Chiare, fresche e dolci acque
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Chiare, fresche e dolci acque

Con il commento di Stefano Carrai

  1. 20 pagine
  2. Italian
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Chiare, fresche e dolci acque

Con il commento di Stefano Carrai

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Ebbene, è tempo di slow reading. Se il mito della velocità si è imposto a poco a poco in ogni pratica della vita quotidiana, e dunque anche nella lettura, sempre piú rapida e spesso distratta, tanto piú è il momento di sviluppare anticorpi e controtendenze. Cosí, negli ultimi anni, è stato per il cibo e la cultura gastronomica; cosí può essere anche per il «cibo della mente», cioè il libro e la lettura. Ecco dunque che nei suoi «Quanti» Einaudi propone una serie di poesie di grandi autori analizzate «alla moviola» dai migliori critici. Una lettura che meticolosamente ripercorra il testo e permetta di capire tutto ciò che a prima vista non appare. La poesia è una lettura intrinsecamente «slow», che richiede attenzione e concentrazione, ma in queste «analisi al microscopio» lo sarà ancora di piú. E speriamo che la soddisfazione di chi entra in contatto profondo con una grande poesia, alla fine, risulterà moltiplicata. Piccola istruzione per l'uso: all'inizio del libro viene data la poesia e poi il saggio di commento. Il consiglio è di leggere prima la poesia, poi il commento, e poi leggere nuovamente la poesia. Se la sensazione sarà diversa dalla prima lettura, piú piena e piú profonda, l'«esperimento» sarà riuscito. Stefano Carrai è professore ordinario di letteratura italiana all'Università di Siena. Tra i suoi libri, I precetti di Parnaso. Metrica e generi poetici nel Rinascimento italiano, Bulzoni 1999; L'usignolo di Bembo. Un'idea della lirica italiana del Rinascimento, Carocci 2006; Dante elegiaco. Una chiave di lettura per la «Vita nova», Olschki 2006. Ha curato edizioni commentate delle Rime di Giovanni Della Casa (Einaudi 2003) e della Vita nova di Dante (Bur 2009).

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858413661
Argomento
Literatura
Categoria
Poesía

1.
Questa canzone è una delle poesie piú famose e ammirate di Petrarca, immancabile in ogni antologia scolastica nonostante si tratti di un testo piú complesso di quanto possa sembrare a prima vista. Il componimento è lavorato sull’onda dei ricordi che muovono dal luogo mitico dell’apparizione di Laura: la sorgente della Sorga, a Valchiusa, ancora piú emblematica della chiesa di Santa Chiara ad Avignone dove il poeta l’aveva vista per la prima volta, perché la natura incantevole vi fa da cornice ideale alla visitazione da parte della donna amata. In omaggio alla duplice matrice culturale dell’ispirazione, classica e cristiana, il personaggio di Laura assomma in sé i tratti sia di Maria sia di una dea antica. Altrove Petrarca l’ha immaginata nelle vesti di Dafne, ninfa desiderata e insidiata da Apollo cosí come Laura stessa è amata dal suo sacerdote-poeta; qui essa assume piuttosto, lo si vedrà, i connotati di una Diana al bagno.
Il tema dell’amore disperato e al tempo stesso incoercibile – filo conduttore di tutta la prima parte del libro petrarchesco – si articola in un discorso poetico che tocca i principali motivi della vicenda psicologica del Canzoniere: il culto del paesaggio sacralizzato per effetto del transito di Laura (prima stanza), la prefigurazione della propria morte e della propria sepoltura (seconda stanza), la fantasia di un ritorno di Laura (terza stanza), la memoria di lei mentre viene inondata da una pioggia mistica di petali di fiori che connota Valchiusa come regno dell’Amore (quarta stanza), l’estasi dell’amante che per effetto della contemplazione della bellezza di tale scena si sente assurgere al cielo e rimane perciò eternamente avvinto a quel luogo (quinta stanza).
Si tratta di anelli di una catena tutta materiata di desiderio e di percezione dell’assenza della persona adorata, che viene chiusa dalla serratura del congedo – rivolto come di norma, anche se implicitamente, alla canzone personificata – fornendo una vera e propria connotazione di genere: «Se tu avessi ornamenti quant’hai voglia, | poresti arditamente | uscir del bosco, e gir in fra la gente». Conviene partire proprio dal finale per aprire il congegno ed esaminarlo. Questi tre versi mirano a caratterizzare il testo come un componimento boschereccio, ovvero di stile non elevato. Il lettore moderno ne risulta sorpreso e disorientato perché, arrivato alla fine di una poesia che percepisce come scritta in una lingua ricercata, proprio in coda si trova di fronte alla puntualizzazione dell’autore che ne dichiara il tono programmaticamente dimesso.
Naturalmente è giusto appropriarsi di questo testo per quello che è, cioè una godibilissima poesia, però bisogna sempre pensare che è stato composto intorno alla metà del secolo XIV. Per la verità non se ne conosce la data precisa, ma grosso modo dovremmo essere a metà degli anni Quaranta del Trecento, a meno che la canzone non sia stata scritta dopo la morte di Laura – sopraggiunta nel 1348 – e fatta passare dal suo autore come composta prima per ragioni intrinseche al montaggio del Canzoniere2. Per comprendere il significato profondo del congedo basterà comunque tener conto del fatto che Petrarca si muove in una logica ben diversa dalla nostra. Nell’ambito del classicismo medievale le opere di Virgilio costituivano il canone (la cosiddetta rota Vergilii) sul quale andava calibrata l’impostazione delle opere poetiche. Bucoliche, Georgiche ed Eneide rappresentavano, dal basso verso l’alto, una gradazione di stili (noi parleremmo di generi) e piú ancora di tematiche a cui il poeta poteva e doveva fare riferimento. Con la sua apparentemente contraddittoria conclusione Petrarca vuole dirci in realtà che la poetica di questo componimento pertiene a un livello che non è quello alto, dell’epica, ma sta su un gradino inferiore, sia per l’ambientazione campestre e silvestre sia perché non tratta di vicende eroiche che hanno un valore di ordine civile, ma parla di sé e del proprio amore come accade, sia pure sotto il velame pastorale, nella tradizione dell’egloga.
La segnalazione del livello stilistico consapevolmente adottato accomuna del resto la canzone 126 alla sua gemella 125 (Se ’l pensier che mi strugge), che non a caso le è contigua nella seriazione della raccolta e ha uno schema metrico quasi identico3. Con professione di modestia ancora piú spinta la 125, nel congedo, è addirittura esortata a mantenersi nascosta nei boschi e a non uscire in pubblico. Eppure l’ordito è in entrambi i casi assai raffinato. Il fatto è che in tutt’e due la dinamica di passione e di astinenza che agita l’animo del protagonista è collocata nel contesto boschivo di Valchiusa.
2.
La prima stanza della canzone, che ha funzione di prologo, è incentrata sul feticismo per i vari elementi paesaggistici resi sacri, agli occhi del suo amante, dal fatto che Laura si è bagnata nella vasca naturale formata dalla sorgente della Sorga. Uno dei maggiori critici di Petrarca, Marco Santagata, ne ha dedotto che il poeta attingesse qui all’esperienza vissuta, cioè a «un episodio annidato nella biografia dei due protagonisti, e a noi ignoto»4, lo stesso adombrato anche in un passo della canzone 23 e nel madrigale 52, di cui tra poco dirò. È difficile però credere che Petrarca abbia realmente visto Laura immergersi nuda in quelle acque cristalline. Ludovico Castelvetro, nel Cinquecento, osservava: «Io non credo che Laura si bagnasse nel fiume, che non sarebbe secondo onestà donnesca, e massimamente in presenza del Petrarca». Piú probabile pare che si tratti di una brillante fantasia d’ispirazione mitologica, in cui il poeta ha trasfigurato un avvistamento della bella dama magari al bordo della sorgente. Rosanna Bettarini ha suggerito che il «“bagno di Laura” serbi ricordo del bagno di Aretusa» descritto nella favola ovidiana in cui la ninfa è amata dal fiume Alfèo5. E può ben darsi che alla memoria di Petrarca si affollasse anche questo precedente, sebbene la scena non combaci alla perfezione, sia perché nei versi di Ovidio il ricordo è fatto in prima persona dalla concupita, sia perché il dio fluviale che la insidia non la guarda da fuori, ma da sotto l’acqua. Viceversa è sicuro che Petrarca si appoggiasse alla reminiscenza del racconto, pur esso narrato da Ovidio nelle Metamorfosi, di Diana al bagno. Contribuisce a farcelo pensare il fatto che egli sembri riutilizzare qui una sua precedente rivisitazione poetica di quel mito nella sua grande canzone giovanile, la cosiddetta canzone delle metamorfosi, n. 23 del Canzoniere. Qui, nell’ultima stanza, Petrarca si era immaginato nei panni di un cacciatore che – giunto in una radura dove una bella donna, in cui ovviamente è adombrata Laura, faceva il bagno nuda in uno specchio d’acqua – l’aveva spiata senza farsi vedere. Accortasi della sua presenza, lei gli aveva schizzato dell’acqua sul viso e poi lui si era sentito trasformare in cervo, rincorso e braccato dai suoi stessi cani. Il brano allude inconfondibilmente al mito di Diana e Atteone. Ed è assai verosimile che scrivendo l’inizio della nostra canzone Petrarca ripensasse a quanto aveva già scritto in proposito nella n. 23. Anzi, s’intravede il gusto dell’autocitazione dal momento che piú avanti, al v. 29, Laura è detta «la fera bella e mansüeta», analogamente a quanto si legge lí ai vv. 149-51 («quella fera bella e cruda | in una fonte ignuda | si stava»). Di conseguenza è evidente che anche il bagno di Laura in esordio della nostra canzone conserva l’impronta di quella matrice mitologica, la stessa che dava spunto anche al madrigale 52. Conviene leggerlo per intero, in modo da farsi un’idea piú precisa delle tangenze con il nostro testo:
Non al suo amante piú Dïana piacque,
quando per tal ventura tutta ignuda
la vide in mezzo de le gelide acque,
ch’a me la pastorella alpestra e cruda
posta a bagnar un leggiadretto velo,
ch’a l’aura il vago e biondo capel chiuda,
tal che mi fece, or quand’egli arde ’l cielo,
tutto tremar d’un amoroso gelo.
Si noterà l’atmosfera sognata, come nell’attacco della nostra canzone, e anche che la punizione subita da Atteone sembra aver lasciato una lieve traccia in quell’agghiacciare del cuore pur nella calura del mezzogiorno. Nella nostra canzone l’aspetto sensuale intrinseco alla favola è ancor piú attenuato, ma l’aspetto voyeuristico emerge comunque. Anche la canzone peraltro risulta ambientata in un giorno caldo. La passeggiata del poeta fino alla sorgente, il suo contemplare con piacere la freschezza dell’acqua e il fittizio bagno di Laura in quella piscina naturale sono certo situati in un tempo estivo. E ciò potrebbe trovare un riscontro nel fatto che entro un’ipotetica organizzazione calendariale dei trecentosessantasei componimenti del Canzoniere, che assegna al sonetto iniziale la data dell’innamoramento (6 aprile), la canzone 126 cade il 9 agosto.
A parte questo, Petrarca esemplifica gli effetti beatificanti della visione isolando dal quadro pochi elementi stilizzati: acque, albero (ovvero «ramo» per sineddoche, la figura retorica che fa riferimento alla parte per il tutto), erba e fiori, cui subito si aggiunge l’aria. Anche questa riduzione risulta funzionale alla cifra classicistica del brano. Il poeta li evoca con lo scopo di farne dei vocativi cui rivolge il proprio accorato lamento. La chiusa della prima stanza infatti pone fine all’elenco cadenzato dalla ripetizione dell’avverbio di luogo «ove», ai vv. 2, 4 e 11 (tecnicamente un’anafora), con la richiesta che tali elementi della natura prestino ascolto alle ultime parole che egli pronuncerà prima della morte imminente: «date udïenza insieme | a le dolenti mie parole estreme». Il modulo non era originale. Petrarca lo prelevava dal genere piú consono al registro stilistico denunciato nel congedo, cioè dalla bucolica. Virgilio ad esempio, in persona di Mopso, nella sua quinta egloga aveva chiamato i cornioli e i fiumi a testimonio dello strazio delle ninfe per la morte del pastore Dafni (v. 21: «vos coryli testes et flumina nymphis»). Naturalmente Petrarca aveva ben presente l’allocuzione iniziale alla sorgente Bandusia di una famosa ode di Orazio (III, 13: «O fons Bandusiæ splendidior vitro, | dulci digne mero non sine floribus…») con la quale c’è una palese affinità, ma ritengo sia soprattutto il Virgilio pastorale il modello di questa apostofe a enti naturali non dotati di parola. E con altrettanta se non maggiore evidenza Petrarca se ne avvale in un’altra canzone, la n. 71, scrivendo: «O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi, | o testimon de la mia grave vita, | quante volte m’udiste chiamar morte!» (vv. 37-39).
In questo modo egli ha dato al protagonista, che è la propria controfigura poetica, una fisionomia eclettica ma coerente. È un cacciatore come Atteone perché insegue una bella donna che si nasconde e fugge; è un innamorato infelice che sente di potersi sfogare soltanto rivolgendosi alla natura: quindi è un solitario (come Bellerofonte, l’eroe greco disarcionato da Pegaso, secondo il mito alluso nel celebre sonetto petrarchesco 35, Solo e pensoso i piú deserti campi); infine è un uomo che ha il presentimento della propria morte, se non addirittura la tentazione di darsela con le proprie mani. Sono gli ingredienti con i quali Petrarca forgia il tipo psicologico che resterà in eredità, piú in generale, all’io della lirica moderna.
3.
Prima di addentrarci nel prosieguo della canzone, soffermiamoci ancora un momento sulla fascinazione di questo esordio. Abbiamo visto di cosa ci parla e come Petrarca lo ha congegnato. Chiediamoci ora perché l’immagine equorea e le altre che l’accompagnano continuano a piacerci pur dopo tanti secoli dalla loro confezione. Un po’, si capisce, sarà la memorizzazione durante gli anni della scuola, con quel poco o quel tanto di nostalgia che implica. Ma c’è sicuramente dell’altro. Penso che anzitutto questi versi continuino a catturarci per un impasto, direi, melodico che li caratterizza, cioè per l’andamento cantabile dato dall’alternanza di endecasillabi e settenari abbinato però a una scelta di parole tutta improntata alla dolcezza e alla soavità, che erano state un valore già per Dante poeta d’amore e poi teorico di lingua e di stile nel De vulgari eloquentia. Si pensi solo a quella terna iniziale di aggettivi, «Chiare, fresche e dolci», che sembra fatta apposta per imprimersi nella memoria e che, insieme con il sostantivo cui è applicata, rappresenta, in maniera che piú efficace e accattivante di cosí non si sarebbe potuto, lo scorcio sorgivo di Valchiusa. Un fine poeta e critico d’arte del recente passato, Alessandro Parronchi, ipotizzò che la sequenza di aggettivi dipendesse dalle acque dette proprio «frigidae, clarae, dulces», a denotare soprattutto la loro limpidezza, in un trattato di ottica di Vitellio, autore del secolo XIII che Petrarca però non risulta aver letto: sicché non si può escludere che si tratti di una semplice coincidenza6. Fatto sta che al triplice epiteto il poeta si era affezionato e lo ripropose, diversamente dislocato, anche nella canzone delle visioni, n. 323: «Chiara fontana in quel medesmo bosco | sorgea d’un sasso, e acque fresche e dolci | spargea, soavemente mormorando» (vv. 37-39). Anche qui dunque le acque sono fresche e dolci, mentre la loro trasparenza o chiarità viene messa in rilievo anticipandola e stornandola sulla sorgente.
Ma si badi che quella d’avvio non è affatto una descrizione da cartolina. Petrarca rifugge da un simile rischio spostando immediatamente lo sguardo dall’acqua alla figura di Laura, e dopo ritornando sí sulla vegetazione ma per riportare svelto l’attenzione sul corpo di lei che si appoggia a un non meglio specificato albero; e cosí via con l’occhio sull’erba e sui fiori, e poi ancora da lí sulla veste di Laura («gonna») e sul suo lembo estremo («seno») che li tocca e li copre. Per inciso, non mi sembra necessario pensare che la voce «seno» individui il petto di Laura, chinata o prona su erba e fiori, ma bisogna riconoscere che potrebbe intendersi anche cosí sulla base del riscontro con alcuni versi del sonetto 160 in cui si rappresenta Laura «quando tra l’erba | quasi un fior siede, over quand’ella preme | col suo candido seno un verde cespo!» (vv. 9-11). Quanto all’albero, poi, c’è da domandarsi se Petrarca abbia pensato a un alloro, in virtú del simbolismo legato al nome della donna e al mito dafneo, o piuttosto al pioppo che altrove egli stesso ci informa si trovava realmente presso la sorgente (Epystolae I, 4, 53: «Populus est ingens vitreo contermina fonti»)7.
Anche nei versi successivi il tono dell’aggettivazione non si discosta da quello dell’attacco: le membra di Laura sono «belle», il ramo ovvero albero è «gentile» (cioè, secondo il significato antico, nobile), il fianco di lei ancora «bel», la sua veste «leggiadra», il seno «angelico», l’aria ovvero l’«aere» (maschile alla latina) «sereno», gli occhi della donna «begli». La sequenza ottiene il risultato di esprimere l’esaltazione del poeta innamorato, ma al tempo stesso comunica al lettore, di qualsiasi tempo, il senso di un incanto cui contribuiscono la bellezza del luogo e quella dell’amata idealizzata, anzi – con altra immagine indimenticabile – di colei che è l’unica sulla terra che egli possa considerare, etimologicamente, signora del proprio cuore: «colei che sola a me par donna».
Petrarca ha imparato la lezione dell’elogio da Dante e da Cino da Pistoia, e poi li ha superati nell’arte del sublimare. C’è una spia che lo conferma: è quella parola «sospir», che Petrarca impiega fin dal primo sonetto del Canzoniere a denotare la peculiare ansia dell’amante e che discende direttamente dal lessico degli stilnovisti. Quegli stessi predecessori avevano contribuito a divulgare un luogo comune della fenomenologia amorosa medievale per cui Cupido, ovvero Amore, attraverso gli occhi belli dell’amata scaglia dardi che penetrano nel cuor...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Chiare, fresche e dolci acque
  3. 1
  4. 2
  5. 3
  6. 4
  7. 5
  8. 6
  9. 7
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright