Controllare e distruggere
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Fascismo, nazismo e regimi autoritari in Europa (1918-1945)

  1. 248 pagine
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Fascismo, nazismo e regimi autoritari in Europa (1918-1945)

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Qual è la differenza tra un regime autoritario e uno totalitario? Come spiegare la progressiva crisi della democrazia liberale nell'Europa occidentale e il processo di brutalizzazione della politica conseguente alla fine della prima guerra mondiale? Quali strategie consentirono a Hitler, Mussolini, Franco e Salazar di sedurre le popolazioni suscitando la loro adesione? In questo libro, che rifiuta ogni scorciatoia deterministica - per cui ogni dittatura sarebbe da considerarsi un arcaismo, una tragica e mostruosa parentesi, superata da un ineluttabile processo di civilizzazione che sfocerebbe nella democrazia - Johann Chapoutot, basandosi sulle piú recenti acquisizioni della storiografia, rintraccia le principali ragioni sociali, economiche e culturali che hanno consentito ai diversi regimi totalitari l'occupazione dello spazio politico europeo, in Germania, Italia, Francia, Spagna e Portogallo, tra il 1919 e il 1945 e oltre.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858417508
Argomento
Storia

Introduzione

Vista dall’Occidente e con gli occhi di oggi la storia contemporanea dell’Europa sembra essere ritmata da tre date determinanti: 1918, 1945 e 1989. Nel 1918 quattro democrazie in guerra (la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’Italia) hanno la meglio su due imperi: la Germania, che diventa una Repubblica, e l’Austria-Ungheria, di cui scompare l’impianto sovranazionale. Un terzo impero, quello zarista, alleato dei vincitori, ma sconfitto dalla Germania, scompare in quanto regime, spazzato via dalla rivoluzione bolscevica del 1917. Nel 1945, la democrazia liberale ha la meglio sul fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco. Ne condivide il merito con il comunismo russo che estende la sua egemonia sull’Europa dell’Est, prima di scomparire tra il 1989 e il 1991. La caduta del muro di Berlino sembra annunciare ciò che alcuni, da neohegeliani convinti, chiamano la «fine della storia»: la dialettica delle forze appartiene al passato, l’evento non esiste piú. Lo scorrere del tempo è ormai sedato, poiché d’ora in avanti la democrazia liberale alleata a un’antropologia, quella dei diritti dell’uomo, e a una pratica politica, quella della rappresentanza e della sovranità del popolo, la fa da padrona.
Le tre date 1918, 1945 e 1989 sembrano scandire l’avvento necessario e trionfante della democrazia, almeno in Europa. La teleologia a posteriori è una tentazione tenace in ambito storico, ove coloro che la praticano si mostrano spesso preoccupati di trovare un senso a ciò che, in assenza di un rigido schema di lettura, appare solo sotto la luce informe del caos.
Leggere la storia dell’Europa del XX secolo come il progressivo, ma ineluttabile, avvento di una democrazia trionfante induce a considerare il periodo 1919-45 al pari di una sfortunata parentesi, un’esitazione convulsiva, un singhiozzo mostruoso, prima che si ristabilisca lo Spirito del mondo, almeno quello del continente.
Per il periodo e per il tema che ci interessa, un racconto siffatto può essere contestato per tre motivi.
Prima di tutto il XIX secolo europeo ha conosciuto, rispetto ai due millenni precedenti, un inaudito stravolgimento delle società e delle culture. L’industrializzazione, l’esodo dalle campagne, l’urbanizzazione, il disincanto del mondo e dell’uomo, ormai reificato, ma anche, sullo sfondo, la Rivoluzione francese e il suo messaggio, hanno suscitato dubbi e interrogativi in Europa: gli Stati-nazione che si costruiscono, nel XIX secolo, si rivelano esitanti sulla natura del legame che li costituisce e sul modo auspicabile di devoluzione del potere.
I democratici celebrano la vittoria del 1918 e i trattati del 1919 come la vittoria di una concezione francese del legame sociale e del potere politico che, di fatto, si diffonde in ogni nuova costituzione che viene proclamata fra il 1918 e il 1920: i nuovi Stati imitano con deferenza le leggi costituzionali del 1875, fondatrici del regime francese della Terza Repubblica, cosí come il parlamentarismo britannico. Ora, la democrazia è lontana dall’aver vinto la guerra: la prima euforia è ingannevole, come dimostra la reazione antiliberale che ricopre il continente di regimi autoritari e fascisti a partire dal biennio 1921-22.
Questo fenomeno ci sembra, dall’alto delle nostre consapevolezze attuali, alquanto dannoso. Il 1940 e poi il 1945 sono passati da qui: sappiamo ciò che il fascismo e il nazionalismo, fiancheggiati dai loro amici e alleati autoritari, hanno inflitto all’umanità. Tale visione a posteriori misconosce tutta la seduzione che il fascismo e il nazismo hanno potuto esercitare su milioni di loro contemporanei. Questa seduzione fu notevole, indotta dalla retorica, da un decorum e da un ethos che mettevano a frutto il credito di cui godeva la violenza a partire dalla Grande Guerra. Essa fu sia intellettuale sia culturale: il fascino per la violenza da parte degli squadristi italiani, delle SA e dei franchisti è coesistita con una reale stima nutrita verso la soluzione fascista o autoritaria. Contrariamente a una democrazia liberale poco adatta a rinnovarsi, e fondata su postulati razionalisti e umanisti brutalmente invecchiati dall’esperienza del 1914-18, fascismo, nazismo e altri regimi autoritari si sono confrontati con determinazione con i problemi posti dal XIX secolo europeo e con quelli lasciati in eredità dalla Grande Guerra.
Tali questioni riguardano prima di tutto il legame sociale: come creare l’unità di una moltitudine di individui? In altre parole: come trasformare un aggregato in gruppo? E quale tipo di gruppo era preferibile formare: una società o una comunità?
Esse riguardano poi il potere e la sua modalità di devoluzione: ci si può affidare al suffragio universale, fondato su un postulato egualitarista, per risolvere i problemi che si pongono alla comunità? Si può fare a meno, per creare un legame sociale e politico, di un dominio carismatico o tradizionale e fondare la comunità politica sull’unica modalità di dominio legale-razionale (Max Weber)?
La seconda serie di interrogativi costituisce il lascito problematico della seconda guerra mondiale: quale credito accordare alla ragione, all’umanesimo razionalista, all’ideologia del progresso, al «processo di civilizzazione», dopo quattro anni di un simile massacro? Ogni uomo non sarebbe in fondo quell’animale e quel barbaro che egli denuncia nell’avversario? Come rappacificare gli uomini e i gruppi umani? È possibile, dopo quattro anni di incitamento all’assassinio e al massacro da parte dello Stato, ristabilire il monopolio della violenza fisica legittima (anche in questo caso Max Weber)? È possibile chiedere la restituzione delle armi e invitare 8 milioni di uomini in Francia, 10 milioni in Germania, 66 milioni in tutta l’Europa, a ritornare nelle proprie case e a adattarsi nuovamente alla tranquilla temporalità del quotidiano, alla quieta etica delle opere e dei giorni, dopo quattro anni di parossistico esercizio della violenza? È anche solo possibile un’uscita dalla guerra, e lo Stato può imporla? Lo Stato stesso, il suo inedito ruolo rappresenta una delle eredità imbarazzanti del conflitto: lo Stato etico e minimale dell’età liberale ha lasciato il posto al grande organizzatore della mobilitazione sociale, dirigendo uomini e armi verso i fronti, organizzando l’economia ed esercitando un controllo assoluto sulle retrovie. La Grande Guerra vede l’avvento, lento e parziale, di un nuovo Stato, che non è piú il semplice Stato-gendarme dello Stato minimo liberale, senza essere ancora lo Stato-provvidenza del dopo 1945, impensabile, del resto, senza la mutazione culturale e strutturale della prima guerra mondiale.
Chi si confronta con simili problemi dopo il 1918? La democrazia liberale sembra poco innovatrice: i democratici credono che sia possibile un ritorno allo status quo ante, ravvivato, in alcuni, dalla speranza wilsoniana che la civiltà delle relazioni internazionali permetterà, attraverso una catalisi kantiana, il trionfo dello spirito democratico intra ed extra muros.
I nuovi regimi, il bolscevismo e il fascismo, che hanno fatto la loro comparsa tra il 1917 e il 1922, prendono atto della guerra e si confrontano con la sua eredità. Rifiutando il primo e imitando parzialmente e prudentemente il secondo, vedono la luce anche alcuni regimi autoritari che danno vita a una terza via, né liberale né rivoluzionaria, fondandosi su un progetto nazional-cattolico di cui dovremo riparlare. Lasciando da parte lo studio del bolscevismo, esporremo ciò che ha distinto il fascismo dal nazional-cattolicesimo, pur sottolineando ciò che hanno in comune: la pratica dittatoriale, rivendicata e assunta, del potere.
La nozione di dittatura è stata oggetto di un saggio apparso nel 1921, redatto dal giurista tedesco Carl Schmitt, universitario nazional-conservatore che aderirà opportunamente al nazismo dopo il 1933. In questo saggio, divenuto un classico della riflessione giuridica e politica, Carl Schmitt ricorda l’etimologia della parola e cita un adagio latino: Dictator est qui dictat. Il dittatore è colui che dice, colui che detta, colui che, dopo la sua presa di potere, è l’unico a parlare. Concepita, durante la Repubblica romana, come un periodo di sospensione del diritto comune in cui, per salvare la Repubblica, si prescinde dalla propria legge fondamentale per ristabilirla meglio in seguito, la dittatura designa, per estensione, ogni forma di esercizio del potere in cui parla uno solo: un’autocrazia senza eredità né diritto divino, in sostanza, la monarchia di un XX secolo privata degli antichi fondamenti del potere, Dio e la Tradizione.
Essendo ormai l’unico a parlare, il dittatore, che detta e impone, mette fine ai dibattiti del parlamentarismo del XIX secolo, contestati dalla critica controrivoluzionaria del XIX secolo in poi e resi ancora piú insopportabili dal ricordo delle trincee: come giustificare la mancanza di unione, l’interpellanza, la disputa, questo profluvio di parole e di suoni, al cospetto dei sacrifici che si sono consentiti? La vera comunità politica non sarà forse una, unica e raccolta dietro il suo capo, come il gruppo di combattimento? Il ricordo dei commilitoni scomparsi sarà costantemente messo in contrapposizione, soprattutto da parte dei fascisti, al rivoltante chiacchiericcio dei parlamenti. Il monologo del dittatore pretende dunque di porre fine al dialogo, il soliloquio autoritario fa cessare il colloquio delle ragioni: la dittatura ha preso atto dell’ingresso delle masse nella politica, ma solo per ridurle all’univocità dell’approvazione chiassosa. Le masse devono essere ricondotte alla ragione e addomesticate, perché cessino la divisione e la dispersione.
Se i parlamenti scomparissero, la dittatura non sarebbe l’orgoglioso monologo che pretende di essere: sarà necessario, nel corso di questo libro, vedere tutto ciò che essa implica sul piano polifonico, vale a dire della poliarchia, e non prendere alla lettera i proclami di efficacia e di unanimismo, o le immagini delle coorti perfettamente allineate durante le sfilate naziste.
Una parola sulla logica delle inclusioni ed esclusioni. Abbiamo ritenuto utile risalire molto indietro nel tempo: ci sembrava illusorio parlare in modo pertinente delle esperienze autoritarie e fasciste del XX secolo tacendo delle trasformazioni politiche, sociali e culturali del XIX secolo europeo e dei traumi della Grande Guerra. Una volta chiarite tali condizioni, un secondo movimento ci porterà negli anni Venti del Novecento, decennio di crisi della democrazia e di insediamento di regimi a essa concorrenziali. In un terzo tempo, quello degli anni Trenta e Quaranta del Novecento, prenderemo in esame le esperienze politiche concrete, escludendo i Paesi Bassi e il Belgio che hanno conosciuto l’occupazione, ma senza trascurare i regimi animati da un’ambizione autoritaria, un progetto di società appropriata e un’autonomia relativa, come fu il caso della Francia di Vichy.

CONTROLLARE E DISTRUGGERE

Parte prima

Le domande poste dalla modernità

Capitolo primo

Il XIX secolo

Generalmente la storia del XIX secolo è poco conosciuta, scontando il difetto, nei programmi di insegnamento della scuola secondaria, di venirsi a trovare fra due eventi: la Rivoluzione francese e la prima guerra mondiale. Inoltre, ciò che spesso scoraggia è l’ampiezza degli aspetti economici, culturali e sociali, nonché la complessità del suo profilo politico – si pensi per esempio al valzer dei regimi in Francia.
Affrontando il XIX secolo non adotteremo una prospettiva teleologica e non vi cercheremo le radici o le origini del fascismo, del nazismo e dei regimi autoritari europei del XX secolo. Non penseremo nemmeno in questi termini. Il nostro intento sarà semplicemente quello di esporre alcuni elementi di storia politica, sociale e culturale che costituiscono, a parer nostro, delle condizioni che hanno reso possibile lo sviluppo successivo di questi fenomeni, dopo la grande catalisi della prima guerra mondiale. Questo capitolo propone alcuni episodi di questo secolo misconosciuto, e rappresenta un invito all’approfondimento e all’ampliamento della visuale proposta.
1. Il fatto nazionale.
Una pervicace teleologia vede nel XIX secolo il necessario avvento del fatto nazionale, inaugurato dall’epopea rivoluzionaria francese, dal Giuramento della Pallacorda alle guerre dell’Impero, passando per la carica di Valmy. Ciò significa non tenere conto delle notevoli resistenze che i fautori dell’idea nazionale dovettero superare, e misconoscere le trasformazioni della stessa idea nazionale nel corso del secolo: inizia decisamente a sinistra per venirsi a trovare alla fine del secolo abbastanza stabilmente a destra.
Nel momento della carica di Valmy, l’idea nazionale è consustanziale a quella di autonomia, teorizzata da Kant, e a quella di sovranità, concettualizzata da Rousseau. Un popolo non è il patrimonio, il possedimento, di una dinastia: è un’entità giuridica dotata della facoltà di determinarsi liberamente, vale a dire, rispetto all’esterno, di scegliere la propria identità stabilendo la frontiera tra l’amico e il nemico e, all’interno, di dotarsi di proprie norme.
Cosí, alla fine del XVIII secolo l’idea di nazione e di popolo sovrano sono sinonimi. Le guerre dell’Impero, importando il Codice civile e la pratica del suffragio in regioni che li ignoravano, generano un’acculturazione considerevole che inaugura il fatto nazionale del XIX secolo. Questa idea rivoluzionaria cozza con una reazione: dopo la duplice disfatta dell’Impero, Metternich succede a Napoleone, Vienna a Valmy, il 1815 al 1792.
Nel biennio 1814-15 il congresso di Vienna si riunisce per chiudere i conti della Rivoluzione e dell’Impero: si tratta di ritornare alle frontiere e alle idee del 1788, dopo e nonostante gli stravolgimenti territoriali e culturali indotti dalla Rivoluzione francese e dalle sue conseguenze. La Santa Alleanza stipulata nel settembre del 1815 tra il re di Prussia, l’imperatore d’Austria e lo zar di Russia riabilita il principio dinastico contro l’autonomia dei popoli, il diritto divino contro la sovranità popolare, la fede cristiana contro la ragione.
L’assolutismo di diritto divino riprende i suoi troni. Il 1815 inaugura delle Restaurazioni che respingono all’opposizione l’idea nazionale. Nazionalismo e liberalismo politico vanno allora di pari passo. La repressione è inesorabile in Francia, dove sotto la Restaurazione si moltiplicano le società segrete nazional-liberali, e in Germania: mentre i decreti di Karlsbad (1819) rendevano un delitto penale l’espressione del liberalismo e del nazionalismo, Luigi XVIII faceva ghigliottinare i Sergents di La Rochelle (1822)1.
La distanza crescente che si crea fra un ambiente culturale e sociale profondamente moderno e l’arcaismo politico rappresentato da queste autocrazie di diritto divino porta alla Primavera dei popoli del 1848, seguita in Germania e nell’Impero austriaco da una feroce repressione.
L’Austria si scontra con un fatto nazionale che risulterà fatale all’Impero, ma Francesco Giuseppe deve fare la concessione del compromesso del 1867, che dà vita all’Impero «austro-ungarico», dopo non essere riuscito a impedire l’unificazione della penisola italiana (1861) ed essere stato sconfitto dalla Prussia di Bismarck (1866).
In Germania, il nazionalismo passa a destra con la volontà del cancelliere prussiano di fondare l’Impero, proclamato dopo tre guerre nel 1871. Bismarck dissocia liberalismo e nazionalismo imponendo la soluzione della Piccola Germania (senza l’Austria) dove il re di Prussia porta una corona che non gli era stata proposta, come nel 1848, da un’assemblea democratica, ma dai Principi tedeschi, che accettano un regime, certo federale, ma autoritario. Anche in Francia il nazionalismo si sposta a destra pronunciandosi a favore dell’affaire Dreyfus.
Una volta fat...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Controllare e distruggere
  3. 1. Introduzione
  4. Controllare e distruggere
  5. Parte prima. Le domande poste dalla modernità
  6. Parte seconda. Una democrazia obsoleta?
  7. Parte terza. Esperienze
  8. Bibliografia
  9. Indice dei nomi e dei luoghi
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Copyright