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L'economia mondiale dal 1945 a oggi

  1. 272 pagine
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L'economia mondiale dal 1945 a oggi

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In questo saggio, che incrocia esemplarmente storia, geopolitica ed economia, Thomas W. Zeiler ricostruisce la genesi e l'evoluzione dell'interdipendenza economica globale sottolineando il decisivo ruolo svolto dagli Stati Uniti nel promuovere un sistema commerciale, di investimenti e transazioni aperto e interconnesso (il «regime americano della open door»), che si sarebbe rivelato la vera e propria anticamera della globalizzazione economica contemporanea. Si trattò di una politica variamente intrecciata alla strategia americana dell'epoca della guerra fredda, finalizzata a consolidare la potenza economica degli alleati occidentali di contro alle nazioni del blocco sovietico, anche se talvolta i due obiettivi - economico e geopolitico -si dimostrarono tutt'altro che compatibili. Infatti, mentre la guerra fredda favoriva la divisione del globo in blocchi, le forze economiche mondiali dopo il 1945 stavano convulsamente premendo in direzione opposta. Se la liberalizzazione delle pratiche commerciali portò al rilancio economico e politico di grandi potenze devastate dal secondo conflitto mondiale, altri paesi emergevano prepotentemente in virtú di essa, imponendosi ormai come agguerriti concorrenti dell'invincibile gigante americano.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858419564
Argomento
History
Categoria
World History
Capitolo primo

Porte chiuse

Nel bel mezzo della seconda guerra mondiale, mentre gli Alleati combattevano per tagliare i rifornimenti di materiale strategico alle potenze dell’Asse e incrementare l’offerta di beni di produzione americana, gli Usa e la Gran Bretagna cominciarono a concepire le istituzioni economiche mondiali del dopoguerra. L’obiettivo mirava alla promozione di un’economia globale gestita in maniera multilaterale che aprisse l’Europa e altre zone commerciali di primo piano ai beni, al denaro e all’influenza statunitensi, il che comportava l’esposizione dell’economia americana alla concorrenza estera. Washington prese di mira gli accordi commerciali dell’impero inglese che discriminavano i prodotti dei non membri. Pur approvando, in linea di massima, l’idea di reti economiche globali aperte, la Gran Bretagna difendeva il proprio sistema semichiuso di commercio preferenziale all’interno dell’impero. Optando per la «modalità sopravvivenza», gli inglesi accettarono un graduale indebolimento del protezionismo imperiale per potersi garantire i generosi aiuti americani e, con quelli, tenere a galla l’economia nei tempi duri della guerra e della ricostruzione postbellica. Le trattative sugli elementi essenziali delle nuove istituzioni economiche internazionali e il cambiamento dei rapporti di forza angloamericani riflettono il predominio degli Stati Uniti, anche se un vero processo multilaterale sarebbe subentrato soltanto nel momento in cui le nazioni alleate si fossero rimesse in piedi. Nel periodo dell’immediato dopoguerra, fu l’unilateralismo americano nell’economia mondiale, e non la globalizzazione, a consolidare l’egemonia di mercato degli Usa.
Com’è ovvio, questa forza derivava dalle devastazioni causate dalla guerra in tutto il mondo. Gran parte dell’Europa e dell’Asia era in rovina. Sebbene gli osservatori Usa in particolare avanzassero previsioni ottimistiche sulla capacità delle economie europee di risollevarsi rapidamente, quelle speranze furono tradite sia dall’enormità della distruzione, sia dall’inefficacia degli sporadici aiuti economici e degli stimoli fiscali pensati per rimettere in moto l’economia capitalistica in vista di una ripresa definitiva. La catastrofe provocata dalla guerra negli altri paesi, unita alla capacità produttiva interna, aveva procurato agli Stati Uniti un enorme vantaggio economico e una presenza determinante sul mercato internazionale. Le cifre sono sbalorditive; il paese era un monolito di produzione e consumi, quale non si era mai visto prima, né si sarebbe piú conosciuto dopo. Con appena il 6 per cento della popolazione mondiale nel 1945, gli Usa producevano quasi metà dell’energia mondiale consumandone il 40 per cento; e grazie al controllo delle riserve petrolifere globali (59 per cento), non deve sorprendere che la produzione automobilistica statunitense fosse otto volte superiore a quella di Gran Bretagna, Francia e Germania messe insieme (e cento volte maggiore di quella dell’Urss, sua nuova rivale) e che il 60 per cento delle auto di tutto il mondo circolasse sulle strade americane. Nel 1950, i consumatori americani facevano la parte del leone quanto all’uso di frigoriferi, telefoni e televisori (questi ultimi posseduti quasi al 100 per cento da acquirenti Usa). Naturalmente, il potere d’acquisto era sostenuto da livelli di reddito elevati; alla fine degli anni quaranta, gli americani guadagnavano il doppio dei lavoratori inglesi, il triplo dei francesi, il quintuplo dei tedeschi e sette volte di piú del russo medio. Oltre al predominio nel commercio mondiale e al controllo di quasi metà di tutte le riserve valutarie e auree, gli Usa erano veramente, nelle parole di uno storico, «il paese dove scorrono latte e miele» in mezzo alla disperazione e alle difficoltà delle altre economie1.
Detto questo, gli Stati Uniti si trovavano ad affrontare un compito molto arduo a causa delle condizioni di guerra; non era quello il momento di imporre misure di apertura commerciale multilaterale. Da tempo il paese registrava consistenti saldi attivi della bilancia commerciale con l’Europa e il Commonwealth inglese e trascurabili disavanzi con l’Asia e l’America Latina, ma arrivati al 1946 l’eccedenza commerciale aveva compiuto un vero e proprio balzo in avanti, toccando un totale di 3,3 miliardi di dollari nei confronti dell’Europa, oltre 1 miliardo con le nazioni britanniche, quasi mezzo miliardo con l’Asia e 320 milioni con l’America Latina. Questi partner commerciali potevano trovare una loro strada per porre rimedio agli squilibri commerciali con gli Usa – e per alcuni, come la Germania e la Francia, la ripresa fu relativamente rapida – ma i disastri della guerra ostacolavano la ricostruzione e, di conseguenza, un’economia globale equilibrata2.
La seconda guerra mondiale aveva distrutto territori e infrastrutture, sistemi politici e ideologie, oltre ad annientare vite umane insieme al tessuto economico dell’Europa occidentale e orientale, della Cina e del Giappone, mentre alla Gran Bretagna, finanziatrice del capitalismo, l’impegno per sconfiggere e sopravvivere al fascismo era costata la bancarotta. Intere economie avevano cessato di funzionare o procedevano a singhiozzo, i morti e i feriti erano decine di milioni, e centinaia di milioni le case e le aziende distrutte. La mancanza di cibo affliggeva vaste aree del mondo, in particolare in Europa e in Asia. Grandi città – Amburgo, Manila, Varsavia – erano andate distrutte e i bombardamenti aerei a tappeto avevano raso al suolo le fabbriche tedesche e ridotto drasticamente il traffico commerciale in porti di primaria importanza come Rotterdam, Londra e Tokyo. A causa dei danni subiti dalla rete dei trasporti europea, le campagne rimanevano isolate dai centri commerciali. Le flotte mercantili tedesca e giapponese non esistevano piú. L’Unione Sovietica, da parte sua, confiscava territori, fabbriche e aziende agricole obbligando le persone a lavorare per l’Urss. Questo sistema coercitivo indebolí ulteriormente la Germania garantendo ai sovietici la superiorità nell’Europa centrale. Il rigidissimo inverno del 1946-47 s’abbatté brutalmente su tutta l’Europa, una regione messa in ginocchio dalla guerra e senza nessuna prospettiva all’orizzonte.
2. Manila: un plotone americano pattuglia l’antica città fortificata (2 marzo 1945). Le distruzioni evidenziano l’imponente sforzo che sarà necessario nel dopoguerra per la ricostruzione.
2. Manila: un plotone americano pattuglia l’antica città fortificata (2 marzo 1945). Le distruzioni evidenziano l’imponente sforzo che sarà necessario nel dopoguerra per la ricostruzione.
Il bisogno (e la possibilità) di essere salvati dagli Usa era evidente. Il programma Lend-Lease, che aveva garantito agli Alleati aiuti per 42 miliardi di dollari in beni e servizi durante la guerra, lasciava presagire il crescente dominio americano sull’ordine economico internazionale. Sebbene l’obiettivo principale del programma si concentrasse sulla vittoria militare attraverso gli aiuti, i negoziatori statunitensi insistettero con la Gran Bretagna per un allentamento delle restrizioni imperiali in materia di commercio e finanza nei confronti dei paesi esterni al Commonwealth in cambio dei miliardi di dollari stanziati dal programma Lend-Lease. Anche se il presidente Franklin Roosevelt non avrebbe mai sfruttato la gravità della situazione di Londra negando il proprio aiuto, era chiaro l’obiettivo di gettare solide basi per le forze di mercato dopo la guerra, e la Gran Bretagna dovette suo malgrado accettare questa realtà. Di conseguenza, gli aiuti bellici (e le discussioni del 1946 in relazione a un prestito di 3,75 miliardi di dollari alla Gran Bretagna) furono oggetto di trattative stizzite che provocarono le dure reazioni dei sostenitori dell’impero. Il programma Lend-Lease difendeva gli interessi americani – in primis sconfiggere il nazismo e il militarismo giapponese – ma quegli aiuti rappresentavano anche una piattaforma per le idee americane in materia di liberismo e per la loro proiezione nel mondo del dopoguerra.
Il fattore che proiettò gli Usa verso il predominio fu l’attività industriale in tempo di guerra. La produzione e la spedizione all’estero di forniture militari triplicarono abbondantemente il valore delle esportazioni Usa che, a loro volta, contribuirono a raddoppiare il prodotto interno lordo del paese. Industriali, agricoltori e operai si guadagnavano da vivere potendo contare su una crescita costante, che li metteva al riparo da un temuto ritorno all’insolvenza e alla disoccupazione che avevano caratterizzato gli anni della Grande Depressione. Il commercio estero parve acquisire maggiore importanza per la stabilità e la crescita dell’economia interna. I leader statunitensi fecero quindi in modo che nell’economia mondiale circolasse denaro sufficiente a garantire liquidità e investimenti, oltre a sgombrare il piú possibile il campo dagli ostacoli al libero commercio di beni e servizi, affinché tutte le nazioni godessero del benessere necessario ad acquistare merci dagli Usa. Non a caso, la difesa interessata dei meccanismi di mercato da parte statunitense fu uno dei presupposti che, all’indomani del conflitto mondiale, portarono alla creazione degli organismi internazionali deputati al governo degli affari monetari e commerciali3.

1. Finanziare l’egemonia.

Nel luglio 1944 piú di settecento delegati di quarantaquattro nazioni alleate si riunirono in una località del New Hampshire per elaborare gli accordi di Bretton Woods, destinati a stabilire il sistema monetario internazionale postbellico. Due anni di discussioni tra inglesi e americani sulla misura in cui le relazioni economiche dovevano essere dettate dal mercato o controllate dalla supervisione dello stato condussero a un piano che affrontava tre questioni fondamentali: quali regole fossero necessarie per stabilizzare gli scambi economici globali, in che modo sarebbero state applicate e chi avrebbe salvaguardato il sistema. In passato il sistema aureo aveva fissato in modo permanente i tassi di cambio per impedire fluttuazioni finanziarie ritenute pregiudizievoli per delle relazioni economiche stabili, ma la rigidità di quest’approccio aveva costretto le nazioni ad adottare provvedimenti deflazionistici nei momenti difficili o addirittura ad abbandonare del tutto il gold standard (come fecero gli Usa durante la Grande Depressione). Il sistema progettato a Bretton Woods manteneva l’alto profilo dell’oro, ma Washington acconsentí ad agganciarvi il dollaro, che divenne cosí la valuta dominante a livello mondiale.
Accordare agli Stati Uniti un’influenza di questa portata non fu un’operazione indolore, ma occorre sottolineare come tutte le nazioni sentissero l’esigenza di un’economia mondiale multilaterale o di un sistema entro il quale piú nazioni, e non solo uno o due paesi egemoni, lavorassero di comune accordo alla ricerca di un’intesa. L’unico motivo di dissenso riguardava le modalità per arrivarvi. Ciò valeva in particolare per gli inglesi i quali, sotto la guida del rinomato economista John Maynard Keynes, avevano compreso che New York avrebbe preso il posto di Londra quale capitale finanziaria mondiale, il che avrebbe indebolito l’impero costringendolo a un’attenta regolamentazione dell’economia nazionale. Incuranti di queste pressioni, nel contesto degli accordi di Bretton Woods entrati in vigore nel 1947, le nazioni diedero vita al Fondo monetario internazionale (FMI), che aveva il compito di garantire la liquidità sufficiente allo svolgimento delle transazioni commerciali. Gli accordi portarono anche alla creazione della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS, uno dei cinque istituti che oggi costituiscono il World Bank Group), con una capitalizzazione di 10 miliardi di dollari e la funzione di concedere prestiti finalizzati allo sviluppo economico, in particolare per accelerare la ripresa delle zone flagellate dalla guerra. Un elemento di criticità per entrambe le istituzioni nel sistema di Bretton Woods era costituito dal predominio degli Usa i quali, avendo fornito il contributo economico maggiore alla costituzione del FMI, ricevettero in cambio un potere commisurato alla loro posizione nel fondo comune di valute e oro che costituiva il serbatoio del credito controllato dal FMI. Il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale garantivano cosí al dollaro statunitense il ruolo di moneta di riserva nel mondo del dopoguerra.
Preoccupati dalla minaccia dell’inflazione che poteva destabilizzare i prezzi, gli americani fecero ricorso alla loro smisurata potenza economica. In quanto massimi creditori mondiali, gli Stati Uniti imposero regole atte a difenderli dalle oscillazioni dei prezzi attraverso l’introduzione di misure nazionali di austerità nei paesi membri del FMI. Per concedere alle nazioni un periodo iniziale di adattamento consentendo loro di limitare il commercio e i pagamenti fino a quando non si fossero riprese dalla guerra, gli Usa insistettero sulla necessità che i membri limitassero la manipolazione monetaria a favore di altre misure, come la deflazione o la liquidazione di beni, per partecipare a un mondo multilaterale guidato dal mercato. L’eccezione fu rappresentata dall’Urss. Benché in un primo tempo Mosca avesse accettato di entrare nel sistema di Bretton Woods quale terzo maggiore sottoscrittore del FMI, i paesi occidentali salutarono con favore la partecipazione russa non tanto per ragioni economiche, quanto per incoraggiare l’amicizia diplomatica. Ma nel dicembre del 1945 Mosca prese le distanze dal FMI, anche perché aveva capito che il sistema avrebbe consolidato ulteriormente la comunità capitalistica e gli Usa, potenziali rivali dell’Urss4.
I conservatori nel settore bancario e il Congresso degli Stati Uniti non si preoccuparono dell’abbandono sovietico e si concentrarono piuttosto su un accordo monetario che valorizzasse i punti di forza e gli interessi americani. Forti della promessa che Bretton Woods avrebbe consentito alla nazione di astenersi da consistenti programmi di aiuti economici internazionali, potenziali fonti di spreco, l’ebbero vinta ottenendo di elevare il dollaro a «valuta centrale» del sistema monetario. In realtà, questo significava che, sebbene le nazioni dovessero «agganciare» la loro valuta all’oro (fissandone la parità di cambio entro un intervallo previsto dal regime del FMI), era di fatto il dollaro a determinare i tassi di cambio. In sostanza, il dollaro era diventato il nuovo gold standard: le transazioni internazionali si basavano sul biglietto verde e tutte le nazioni fissarono la parità del loro tasso di cambio facendo riferimento al dollaro, la cui parità rispetto all’oro ammontava a 35 dollari l’oncia. Anche se la piena realizzazione del sistema richiese ancora alcuni anni, fino alla fine del periodo della ricostruzione nei primi anni cinquanta del Novecento, i pagamenti di beni e servizi scambiati in tutto il mondo, e quindi la base del regime multilaterale, avvenivano in dollari. Come disse il segretario al Tesoro Henry Morgenthau al dipartimento di Stato: «Il centro della finanza mondiale sarà New York. Per noi è un vantaggio, e penso ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Elenco delle illustrazioni
  4. Porte aperte
  5. Introduzione
  6. I. Porte chiuse
  7. 1. Finanziare l’egemonia
  8. 2. L’obiettivo del multilateralismo commerciale
  9. 3. Il liberismo ai tempi della crisi
  10. 4. L’economia della guerra fredda
  11. 5. Il campo di battaglia asiatico
  12. 6. Guerra e commerci
  13. 7. Economie sottosviluppate e aiuti internazionali
  14. II. Porte chiuse, ma non a chiave
  15. 1. Aiuti
  16. 2. L’epoca anticolonialista
  17. 3. La rivolta del Terzo mondo
  18. 4. Nord e Sud nella guerra fredda
  19. 5. Est-Ovest
  20. 6. La sfida europea
  21. 7. L’impresa multinazionale
  22. 8. L’epilogo di Bretton Woods
  23. III. Forzare le porte
  24. 1. I sogni del Terzo mondo
  25. 2. Debito e interdipendenza
  26. 3. La stagnazione africana
  27. 4. Il secolo del Pacifico
  28. 5. Cina e India
  29. IV. Porte aperte
  30. 1. Integrazione
  31. 2. Battaglie commerciali
  32. 3. La crisi
  33. 4. Stato o mercato?
  34. 5. Conseguenze della grande recessione
  35. 6. Un bilancio
  36. Saggio bibliografico
  37. Bibliografia scelta
  38. Elenco dei nomi, dei luoghi e delle cose notevoli
  39. Il libro
  40. L’autore
  41. Copyright