo: il parco, la promenade. Si sa della loro importanza nel romanzo di Proust. Il parco di Tansonville, con il suo rosso biancospino dove il ragazzo Marcel intravede per la prima volta Gilberte (il ricordo di Rilke è stato probabilmente richiamato alla memoria, in un senso tutto proustiano, attraverso la lettura di questa scena), i giardini degli Champs-Elysées, in cui la ritrova, sono – insieme al lungomare di Balbec, il regno di Albertine – i luoghi piú importanti della Ricerca del tempo perduto di Proust. Troviamo cosí all’inizio dell’ultimo volume, del Temps retrouvé, il parco di Tonsonville e poi, poco prima che l’eroe del romanzo risolva gli enigmi della memoria e del tempo, il reincontro con i giardini degli Champs-Elysées.
Non sarà quindi un caso che anche il libro che Benjamin ha scritto come lettore di se stesso, Infanzia berlinese, inizi con la descrizione di un parco, il Tiergarten. Per quanto grande sia apparentemente la differenza tra questa raccolta di brevi brani e le tremila pagine del romanzo di Proust, essa testimonia della fascinazione di cui si parla nella seguente affermazione di Benjamin. La frase «Come una madre che accosti il neonato al petto senza svegliarlo, cosí la vita procede per lungo tempo con i ricordi ancora gracili dell’infanzia» richiama l’esperienza fondamentale dell’opera di Proust: che quasi tutto ciò che fu l’infanzia può essere per anni sottratto a una persona per poi essergli donato all’improvviso e come per caso. Ricorda Proust la d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Infanzia berlinese
  3. Infanzia berlinese intorno al millenovecento. [Ultima redazione (1938)]
  4. Premessa
  5. Logge
  6. Kaiserpanorama
  7. Colonna della Vittoria
  8. Telefono
  9. A caccia di farfalle
  10. Tiergarten
  11. In ritardo
  12. Libri per ragazzi
  13. Mattini d’inverno
  14. Steglitzer Straße angolo Genthiner Straße
  15. Due immagini enigmatiche
  16. Mercato coperto
  17. La febbre
  18. La lontra
  19. Isola dei pavoni e Glienicke
  20. Un annuncio di morte
  21. Blumeshof 12
  22. Serata d’inverno
  23. Krumme Straße
  24. Il calzino
  25. La Comarehlen
  26. Nascondigli
  27. Uno spettro
  28. Un angelo di Natale
  29. Disgrazie e delitti
  30. I colori
  31. Il cestino da lavoro
  32. La luna
  33. Due fanfare
  34. L’omino con la gobba
  35. Frammenti da altre redazioni
  36. Postfazione di Theodor W. Adorno
  37. Nota al testo di Rolf Tiedemann
  38. Speranza nel passato. Su Walter Benjamin di Peter Szondi
  39. Il libro
  40. L’autore
  41. Dello stesso autore
  42. Copyright