1. La diseguaglianza sessuale.
Dai principî alle regole. Quali strumenti normativi soddisfano l’eguaglianza «molecolare» abbozzata nelle pagine di questo volumetto? Risposta: non può che trattarsi di misure che disegnano un diritto diseguale, per riequilibrare indebite posizioni di svantaggio. Misure che agiscano verso il basso, anziché verso l’alto del trattamento di favore già riconosciuto a questo o a quello; che ripristinino l’eguaglianza nel punto di partenza, non in quello d’arrivo; che si giustifichino per la ragionevolezza e la proporzionalità dell’intervento; che infine vengano destinate ai gruppi, non ai singoli individui, non all’universalità del genere umano. E quali gruppi, quali categorie sociali possono rivendicarne l’applicazione? In primo luogo le donne, l’altra metà del cielo. Escluse dal consesso degli eguali da tempo immemorabile, come attesta una sentenza di Aristotele: «generare femmine è frutto di parziale impotenza»1. Dal pregiudizio deriva la discriminazione, dalla discriminazione la prevaricazione.
Il rimedio? Azioni positive, ne abbiamo già parlato (cap. III, § 6). Ossia vantaggi nell’accesso al lavoro, alla politica, alle cariche apicali, che specularmente si traducono in svantaggi per i concorrenti di sesso maschile. Trasformando perciò il prevaricatore in un prevaricato, quantomeno in talune circostanze. Negando, per una volta, l’ipocrisia dell’eguaglianza formale. E infine orientando il processo selettivo in base a un’esigenza di giustizia, anche a costo di penalizzare il merito, le capacità dei singoli individui. Da qui l’obiezione costantemente sollevata contro l’uso delle azioni positive. È il concetto espresso da un filosofo, per mezzo di un esempio forse un po’ brutale ma certo assai eloquente: «Non mi sarebbe di nessuna consolazione uscir male dalla sala operatoria, sapendo che una donna meno capace, o un uomo meno capace, sono stati portati al posto di chirurgo da un nobile principio di giustizia»2. Anche perché non è detto che l’azione positiva rimetta davvero in equilibrio posizioni di svantaggio: potrebbe viceversa favorire una donna agiata e colta, magari a spese d’un poveraccio figlio di poveracci, che ha il solo torto d’essere nato uomo3. E non è nemmeno detto che la misura di favore sia davvero un favore per le donne: potrebbe offenderne la dignità, dato che a nessuno fa piacere sentirsi trattato come un panda da proteggere. Alimentandone, in conclusione, il sentimento d’inferiorità sociale, anziché lenirlo.
Ma sta di fatto che fra la protezione e la discriminazione è sempre preferibile la prima. Anche perché la seconda, ben piú della prima, offende il merito, ne impedisce il riconoscimento. Oltre a inabissare l’autostima, la fiducia in se stessi. Ecco perché il vento dell’affirmative action soffia ormai ai quattro lati del pianeta. L’Unione europea ne consente l’uso fin dal 1976, allo scopo di raggiungere un’effettiva parità fra i sessi nella formazione professionale e nel lavoro; e dal 1984 ne raccomanda espressamente l’adozione. La Carta di Nizza del 2000, col suo catalogo di diritti fondamentali attribuiti a tutti i cittadini del Vecchio continente, benedice ogni misura che rechi specifici vantaggi al sesso sottorappresentato. Disposizioni analoghe s’incontrano nei testi costituzionali piú recenti: è il caso dell’Argentina, della Colombia, della Bolivia, della Svezia, del Sudafrica. Altre nazioni hanno modificato le proprie Carte costituzionali per rendere legittime le «discriminazioni alla rovescia», quando elargite per bilanciare altrettante discriminazioni sociali: lo ha fatto la Germania nel 1994, il Portogallo nel 1997, la Francia nel 1999, la Grecia nel 2001, il Belgio nel 2002, l’India nel 2006 (in questo caso a vantaggio di alcune comunità tribali e della casta degli “intoccabili”). Nel 2003 lo ha fatto anche l’Italia, per consentire azioni positive in favore delle donne nella materia elettorale. Altri Stati ancora hanno proceduto per via legislativa o giurisprudenziale, senza emendare la Costituzione, ma allestendo comunque un arco variegato d’interventi: cosí in Brasile, in Polonia, in Spagna, nel Regno Unito e in vari altri Paesi.
Se lo strumento è utile, bisogna tuttavia munirlo di qualche istruzione per l’uso. In primo luogo, ogni politica di azioni positive va giustificata in base a un’analisi statistica, che a sua volta documenti il gap sofferto dalle donne o in generale dalla categoria che riceve il beneficio. La popolazione femminile viene storicamente discriminata sul lavoro, ma non in tutti i lavori. Nella scuola, per esempio, le insegnanti sono piú degli insegnanti. Cosí come sono in maggioranza donne a vincere il concorso in magistratura. In entrambi i casi suonerebbe dunque irragionevole qualsiasi misura di favore; semmai, quest’ultima dovrebbe rivolgersi ai maschietti, come talvolta avviene in Scandinavia. D’altronde, anche grazie a questa leva d’intervento, le donne italiane continuano a scalare posizioni. Secondo uno studio della Bocconi, dal 2008 al 2013 le dirigenti sono aumentate del 16% nel settore privato, del 20,3% nelle Regioni, del 24,5% nei ministeri (dove sono ormai 4 su 6). Sempre nel 2008, le parlamentari italiane erano poco piú del 20%; alle elezioni del 2013 sono diventate un terzo del totale; alle europee del 2014 le elette hanno raggiunto il 40%.
C’è allora un rischio da evitare, specie in Italia, dove abbiamo scoperto le affirmative actions con quarant’anni di ritardo sugli Usa (la prima legge è la n. 125 del 1991). Il rischio di proseguire su questa strada per inerzia, magari perché è trendy, perché di questi tempi i governi sfoggiano ogni promozione femminile come una medaglia al valore. Il 22 febbraio 2014 il governo Renzi ha esordito con 8 ministre su 16: la parità spaccata. In seguito ha nominato 3 donne ai vertici delle piú grandi società partecipate dallo Stato (Marcegaglia all’Eni, Grieco all’Enel, Todini alle Poste). E ha fatto bene: spesso un gesto è piú potente di una legge, perché la parità di genere – quando viene praticata nei fatti, anziché declamata in astratto – esprime un valore pedagogico, concorre a rovesciare il pregiudizio che ha fin qui ostacolato la piena emancipazione delle donne. Purché non diventi regola perenne, impermeabile rispetto alle situazioni e alle stagioni della storia. Purché non sia una regola di ferro, senza flessibilità, senza capacità d’adattamento ai casi della vita. Purché la regola in questione venga applicata gradualmente, evitando d’innescare effetti troppo dirompenti.
Serve, insomma, qualche precauzione. Che accadrebbe, si è chiesto Ronald J. Fiscus, se lo Stato della California decidesse di sanare immediatamente tutte le discriminazioni passate, stabilendo che l’accesso ai pubblici uffici è riservato esclusivamente alle minoranze, fin quando non si perverrà a una rappresentanza proporzionale del ceto impiegatizio?4. Una soluzione del genere si tradurrebbe non tanto nella compressione dei diritti della maggioranza, quanto piuttosto nella loro radicale negazione; inciderebbe sul godimento stesso del diritto, e non già sulle modalità del suo esercizio. D’altra parte pretendere di sanare in una sola volta secoli d’ingiustizie sarebbe davvero irragionevole; l’approccio dev’essere graduale, altrimenti dall’ingiustizia sorgerebbe un’ingiustizia anche peggiore.
Da qui il secondo accorgimento, che incide sugli strumenti pratici con cui può realizzarsi ogni politica di azioni positive. Come mostra l’esperienza nordamericana, in sostanza le leve d’intervento sono due: goals e quotas. La prima leva attribuisce un bonus, un premio, un punteggio piú elevato alle donne, ai neri, o comunque ai membri della categoria svantaggiata; però senza compromettere il diritto di ogni candidato a concorrere per tutti i posti disponibili, quindi senza prefigurare l’esito della competizione. In breve, essa determina un’eguaglianza nei punti di partenza, non sulla linea del traguardo. Invece il sistema delle quote punta su una riserva rigida dei posti disponibili, destinandone una frazione (un quarto, un terzo, la metà) alla categoria protetta; qui l’eguaglianza si determina perciò all’arrivo, non all’inizio della corsa5. Evidentemente, solo il primo strumento è compatibile con i principî liberali, scolpiti nelle Costituzioni di tutto l’Occidente; ma i politici italiani si sono innamorati del secondo. Deformando la parità di accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive (sancita dall’art. 51 della Costituzione italiana), perché quest’ultima protegge la possibilità, non il diritto ad ottenere quel particolare posto in palio6. E deformando altresí lo stesso concetto di rappresentanza, piegato alla nozione sociologica della rappresentanza-specchio, per cui solo una donna può rappresentare un’altra donna, cosí come soltanto un operaio può rappresentare gli operai7.
2. La diseguaglianza anagrafica.
C’erano un tempo la destra e la sinistra, sempre in baruffa come cani e gatti. Adesso quella contrapposizione non va piú di moda: in politica, lo scontro si consuma ormai fra vecchio e nuovo. E ovviamente il nuovo è cool, è giovane per definizione. L’aria che tira è questa: addosso agli anziani. Discriminati, cacciati, rottamati in ogni ufficio pubblico o privato. E chissenefrega se l’anagrafe non costituisce un merito, né piú né meno del colore degli occhi, o della statura che il Padreterno ci ha donato in sorte. Chissenefrega del passato, delle sue lezioni. «Giovinezza, primavera di bellezza»: era l’inno del fascismo, ma oggi trionferebbe pure a Sanremo. Di conseguenza la discriminazione anagrafica pesa piú di quella sessuale, benché nessuno se ne curi, benché sia una notizia che non fa notizia. Secondo una ricerca dell’università Bocconi (febbraio 2012), l’età è un ostacolo per il 52% dei dipendenti, mentre il genere ne penalizza il 44%.
In quest’astio verso i capelli bianchi si riflette senza dubbio una reazione (comprensibile, anzi sacrosanta) contro la gerontocrazia che ci ha dominato negli ultimi vent’anni. Politici immarcescibili: durante la seconda Repubblica sono cambiate vorticosamente le sigle dei partiti, mai le facce dei signori di partito. Classi dirigenti immobili, nella burocrazia, nelle banche, all’università, nel mondo delle imprese. Promozioni per anzianità, anziché per merito. Priorità ai vegliardi, sia quando si tratta di sostituire il Direttore generale di un’azienda sanitaria (gli subentra il piú anziano fra il Direttore amministrativo e quello sanitario: art. 3 del decreto legislativo n. 502 del 1992), sia per attribuire il ruolo di coordinatore nell’ufficio del giudice di pace (al «piú anziano di età»: art. 15 della legge n. 374 del 1991). Favori di legge agli ultrasessantenni, dalla pensione sociale all’assegnazione degli alloggi nell’edilizia pubblica, dalle detrazioni fiscali alle tariffe agevolate in treno o sulla bolletta del gas (grazie a due delibere delle authority: 237 e 314 del 2000). Infine assunzioni agevolate per gli ultracinquantenni, con un paio di leggi (nn. 2 del 2009 e 122 del 2010) che hanno chiuso in gloria una stagione ormai ingiallita come le fotografie del nonno.
E adesso? Dalla carezza alla monnezza. Ma noi italiani siamo fatti cosí: detestiamo le mezze misure. Da qui l’idea della (giovane) ministra Madia, esposta al popolo plaudente nella primavera del 2014: staffetta generazionale nella pubblica amministrazione. Tre dirigenti in pensione anticipata, un giovane funzionario assunto. Anche se magari quei tre sono pure bravi, il nuovo non si sa. Anche a costo di passare dagli esodati del governo Monti agli staffettati del governo Renzi. Da qui, già in precedenza, un decreto del governo Letta: nel giugno 2013 decise incentivi per l’assunzione a tempo indeterminato dei giovani sotto i trent’anni. E chi di anni ne ha 31? E i cinquantenni che perdono il lavoro, troppo giovani per andare in pensione, troppo vecchi per trovarne un altro? Perdono anche il voto, o quantomeno lo dimezzano, secondo la proposta di legge depositata alla Camera il 10 gennaio 2012 da Giulio Tremonti: voto doppio per gli under 40, quindi ai piú anziani resterebbe soltanto mezzo voto.
Ma non è solo la politica, a dichiarare guerra agli attempati. Un’inchiesta della «Stampa» (marzo 2013) ha rivelato il caso degli annunci di posti di lavoro alla Camera e al Senato, dove quasi sempre viene indicata un’età massima. Idem in Tv, per fare un altro esempio; in Italia come nel Regno Unito, dove le donne over 50 rappresentano il 7% appena fra i lavoratori della Bbc. Varie ricerche attestano che gli ultraquarantenni sono carne morta, per i selezionatori di risorse umane nelle aziende: non li considerano. Mentre il Tribunale di Milano (ordinanza 9 luglio 2010) ha giustificato la discriminazione anagrafica sancita in un bando d’assunzione per gli autisti. Chissà perché, dal momento che l’esperienza casomai migliora le capacità di guida. E chissà se un tribunale si ribellerà una volta o l’altra alle persecuzioni e vessazioni che colpiscono gli ultrasettantenni, per esempio nell’assistenza sanitaria: uno studio di eCancer Medical Science (novembre 2013) dimostra che non ricevono cure oncologiche adeguate, perché i trattamenti all’avanguardia sono riservati ai giovani.
C’è una parolina che denomina questa forma di discriminazione: ageism. Si traduce come «ageismo» oppure «anzianismo», ma non a caso la parolina ha un conio americano. Negli Usa l’Employment Act del 1967 protegge chi ha almeno 40 anni; fanno altrettanto il codice dei diritti umani dell’Ontario e la legge sui diritti umani dello Stato di New York, con un lungo elenco di divieti. Per esempio: le agenzie per l’impiego non ...