Pensare l'Italia
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Pensare l'Italia

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Due intellettuali, diversi per formazione, studi e storie culturali, ma uniti dalla volontà di capire, in un dialogo sul loro Paese.
Ora che l'ondata di celebrazioni per l'anniversario dell'Unità italiana sta per concludersi, si avverte la necessità di un bilancio: dove siamo esattamente, e in che modo e perché ci siamo arrivati?
Solo cosí potremo renderci conto di come sia forte e realistico il rischio di un declino già altre volte sperimentato nella nostra storia, e quanto sia ancora possibile mantenere aperte le porte del nostro futuro. *** «Discutono di tutto, senza essere d'accordo su niente (...) Eppure, proprio per questo, il dialogo tra Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone è prezioso (...) Il loro scambio però non è dettato da boria erudita, ma da una spinta civile: capire quale destino aspetta l'Italia (...)» Marina Valensise, «Panorama»

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Informazioni

Capitolo quarto

Antropologia italiana

A.S. Quando si individuano nei nostri comportamenti collettivi tratti come la tendenza corporativa di cui abbiano appena discusso (tu dicevi «una predisposizione al privilegio»), una domanda diventa inevitabile. Questi atteggiamenti cosí diffusi fanno parte di un «carattere» italiano con cui dobbiamo fare i conti, una specie di costante sullo sfondo della nostra vita sociale? E possiamo fissarne gli aspetti piú salienti?
Sarei portato a rispondere di sí in entrambi i casi.
Credo cioè che esista un certo numero di dispositivi sociali e mentali – risultato di una selezione e di una stratificazione plurisecolare – sospesi tra storia, geografia e antropologia, che condizionano le nostre condotte e le nostre scelte. Non il rivelarsi misterioso di un’impronta originaria, ma l’esito di un lungo accumulo storico, una memoria involontaria di passaggi vincolanti del nostro passato, depositata in una struttura di predisposizioni e di attitudini.
Nella nostra storia questo «carattere» italiano si è formato assai prima che nascesse uno Stato unitario, in grado di dar vita a una «nazione». Un’altra contraddizione della nostra unità è stata quella di aver messo dentro un guscio nazional-statuale tardivo e improvvisato un’identità, un modo di essere italiani, un carattere collettivo insomma, che aveva invece alle sue spalle un passato lunghissimo, formatosi tutto al di fuori dello Stato unitario. Per due volte, separate da quasi un millennio, l’Italia aveva figurato come protagonista assoluta sulla scena dell’Occidente. La prima aveva riguardato l’antichità imperiale romana – un passato sepolto ormai da grandi discontinuità, sopravvissuto solo come una lontana memoria da riattivare. La seconda, fra XII e XVI secolo, culminata nel Rinascimento, quando si formarono i primi tratti «moderni» della nostra «italianità». Era impossibile che questo percorso lunghissimo non lasciasse delle tracce, non solo materiali, nello spazio e nel territorio, ma mentali e di comportamenti.
Tu hai scritto altrove di una distinzione, che ritengo importante, tra «nazione» e «patria». Ebbene, se assumiamo il punto di vista delle élite culturali del Paese, a me pare che l’esistenza di un’identità italiana, di un nostro carattere comune, specifico e condiviso, sia preesistita per un lunghissimo periodo alla formazione di uno Stato nazionale. Per dirlo con un esempio: sia Dante sia Petrarca (sebbene in modo non coincidente) avevano già un’idea abbastanza compiuta dell’Italia come soggetto unitario. L’immagine di un sistema di connessioni, di una rete di affinità e di interdipendenze, di un incancellabile orizzonte condiviso – di mentalità, di istituzioni, di linguaggi, di pratiche sociali – sia pure non determinato politicamente, sullo sfondo della vita particolare di ciascuna comunità cittadina o regionale. La consapevolezza, insomma, di una «patria» comune, in parte nutrita di elementi ereditati dal passato romano, in parte alimentata da elaborazioni piú nuove: ma in ogni caso una presenza rilevante, incontrovertibile.
Su questo fondo originario, già attivo fra XII e XIV secolo, si vennero poi depositando contenuti meno risalenti, e piú legati a esperienze successive. Possiamo tentarne una rapida stratigrafia, che è in qualche modo una ricapitolazione di tutta la nostra vicenda.
In primo luogo un’antica dissociazione fra civiltà (artistica, filosofica, giuridica, scientifico-tecnica, di gusto, di stili di vita) e potenza (politico-militare). Fra ricchezza privata e virtú pubblica; fra ragione civile e forza politica: una scissione che almeno dal Trecento ha segnato tutto il nostro cammino. L’irresistibile pluralismo cittadino e regionale dell’Italia rese possibile il Rinascimento e insieme uno sviluppo economico senza precedenti (qualcuno ha persino scritto, esagerando, che avremmo sfiorato un’autentica rivoluzione industriale), ma non consentí – lo abbiamo visto – la formazione di una massa critica in grado di congiungere quantità e spazi indispensabili alla nascita di un grande Stato territoriale, come quelli che si stavano costruendo in Europa. Né avemmo il tempo di sperimentare soluzioni diverse e piú adatte a noi: il «sistema Italia» messo in piedi nel corso del Quattrocento si rivelò alla prova dei fatti politicamente fragilissimo, e fu spazzato via, malgrado gli splendori della sua vita civile e le performances della sua economia. Questa contraddizione – primi, ma indifesi – ci è restata da allora conficcata dentro. La tensione fra comunità locali e identità italiana, che avrebbe potuto risolversi nell’invenzione di una via originale all’integrazione, si esaurí invece in un accentuarsi delle lacerazioni. La Controriforma fu la guida del nostro declino. Nel cuore del Cinquecento, al posto di una coscienza nazionale che non riusciva a formarsi (senza Stato, niente nazione), come cominciava ad accadere in Francia, in Spagna, in Inghilterra, fummo investiti dall’onda di una normalizzazione religiosa che non lasciava respiro. Diventammo il terreno privilegiato di una grande offensiva cattolica, invece di essere il laboratorio di una nuova statualità (avremmo potuto pur diventarlo, in termini culturali). La Chiesa, del resto, aveva avuto da sempre una presenza in Italia con tratti del tutto specifici rispetto al resto della storia europea. Una peculiarità cosí marcata aveva già prodotto esiti di rilievo dal punto di vista del senso comune, delle mentalità collettive, della vita sociale. Mettemmo definitivamente la parrocchia al posto dello Stato: e questo stabilí rapporti di forza dal cui raggio non siamo piú venuti fuori, nemmeno in centocinquant’anni di storia unitaria.
La geografia civile e mentale del Rinascimento uscí stravolta dall’impatto con il nuovo disciplinamento, che si combinava al dissesto politico del Paese. Esso contribuí a cristallizzare un intero strato di quello che possiamo chiamare il carattere moderno degli italiani, sovrapposto alle precedenti scissioni di cui ho appena detto: la qualità di un mondo interiore di lunga durata. Se ne distinguono perfettamente i tratti: il prevalere, in ogni giudizio, dell’intenzione sulla responsabilità; la sensibilità per l’ombra, per l’oscurità irrimediabile della materia umana; la propensione rassicurante per la continuità, e l’orrore del salto e del cambiamento; una percezione ambivalente del potere: cui conviene adattarsi, perché nell’assecondarlo c’è comunque un principio di salvezza, ma ritagliandosi una propria personale misura di disobbedienza, combinata con l’ostilità verso le regole generali e l’uniformità delle leggi; la percezione dello Stato (spesso lontano e straniero, o controllato da stranieri) come di un possibile nemico, del quale diffidare sempre; l’attitudine alla sopportazione e alla pazienza; la duttilità di piegarsi, per non spezzarsi mai; una rappresentazione autosufficiente e molecolare di sé, chiusa nella dimensione privata o al massimo nella cerchia familiare (nulla a che vedere né con l’individualismo aristocratico antico, né con quello protestante e borghese della nuova Europa). Non dico che sia il nostro ritratto, oggi: ma si avvicina molto alla nostra radiografia.
E.G.d.L. Ascoltandoti mi veniva da pensare: ecco una peculiarità italiana. Di qualunque aspetto del nostro Paese si parli si salta subito alla storia, alla fine alla politica; e naturalmente alla Chiesa. Il nostro discorso pubblico, insomma, sembra sempre fermo lí: a Machiavelli e a De Sanctis. Per carità, non voglio dire che non ci siano per ciò delle buone ragioni ma allora, discorso storico per discorso storico, ti dirò che – anche sulla base di un minimo di comparazione con altri due Paesi ultracattolici come Spagna e Austria – a me, per spiegare certi nostri caratteri, sembra piú convincente il discorso sull’assenza di assolutismo che quello sulla presenza della Controriforma. Ci è mancato soprattutto lo Stato, la monarchia assoluta di ambito nazionale. E questa partita era già abbondantemente persa all’inizio del Cinquecento, prima di qualunque Controriforma. La Controriforma ha potuto dispiegare i suoi effetti proprio a causa di questo vuoto. Il suo disciplinamento sociale è stato un surrogato del mancato disciplinamento altrove esercitato dallo Stato monarchico, che da noi invece non c’era. La Chiesa ha riempito un vuoto, non l’ha creato.
Mi chiedo poi se invece di un’antropologia italiana ne esistano per caso almeno tre o quattro, a seconda delle varie aree geografiche della Penisola. Piú che mai siamo obbligati a farci questa domanda perché naturalmente l’antropologia che interessa soprattutto al nostro discorso è quella che ha a che fare con ciò che di solito si chiama «cultura civica». Soprattutto da questo punto di vista, allora, è difficile non considerare le ovvie, conosciutissime, differenze non solo fra Italia settentrionale e Italia meridionale, ma anche la forte peculiarità del Centro, le non piccole diversità tra Nord-est e Nord-ovest e, infine, alcuni caratteri specifici delle insularità sarda e siciliana.
Fino a oggi siamo stati convinti che comunque queste diversità si fossero alla fine coagulate in un carattere nazionale degli italiani, ma ammettendo che ciò sia vero in realtà non è mai stato studiato in quale misura le diverse parti del Paese abbiano contribuito a questo risultato finale. Se, per esempio, quello che oggi siamo portati a considerare il carattere italiano non risenta in misura determinante del contributo soprattutto dell’antropologia centro-meridionale. Anche perché ho l’impressione che il profilo di questo carattere nazionale, legato intimamente all’immagine che gli italiani danno abitualmente di loro stessi, sia, in parte assai significativa, una costruzione degli stranieri. O per meglio dire degli abitanti dell’Europa centro-settentrionale, della moderna, industrializzata, Europa urbano-protestante. Lo sguardo della quale è stato particolarmente colpito, da sempre, dall’antropologia degli italiani del Centro-sud, cioè di quella che era la piú distante da loro.
Gli italiani, peraltro, hanno sempre saputo, mi pare, di essere assai diversi gli uni dagli altri, pur accettando finora, nella sostanza, un’immagine unitaria di sé, e pur con gli inevitabili distinguo e le superficiali macchiettizzazioni basate sui reciproci pregiudizi. Da qualche tempo però non è piú cosí. Sembra quasi che non possa piú essere cosí. Sempre piú numerosi, infatti, sono gli italiani che pensano di essere «padani» e dunque fatti di tutt’altra pasta; ovvero sono convinti di essere «terroni» e che ciò li renda antropologicamente unici. Sembra quasi, insomma, che ormai in Italia gli «italiani» siano sempre gli altri. Assistiamo insomma a una forte territorializzazione non tanto dell’identità ma del sentimento che si ha di essa.
In quanto storici, tuttavia, e in quanto osservatori della società attuale credo che dobbiamo mantener fermo che, nonostante tutto, si possa parlare di un carattere nazionale degli italiani, che questo carattere esista realmente. C’è pur sempre tra noi un tratto comune di fondo, frutto di una storia che per molti aspetti ci ha diviso, ma che ancora di piú ci ha uniti: oltre che in comuni, decisivi orientamenti culturali e ideali, in una sensibilità di animo, in una declinazione di sentimenti, in una disposizione emotiva che restano tutt’oggi le nostre.
A.S. Di sicuro esistono differenze, anche marcate. Sono la conseguenza delle nostre accentuate articolazioni cittadine e regionali, percepibili sin dall’antichità e rigeneratesi nel Rinascimento: quelle stesse descritte nel mirabile De Italia illustrata di Flavio Biondo. E di sicuro la piú significativa è quella su cui insisti, fra Nord e Sud del Paese, già avvertibile nell’Italia romana. Del resto, Roma stessa non unificò mai davvero la Penisola; si limitò piuttosto a controllare le sue diverse realtà, lasciandole sopravvivere come mondi a parte, purché ognuno subordinato alla capitale. Ma questa lunga tradizione non ha impedito, come dicevo, il coagularsi di elementi comuni, impiantati in strati profondi del sentire collettivo.
Cristallizzazioni su cui la nostra educazione alla nazione e allo Stato, o, se preferisci, la presenza di una statualità italiana ha inciso relativamente poco, dimostrandosi, anche da questo punto di vista, fragile e inefficace. E su questa debolezza ha anche pesato il fatto che l’Ottocento – il secolo della nostra unità – fu anche il nostro periodo piú buio, in senso economico, sociale, culturale. Eravamo allora completamente fuori dell’Europa piú avanzata, e un abisso ci separava dagli ambienti che avevano visto svilupparsi la rivoluzione industriale e il trionfo della borghesia. Ma la coincidenza fra il raggiungimento dell’Unità e un’epoca di depressione tanto acuta è solo in apparenza paradossale: perché furono proprio le nostre miserevoli condizioni a consentire al Piemonte di riunire intorno a sé il Paese, senza esserne impedito dal nostro storico, incontenibile pluralismo, da quell’irriducibile policentrismo che è forse il carattere piú radicato nella nostra storia, e che, se non fosse stato depotenziato da una crisi rovinosa, avrebbe costituito un ostacolo insormontabile al realizzarsi di ogni disegno unitario, come era accaduto fra Quattro e Cinquecento (Machiavelli e soprattutto Guicciardini ne avevano ben saputo qualcosa!)
E.G.d.L. Condivido questa sottolineatura della non corrispondenza dell’identità nazional-statale con la molto, molto piú antica stratificazione identitaria delle varie parti della Penisola e dei suoi abitanti. Mi chiedo tuttavia se anche in altri Paesi la cui statualità siamo portati a considerare fortissima, tipo la Francia o la Germania, non sia accaduto qualcosa del genere. Eugene Weber ha mostrato come fino all’inizio del Novecento l’essere francesi abbia dovuto faticare moltissimo per affermarsi sulle diverse stratificazioni identitarie presenti nell’Esagono. Egualmente non dobbiamo dimenticare che per esempio l’impero tedesco rimase di fatto fino al 1918 una federazione di monarchie, ognuna gelosa custode del suo esercito, del suo sistema postale, delle sue ferrovie.
Mi pare poi che a livello di élite locali, specie di élite colte, in Italia sono sempre convissute due identità, e dunque anche due antropologie: quella locale, cittadina o regionale che fosse, e però anche quella nazionale-italiana, legata alla prestigiosissima tradizione culturale letteraria formatasi in area toscana e all’amalgama di usi, costumi, idee, di matrice diciamo cosí nazionale. Perlomeno a livello di élite, io credo che sia possibile rinvenire anche nel passato pre-unitario un carattere, un’antropologia comuni; che poi rispuntano fuori e fanno sentire il loro effetto negli anni del Risorgimento. Ed è sempre questo elemento, mi sembra, che alla fine, checché se ne dica, riesce tuttora a tenere insieme il Nord e il Sud della Penisola.
A questo proposito, quando poniamo l’accento, come facciamo tanto spesso, sui limiti e le manchevolezze attuali dell’unità politica e identitaria italiana, tendiamo a dimenticare l’abissale divario che centocinquant’anni fa separava il Nord dal Sud del Paese. Oggi siamo sommersi da una valanga di libri, ma non solo, tendenziosi e bugiardi, tutti rivolti a negare precisamente questo dato di fatto. È una vague culturale che da un lato accentua fino al parossismo la critica gramsciana al «colonialismo» del Nord, dipingendo l’Italia meridionale come una terra di conquista coloniale pura e semplice; dall’altro lato inventa – cosa che naturalmente in Gramsci era del tutto assente – che al momento dell’Unità il Sud fosse già sulla strada di un fulgido avvenire di progresso economico e sociale che per l’appunto l’Unità avrebbe stroncato.
Naturalmente le cose non stanno affatto cosí: è bizzarro ma pur necessario essere costretti a dirlo per l’ennesima volta. La storia, l’assenza di una significativa tradizione comunale, il regime della proprietà fondiaria, il tasso di analfabetismo, la qualità dei rapporti con i mercati stranieri, la resa dei terreni agricoli, l’estensione della rete ferroviaria e stradale, ogni cosa al momento dell’Unità rendeva la situazione del Mezzogiorno d’Italia drammaticamente diversa e deficitaria rispetto a quella dell’Italia settentrionale.
Avendo mente a questo divario credo che sia difficile non riconoscere lo straordinario successo che alla fine è arriso all’Unità italiana. Non da ultimo per il fatto che dopo un secolo e mezzo ne è nato un complessivo carattere italiano dove l’apporto antropologico meridionale si rivela fortissimo, in certo senso piú forte di quello centro-settentrionale.
A.S. L’origine della distanza fra Nord e Sud possiamo addirittura farla risalire alle vicende dell’Italia romana, alla storia agraria della romanizzazione della Penisola, anche se bisogna essere sempre molto prudenti nell’ipotizzare continuità fra antico e moderno. Le differenze si sarebbero riproposte, e accresciute, fra Tre e Cinquecento, e poi ancora nel generale declino successivo: un’eredità pesantissima per il nostro Stato unitario. È cosí che la «questione meridionale» diventò subito uno dei temi principali del dibattito nazionale, e da allora non ha piú smesso di esserlo. Sono d’accordo: è davvero incredibile questo revisionismo antiunitario che tende a presentare il Sud prima del 1860 come una specie di terra promessa, alla vigilia di chissà quale decollo industriale. Mi chiedo se su questa moda abbia anche influito in qualche misura un’eco di quella parte della storiografia americana che piuttosto di recente ha cercato di rivalutare l’economia schiavista del Sud degli Stati Uniti subito prima della guerra civile, presentandola come alla vigilia di un grande boom, soffocato dall’invasione nordista. Una specie di rivincita revisionista dei Meridioni e dei loro popoli (schiavi compresi). Non parlerei però di «straordinario successo» dello Stato unitario. Certo, qualche risultato si è ottenuto. E soprattutto, senza l’Unità, il disastro del Sud sarebbe stato inimmaginabile.
Devo aggiungere però con franchezza che oggi buona parte dei problemi del Mezzogiorno – e della sua specificità, anche antropologica – mi sembrano innanzitutto legati a questioni attinenti alla criminalità. Dovremmo chiederci, credo, come mai gli sviluppi di una specificità storica estremamente complessa, che tu giustamente sottolinei, siano alla fine confluiti nella costruzione di un’aberrazione mostruosa come le grandi associazioni criminali in Sicilia, in Calabria, in Campania, che stanno ormai divorando un’intera società, e trasformando il carattere dei suoi cittadini. Mi domando se, considerando l’enormità del fenomeno, non dobbiamo guardare con occhi nuovi alla storica debolezza della società civile meridionale, che non è stata mai capace di fronteggiare questa intossicazione, di creare forme alternative di aggregazione e di tenuta sociale. Forse, gli insediamenti operai degli anni Cinquanta e Sessanta – penso soprattutto a Napoli – riuscirono a creare un certo argine, ma poi, con la deindustrializzazione, tutto si è esaurito.
E.G.d.L. Piú che parlare genericamente di storica debolezza della società civile meridionale io parlerei di una sua forte propensione all’illegalità e, in certi casi e in certi strati sociali, alla violenza. Fattori entrambi che vanno ricondotti alla debolezza che nell’Italia meridionale ha storicamente caratterizzato il potere centrale, incapace di far rispettare il proprio comando con un appropriato uso della forza. La forza e il suo uso sono cosí rimasti tradizionalmente nelle mani dei privati, al servizio dei loro interessi. Un tempo i signori feudali, poi i proprietari latifondisti, oggi la mafia e la ’ndrangheta. Per la camorra, invece, si deve pensare a un’origine peculiarmente urbana, di disgregazione urbana.
Come tu hai ricordato, un elemento davvero nuovo alla discussione che stiamo facendo sul carattere nazionale lo ha portato di recente il libro di Roberto Esposito. Perché in quelle pagine a essere tipizzata in senso nazionale non è piú una presunta antropologia dagli incerti contorni, bensí una linea di pensiero storico-politico, un pensiero «italiano», fondato sulla triade vita-storia-politica che da Dante arriverebbe fino ai giorni nostri. Dico subito che a me è parsa una ricostruzione acuta e felicissima del mainstream ideologico del nostro Paese. Aggiungo immediatamente però che, a dispetto dell’autore – che sembrerebbe ipotizzare su questa base una posizione all’avanguardia per l’Italia –, io, invece, l’ho trovata una spiegazione convincente delle manchevolezze, dei vuoti e dei ritardi che affliggono tanto la compagine statale quanto la stessa società italiana (e vorrei dire pure l’individuo italiano).
Proprio stando a quello che dice Esposito, infatti, nella vicenda del Paese, nelle sue viscere, c’è da sempre troppa irrequietudine vitale, troppa storia, storia sempre di conflitti, di fazioni, troppa politica insomma, e, viceversa, poco Stato, poca capacità di darsi forme regolate e stabili di vita collettiva in grandi dimensioni, di produrre un’organizzazione sociale compl...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Pensare l'Italia
  3. Premessa
  4. Pensare l’Italia
  5. I. Finis Italiae?
  6. II. Le lacerazioni del Novecento
  7. III. L’inseguimento della modernità
  8. IV. Antropologia italiana
  9. V. Cultura e politica
  10. VI. Per concludere
  11. Il libro
  12. Gli autori
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright