Delitto e castigo
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Delitto e castigo

Romanzo in sei parti e un epilogo

  1. 728 pagine
  2. Italian
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Delitto e castigo

Romanzo in sei parti e un epilogo

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Informazioni sul libro

Raskol'nikov è un giovane che è stato espulso dall'università e che uccide una vecchia usuraia per un'idea, per affermare la propria libertà e per dimostrare di essere superiore agli uomini comuni e alla loro morale. Una volta compiuto l'omicidio, però, scopre di essere governato non dalla logica, ma dal caso, dalla malattia, dall'irrazionale che affiora nei sogni e negli impulsi autodistruttivi. Si lancia cosí in allucinati vagabondaggi, percorrendo una Pietroburgo afosa e opprimente, una città-incubo popolata da reietti, da carnefici e vittime con cui è costretto a scontrarsi e a dialogare, alla disperata ricerca di una via d'uscita.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858419991
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

Parte seconda

1.
Rimase disteso cosí molto a lungo. A volte gli capitava anche di svegliarsi o quasi, e in quei momenti notava che era già notte fonda, ma non gli veniva in mente di alzarsi. Finalmente si accorse che la luce era ormai quella del giorno. Stava supino sul divano, ancora intontito dal sopore recente. Dalla strada gli giunsero bruscamente delle grida terribili, disperate, che del resto sentiva ogni notte sotto la sua finestra, dopo le due. Furono queste a svegliarlo. «Ah, ecco già gli ubriachi che escono dalle bettole, – pensò, – sono passate le due, – e a un tratto balzò in piedi, come se qualcuno l’avesse buttato giú dal divano. – Come! Sono già passate le due!» Tornò a sedersi sul divano: e allora ricordò tutto! Di colpo, in un istante ricordò tutto!
In un primo momento pensò che sarebbe impazzito. Lo assalí un freddo terribile: ma il freddo era causato anche dalla febbre che gli era venuta già parecchio tempo prima, nel sonno. Ora però fu preso da brividi cosí violenti che gli facevano battere i denti e lo scuotevano tutto. Aprí la porta e si mise in ascolto: l’intera casa era addormentata. Guardava incredulo se stesso e la stanza, ogni cosa intorno, e non capiva come avesse potuto il giorno prima, entrando, non chiudere la porta col gancio e gettarsi sul divano non solo senza spogliarsi, ma perfino col cappello, che era rotolato per terra e ora stava lí, vicino al cuscino. «Se fosse entrato qualcuno, che cosa avrebbe pensato? Che ero ubriaco, ma…» Si precipitò alla finestra. C’era abbastanza luce, e subito prese a esaminarsi tutto, dalla testa ai piedi, tutti i vestiti: non c’erano tracce? Ma cosí era impossibile: tremando per i brividi, cominciò a spogliarsi e a esaminare tutto daccapo. Rigirò fino all’ultimo filo e brandello, e non fidandosi di se stesso ripeté l’esame almeno tre volte. Ma non c’era nulla, pareva, nessuna traccia; solo nel punto in cui l’orlo dei pantaloni si era consumato e sfrangiato restavano dense tracce di sangue rappreso. Afferrò il suo grosso coltello a serramanico e tagliò quella frangia. Sembrava non ci fosse nient’altro. D’improvviso si ricordò che il borsellino e gli oggetti che aveva sottratto dal baule della vecchia erano tuttora nelle sue tasche! Non aveva ancora pensato di toglierli di lí e nasconderli! Non se n’era ricordato neppure adesso, mentre esaminava i vestiti! Com’era possibile? Si affrettò subito a tirarli fuori e a gettarli sul tavolo. Quando ebbe rovesciato fuori tutto, e perfino rivoltato le tasche per accertarsi che non vi fosse rimasto nulla, portò il mucchietto in un angolo. Lí in basso, proprio nell’angolo, c’era un punto dove la tappezzeria si era scollata dalla parete; prese subito a cacciare tutto in quel buco, sotto la carta: «C’è entrato! Tutto fuori dalla vista e il borsellino pure!», pensò con gioia, rialzandosi e guardando ottusamente l’angolo, la tappezzeria ancora piú scostata. A un tratto sussultò per l’orrore: «Dio mio, – mormorò disperato, – che mi succede? Cosí è forse nascosto? È cosí che si nasconde?»
A dire il vero non aveva neppure contato sugli oggetti; pensava che ci sarebbe stato solo il denaro, e perciò non aveva preparato in anticipo un nascondiglio; «ma adesso, adesso che ho da rallegrarmi? – pensava. – È cosí che si nasconde? Davvero la ragione mi sta abbandonando!» Sfinito si sedette sul divano, e subito tornarono a scuoterlo dei brividi insopportabili. Macchinalmente si tirò addosso il vecchio cappotto invernale da studente, caldo ma quasi a brandelli, che stava lí vicino sulla sedia, si coprí e subito il sonno e il delirio lo assalirono di nuovo. Si assopí.
Non piú di cinque minuti dopo balzò di nuovo in piedi e si slanciò subito, forsennatamente, verso il suo abito. «Come ho potuto riaddormentarmi, quando niente è stato fatto! Proprio cosí, proprio cosí: non ho ancora tolto l’asola sotto l’ascella! Mi sono dimenticato, mi sono dimenticato una cosa del genere! Un indizio simile!» Strappò l’asola e in fretta prese a lacerarla, ficcando i brandelli sotto il cuscino, fra la biancheria. «Dei pezzetti di tela strappata non possono suscitare sospetti; almeno credo, almeno credo!», ripeteva, in piedi in mezzo alla stanza, e con un’attenzione tesa fino alla sofferenza ricominciò a ispezionare intorno, sul pavimento e ovunque, se non avesse dimenticato altro. La certezza che tutto, perfino la memoria, perfino la semplice capacità di ragionare lo stavano abbandonando, cominciava a tormentarlo insopportabilmente. «Possibile che stia già cominciando, possibile che il supplizio inizi già? Ecco, ecco, è proprio cosí!» Infatti i pezzetti di frangia che aveva tagliato dai pantaloni erano rimasti sul pavimento, in mezzo alla stanza, perché il primo venuto li vedesse! «Ma che cosa mi sta succedendo!», esclamò di nuovo, come smarrito.
A questo punto gli venne in mente una strana idea: che forse tutto il suo abito era insanguinato, che forse c’erano molte macchie, solo che lui non le vedeva, non le notava, perché la sua capacità di ragionare si era indebolita, frantumata… la mente si era ottenebrata… A un tratto si ricordò che anche sul borsellino c’era del sangue. «To’! Allora dev’esserci del sangue anche nella tasca, perché quando ce l’ho messo, il borsellino era ancora bagnato!» In un istante rovesciò la tasca, e infatti sulla fodera c’erano delle tracce, delle macchie! «Dunque la ragione non mi ha ancora abbandonato del tutto, dunque ho ancora la capacità di riflettere e la memoria, se me ne sono ricordato e ci sono arrivato da solo! – pensò con esultanza, sospirando profondamente e gioiosamente a pieni polmoni. – È stata solo la debolezza della febbre, il delirio di un minuto», e strappò tutta la fodera dalla tasca sinistra dei pantaloni. In quell’attimo un raggio di sole illuminò il suo stivale sinistro: sul calzino, che spuntava dallo stivale, s’intravidero dei segni. Si tolse lo stivale: «In effetti, dei segni! Tutta la punta del calzino è intrisa di sangue»; doveva essere entrato inavvertitamente in quella pozza… «Ma adesso che devo farne? Dove posso mettere questo calzino, la frangia, la tasca?»
Raccolse tutto in una mano e si fermò in mezzo alla stanza. «Nella stufa? Ma la stufa è il primo posto dove cominceranno a frugare. Bruciarli? Ma con che cosa? Non ho neanche i fiammiferi. No, meglio uscire e buttare tutto da qualche parte. Sí! Meglio buttarli! – ripeteva, sedendosi di nuovo sul divano, – e subito, immediatamente, senza perder tempo!…» E invece la sua testa si chinò nuovamente sul cuscino; di nuovo lo gelarono dei brividi insopportabili; di nuovo si tirò addosso il cappotto. E a lungo, per diverse ore, continuò a sembrargli a tratti che «ecco, ora senza piú rimandare doveva andare da qualche parte e buttare via tutto, farlo sparire, al piú presto, al piú presto!» Cercò diverse volte di strapparsi dal divano, voleva alzarsi, ma non ci riusciva piú. Lo svegliarono definitivamente dei forti colpi alla porta.
– Ma apri, sei vivo, sí o no? E continua a ronfare! – gridava Nastas´ja, battendo col pugno alla porta. – Se la dorme tutto il santo giorno, come un cane! E un cane è! Apri, insomma. Sono le dieci passate.
– Ma forse non è in casa! – disse una voce maschile.
«To’! È la voce del portinaio… Che cosa vuole?»
Saltò su e si sedette sul divano. Il cuore batteva cosí forte da fargli male.
– E chi ha chiuso col gancio, allora? – obiettò Nastas´ja. – Ma guarda, ora comincia a chiudersi dentro! Ha paura che lo rapiscano? Apri, testa matta, svegliati!
«Che cosa vogliono? Perché il portinaio? Sanno tutto. Opporre resistenza o aprire? Alla malora…»
Si allungò un po’, si chinò in avanti e tolse il gancio.
Tutta la sua stanza era di dimensioni tali che si poteva togliere il gancio senza alzarsi dal letto.
E infatti: c’erano il portinaio e Nastas´ja.
Nastas´ja lo squadrò in modo strano. Lui guardò il portinaio con un’aria di sfida disperata. Questi in silenzio gli tese un foglio grigio, ripiegato in due e sigillato con ceralacca per bottiglie.
– Un avviso, dall’ufficio, – disse porgendogli il foglio.
– Quale ufficio?…
– Vuol dire che ti convocano alla polizia. Si sa quale ufficio.
– Alla polizia!… Perché?
– E io che ne so. Ti chiamano, e vai –. Lo osservò attentamente, si guardò intorno e si voltò per andarsene.
– Non è che ti sei ammalato sul serio? – chiese Nastas´ja, senza levargli gli occhi di dosso. Anche il portinaio girò la testa per un attimo. – È da ieri che hai la febbre, – aggiunse.
Lui non rispondeva e teneva in mano il foglio, senza dissigillarlo.
– Ma non alzarti, – riprese Nastas´ja, impietosendosi e vedendo che faceva scivolare le gambe giú dal divano. – Se sei malato, non ci andare: non brucia mica. Che c’hai in mano?
Lui guardò: nella mano destra aveva i pezzi tagliati di frangia, il calzino e i brandelli della tasca strappata. Aveva dormito cosí. In seguito, riflettendoci, si ricordò che anche quando si svegliava a metà, febbricitante, li stringeva forte forte nella mano e cosí si riaddormentava.
– Guarda un po’ che stracci ha raccattato, e ci dorme, manco fossero un tesoro… – E Nastas´ja scoppiò nella sua risata nevrastenica. In un attimo lui cacciò tutto sotto il cappotto e la fissò intensamente. Anche se in quel momento connetteva malissimo, sentiva che non si tratta cosí una persona, se si è venuti ad arrestarla. «Ma… la polizia?»
– Lo berresti un tè? Lo vuoi, eh? Te lo porto; ne è rimasto…
– No… io vado: vado subito, – borbottò lui, alzandosi in piedi.
– Non è che poi cadi dalle scale?
– Vado…
– Fa’ come ti pare.
Nastas´ja se ne andò seguendo il portinaio. Raskol´nikov si precipitò subito alla luce per esaminare il calzino e le frange: «Ci sono macchie, ma non si vedono molto; tutto si è insudiciato, e a forza di strofinarlo è ormai scolorito. Chi non lo sa da prima, non distinguerà niente. Dunque Nastas´ja da lontano non ha potuto notare niente, grazie a Dio!» Allora dissigillò trepidante l’avviso e prese a leggere; lesse a lungo e alla fine capí. Era un comune invito a presentarsi quel giorno, alle nove e mezzo, all’ufficio del commissario di quartiere.
«Non era mai successo. Per conto mio non ho niente a che fare con la polizia! E perché proprio oggi? – pensava in preda a un’angosciosa perplessità. – Mio Dio, purché si faccia presto!» Voleva gettarsi in ginocchio a pregare, ma scoppiò a ridere: non della preghiera, ma di se stesso. Prese a vestirsi in fretta. «Se devo perdermi, mi perderò, fa lo stesso! Mettere il calzino! – gli saltò in mente a un tratto. – Si strofinerà ancor di piú nella polvere, e le tracce spariranno». Ma appena l’ebbe infilato, subito lo strappò via con ribrezzo e orrore. Lo strappò via, ma rendendosi conto di non averne altri, lo prese e se lo rimise – e di nuovo scoppiò a ridere. «Ma è tutto convenzionale, tutto relativo, non sono altro che forme, – pensò di sfuggita, solo con un angolino di pensiero, e tremando in tutto il corpo, – ecco che l’ho infilato! Dopotutto ho finito per mettermelo!» La risata, del resto, cedette subito il posto alla disperazione. «No, non ce la faccio…», pensò. Gli tremavano le gambe. «Per la paura», mormorò fra sé. La testa gli girava e gli faceva male per la febbre. «È un’astuzia! Vogliono attirarmi con l’astuzia e poi di colpo incastrarmi, – continuava fra sé, uscendo sulle scale. – Il brutto è che sto quasi delirando… posso tirar fuori qualche sproposito…»
Sulle scale si ricordò che stava lasciando tutta la roba cosí, nel buco della tappezzeria, «e forse faranno apposta una perquisizione in mia assenza», ricordò, e si fermò. Ma poi lo presero una tale disperazione e un tale cinismo di perdizione, se cosí si può dire, che fece un gesto di rinuncia e proseguí.
«Purché finisca in fretta!…»
Per strada il caldo era di nuovo insopportabile; in tutti quei giorni non era caduta una sola goccia di pioggia. Di nuovo polvere, mattoni e calce, di nuovo puzza dalle bottegucce e dalle bettole, e di continuo ubriachi, ambulanti finlandesi e vetture sgangherate. Il sole gli brillò vivo negli occhi, tanto che gli fece male guardare e la testa prese a girargli sul serio: tipica sensazione del febbricitante che esce all’improvviso in strada in una chiara giornata di sole.
Giunto all’angolo con la via del giorno prima, vi si affacciò con un’ansia tormentosa, guardò quella casa… e subito distolse gli occhi.
«Se me lo domandano, magari glielo dirò», pensò avvicinandosi al commissariato.
L’ufficio distava circa trecento metri. Si era appena trasferito in una sede diversa, in un palazzo nuovo, al quarto piano. In quella precedente era stato una volta di sfuggita, ma molto tempo prima. Entrato nell’androne, vide a destra una scala, dalla quale scendeva un uomo con un registro in mano: «Un portinaio1, dunque; dunque l’ufficio è proprio qui», e cominciò a salire a casaccio. Non voleva chiedere niente a nessuno.
«Entrerò, mi inginocchierò e racconterò tutto…», pensò arrivando al quarto piano.
La scala era stretta, ripida e tutta bagnata di acqua sporca. Tutte le cucine di tutti gli appartamenti di tutti i quattro piani si aprivano su quella scala e restavano aperte quasi per l’intera giornata. Perciò l’aria era terribilmente pesante. Salivano e scendevano portinai con registri sotto il braccio, fattorini e gente diversa di entrambi i sessi: visitatori. Anche la porta dell’ufficio era spalancata. Entrò e si fermò in anticamera, dove alcuni popolani aspettavano in piedi. Anche qui l’aria era irrespirabile, e inoltre c’era un tanfo nauseabondo di vernice a base di olio di lino rancido, non ancora asciugata sulle pareti ridipinte di fresco. Dopo avere aspettato un po’, decise di proseguire verso la stanza successiva. I locali erano tutti minuscoli e col soffitto basso. Una terribile impazienza lo spingeva sempre piú avanti. Nessuno gli badava. Nella seconda stanza lavoravano degli scrivani, vestiti poco meglio di lui, tutta gente dall’aspetto strano. Si rivolse a uno di loro.
– Che vuoi?
Mostrò l’avviso di comparizione.
– Lei è studente? – chiese l’altro, dopo un’occhiata all’avviso.
– Sí, ex studente.
Lo scrivano lo squadrò, peraltro senza alcuna curiosità. Era un uomo particolarmente arruffato, con un’idea fissa nello sguardo.
«Da questo non si può sapere nulla, perché se ne infischia di tutto», pensò Raskol´nikov.
– Vada di là, dal segretario, – disse lo scrivano, e puntò avanti un dito, indicando l’ultima stanza.
Entrò in quella stanza (la quarta), angusta e strapiena di pubblico, gente vestita un po’ meglio che nelle altre. Fra i visitatori c’erano due signore. Una vestita poveramente, a lutto, sedeva davanti a un tavolo di fronte al segretario e scriveva qualcosa sotto dettatura. L’altra signora...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Delitto e castigo
  3. Prefazione di Natalia Ginzburg
  4. La città e gli uomini di «Delitto e castigo» di Leonid Grossman
  5. Nota biografica
  6. Nota
  7. Parte prima
  8. Parte seconda
  9. Parte terza
  10. Parte quarta
  11. Parte quinta
  12. Parte sesta
  13. Epilogo
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Dello stesso autore
  17. Copyright