Ogni volta che siamo impazienti di vedere qualcuno o di raccontare una scoperta che abbiamo fatto, ritardiamo il piú possibile il momento. Certo, succede solo quando siamo sicuri di vedere quella persona o di poter dispiegare finalmente il nostro racconto. Ma se vi è anche il minimo dubbio riguardo a questa possibilità, la fretta ha il sopravvento e tendiamo a forzare le cose, in genere con risultati avvilenti, delusioni e mal di pancia. In quel momento potevo permettermi di rinviare l’incontro con Muriel, di prepararlo e pregustarlo; preferivo aspettare che si placassero un po’ i suoi affanni e si facesse vedere di piú a casa. In quei suoi giorni febbrili, di brevi apparizioni e uscite costanti, sarebbe stata una pessima idea fermarlo, costringerlo a sedersi o a coricarsi sul pavimento per ascoltarmi controvoglia. (Quanto è necessaria la noia affinché la curiosità e l’inventiva si risveglino). Ammesso e non concesso che accettasse di stare a sentire quanto avevo scoperto su Van Vechten, supponevo che lo avrebbe fatto se avessi insistito e fossi riuscito a interessarlo. Dovevo sperare che si calmasse, che trovasse un finanziamento di quel nuovo progetto di film dettato dall’urgenza di superare la frustrazione o che lo ritenesse impossibile e si mettesse momentaneamente il cuore in pace, fino a dopo l’estate, forse. Quell’attesa non mi dispiacque, non avevo troppa fretta, solo quella piacevole impazienza nella quale ci si sente pieni di aspettative e molto vivi, quando si ha l’assoluta certezza che verrà soddisfatta.
Esattamente come avevo trovato sgradevole non affrontare il dottore a viso aperto mentre lo portavo in giro per locali con l’intenzione di strappargli qualche confidenza, di studiarlo, nemmeno ora mi piaceva l’idea di fare la spia e denunciarlo al suo amico, con le prevedibili conseguenze, assodata ormai l’indecenza del suo comportamento. Erano passati molti anni dalle sue pratiche ricattatorie, se era il caso di prenderle per vere: un po’ mi aveva dato da pensare la storia delle calunnie degli ex camerati franchisti, dei piú vendicativi, che si sarebbero sentiti traditi da lui, dalla sua clemenza e scarso accanimento; tutto quello che sentiamo raccontare lascia una traccia e semina un dubbio, per questo non deve sorprendere che talvolta non si voglia sapere piú nulla, quando ci si è già fatti un’idea, o che si proibisca agli accusati di parlare, temendo che possano a poco a poco convincere della loro innocenza facendo apparire vera la loro versione. Sí, erano passati molti anni, la gente cambia e si pente, e si guarda indietro con orrore, non riconoscendosi, o piuttosto con desolazione e incapacità di riconoscersi, come se si vedesse in uno specchio deformante e rudimentale: «Sono io quello? Ho fatto davvero quelle cose? Era tanto brutto il mio vecchio io? Se è cosí, non posso farci niente. Il senso di colpa è piú forte del mio desiderio di ammenda, il senso di colpa mi impedisce perfino di provarci, la sola cosa cui mi sento di aspirare è che venga un giorno in cui la colpa sarà superata, in cui sarà talmente vecchia da perdersi nelle nebbie in cui sfuma tutto quanto è accaduto, finché i contorni svaniscono e diventano indistinguibili: ciò che è bene e ciò che è ambiguo, ciò che è contraddittorio e ciò che è malvagio, i delitti e gli atti eroici, la malevolenza e la generosità, la rettitudine e l’inganno, il rancore che non si attenua e il perdono carpito per estenuazione della vittima, la rinuncia e la parola data e il vantaggio ottenuto col raggiro, tutto è destinato all’alzata di spalle, tutto sarà ignorato da quelli che verranno e ci succederanno, ne avranno già abbastanza delle loro passioni, saranno indifferenti a quanto è successo prima che mettessero piede su questa terra, dove sovrapporranno le loro orme a quelle dei loro infiniti predecessori e uguali, senza sapere che imitano soltanto e che non c’è piú nulla di inesplorato; tutto è destinato alla confusione e alla mescolanza, al livellamento e all’oblio e a fluttuare in un ripetitivo magma del quale però nessuno si stanca, forse perché nessuno ha mai trovato il modo di trarsene fuori». (E per questo la storia è piena di Eduardi Muriel e Beatrici Noguera, di dottori Van Vechten e di Rico, di Celie e di Vidal e di Juan de Vere e di identiche comparse, e tutti loro, uno dopo l’altro, si impegnano a mettere in scena lo stesso spettacolo e a riscrivere la stessa storia melodrammatica. Non c’è nulla di originale nella mia figura, come in nessuna delle altre, suppongo). «Ma finché quel giorno non arriva c’è un intervallo odioso che ci appartiene, che è il peggiore ma è nostro, nel quale non possiamo fare a meno di confrontarci con quello che abbiamo fatto o omesso di fare, e distrarre il nostro senso di colpa oppure placarlo, e talvolta il solo modo per riuscirci è aumentarlo, fare in modo che nuove colpe vengano a coprire quelle vecchie, le mettano in ombra o le smussino e le minimizzino, fino al giorno in cui tutte apparterranno al passato e non ci sarà piú in vita una sola testa che possa ricordarsene, né una lingua malvagia e rapida per raccontarle, e neppure un dito tremante per accusarci di nulla».
Immagino che diversi elementi concorsero a farmi vincere la mia naturale e generale riluttanza a fare la spia. Da una parte, avevo ottenuto ciò che Muriel in un primo tempo mi aveva chiesto e che, da quel suo fedele adepto che ero, avevo acconsentito senza riserve a procurargli. Dall’altra, tutto quello che Vidal mi aveva raccontato collimava con i sospetti del mio capo: pur non essendo mai stato esplicito, Muriel aveva accennato alla possibilità, o diceria, che Van Vechten avesse commesso delle bassezze con una donna, o con piú di una, come appunto sembrava essere avvenuto («per me è il peggio del peggio, è imperdonabile»). In terzo luogo, i comportamenti del dottore erano sufficientemente spregevoli da meritare di non passare sotto silenzio, una volta che fossero stati accertati. Non che potesse capitargli nulla, questo era ovvio, non c’erano prove e quello che aveva fatto non poteva considerarsi un reato, tanto piú che in quegli anni nessuno se la sarebbe sentita di denunciare nessuno; era stata promulgata una legge detta «di Amnistia», si era cioè giunti a un accordo in base al quale nessuno avrebbe dato inizio a un’interminabile catena di accuse né avrebbe lavato in piazza i panni sporchi, neppure i piú sporchi – omicidi, esecuzioni sommarie, delazioni per invidia o vendetta e processi farsa, tribunali militari che avevano condannato dei civili all’ergastolo o alla pena di morte, perfino negli ultimi anni, piú blandi, della dittatura –: né quelli della guerra, comuni ai due schieramenti, né quelli del dopoguerra, che erano panni dell’unico schieramento imperante e in grado di continuare a sporcarne. Non che non fossero piú possibili conseguenze giudiziarie per nessuno degli abusi e dei delitti commessi, ma il punto era che non era ben visto parlare di certe cose in pubblico né portarle alla luce sui giornali, come ho già detto, e i pochi che ci provavano andavano incontro al biasimo immediato non solo degli ex franchisti – ovviamente interessati e per nulla ex –, ma anche degli antifranchisti e dei democratici convinti: ad alcuni di loro, come aveva fatto presente Vidal, conveniva che tutto risultasse cancellato, per nascondere i propri lontani trascorsi e rimettere all’onor del mondo le loro biografie non esattamente specchiate. Si era deciso anzitempo che ogni colpa apparteneva al passato, che erano tutte talmente vecchie da perdersi nelle nebbie e svanire, come se di colpo fosse trascorso un secolo, non quattro o cinque anni. Io pensavo che le macchie del dottore meritassero di essere conosciute, se non altro in privato; che dovessero costargli un’amicizia preziosa, o due, con un po’ di fortuna. In quarto luogo, ora mi infastidiva molto di piú quella meccanica relazione tra lui e Beatriz Noguera, quei loro incontri di prosaiche scopate al Santuario; non ero esattamente geloso, credo, sarebbe stato assurdo, dal momento che tra lei e me non era cambiato nulla, almeno da parte sua: la notte nel mio stanzino doveva essere stata per lei un capriccio, o un rimedio contro l’insonnia, o forse un momento di scarsa lucidità del quale il giorno dopo non ricordava piú molto e forse non era neppure troppo cosciente, non ci stava tanto con la testa, a volte, secondo la sua eloquente e semplificata definizione. Ma i giovani – o quello che ero io allora – hanno bisogno di credersi unici in ciascuna delle loro esperienze e azioni, e se capita loro qualcosa di impensato – per non dire di impensabile – subito si affannano a adornarne il ricordo e a ripulirlo di ogni incrostazione spiacevole, e Van Vechten era un’incrostazione vergognosa e ora spiacevolissima. Come ultima cosa, il comportamento da lui tenuto al Chicote mi era riuscito antipatico nel suo insieme, non era stato per nulla persuasivo e discreto: si era affrettato a negare tutto, aveva provato a riderci su, si era presentato come vittima di diffamazione, aveva assunto atteggiamenti minacciosi e prepotenti, mi aveva piantato addosso la sua manaccia avvertendomi di futuri guai, mi aveva dato del «ragazzino» e del «moccioso». Riguardo ai suoi rapporti e legami col Movimento apostolico di Darmstadt – che concernevano il presente – non aveva dato la minima spiegazione, era stato evasivo. Sommando tutte queste cose, sulla mia riluttanza a fare la spia prevalse il desiderio di danneggiarlo.
Però non potevo comportarmi come Vidal, pronto a diffondere quello che sapeva da Oriente al curvo Occidente, e raccontarlo a chiunque. La notizia fresca spettava a Muriel, quindi mi sottrassi come potei alle domande del professor Rico, che non si fecero attendere. Tornò cosí seccato dal quel pranzo con le tre mummie che al principio non ci pensò, non ricordava neppure di avermi esortato a prendere nota dettagliata circa il perché e il percome Van Vechten fosse un grandissimo figlio di puttana.
– Bello schifo di pranzo, – fu la prima cosa che mi disse. Si tolse gli occhiali e vi alitò con tanta furia che sembra volesse avvelenare col fiato, a posteriori, i suoi detestati commensali. Era talmente contrariato e frustrato che era corso subito alla casa di calle Velázquez per sfogarsi con chiunque gli capitasse a tiro. – Si sono comportati come piragna, non hanno fatto altro che obiettare su tutto e rinfacciarmi offese passate. Offese che avrei recato io a loro, che terzetto di malmostosi, sembravano le streghe del Macbeth nella loro versione piú funesta, o tricoteuses ai piedi della ghigliottina. È vero che in qualche mio articolo li ho trattati da inetti, superficiali, scontati, mal documentati e ottusi, a uno addirittura ho dato del cretino. Non direttamente, certo, però era sottinteso; gli era saltato in mente di criticare un mio studio impeccabile sul Lazarillo che avrebbe dovuto lasciarlo senza fiato, uno come lui. E adesso vogliono farmela pagare. Figuriamoci, punzecchiature; i miei argomenti sono inattaccabili, infatti poi si è cucito la bocca, se avessi voluto accanirmi non ne sarebbe uscito vivo. Che ci vuoi fare, tanto va la zampa al lardo che ci lascia la gattina, o come diavolo si dice. Lo sanno anche loro, quei cadaveri ambulanti, solo di questo sono capaci, correggere prove d’esame con la matita rossa e blu. Erfostrafò –. Gli sfuggí un’onomatopea piú lunga del solito e doppiamente accentata, frutto forse della collera. Continuò ad alitare sulle sue lenti come un drago che lancia fiamme dalle fauci; tirò fuori un panno di daino da una custodia con notevole destrezza, lo dispiegò con uno scatto del polso come un prestigiatore che sciorina un fazzoletto. – Mi hanno cantato ben chiaro che non mi daranno il loro voto per la Real Academia. Sono degli spargizizzania, e non ci sarebbe da stupirsi se riuscissero a tirare dalla loro parte gli accademici piú rimbambiti e privi di personalità, che non mancano. Saranno ben lieti di potersi vendicare. Il peggio è che non ricordavo nemmeno che cosa avessi scritto, su che cosa me la fossi presa con loro. È questo l’inconveniente del fare giustizia: che la giustizia è cieca e non vede chi colpisce –. Si diede ora alla pulitura degli occhiali con impegno ed energia, con tutta quell’umidità sarebbero venuti cristallini. Mise via il panno con gesto mondano (mi ricordò Herbert Lom e i suoi giochetti), si accese una sigaretta, rasserenò all’istante lo sguardo e mi disse, con giovialità e ottimismo (non era uomo da serbare le amarezze, se ne annoiava): – Forse sarà meglio aspettare che schiattino, prima di presentare la mia candidatura. Non deve mancare molto per nessuno dei tre, a giudicare dal catarro con cui combattevano. Li ho visti piú volte a un pelo dal soffocare, non sai che schifo. A momenti non ho toccato cibo –. E fu allora che, per sfuggire al brutto ricordo, si ricordò che gli dovevo un succoso pettegolezzo. – A proposito, che cosa mi dici del dottore, giovane Vera, eh? Ti ho lasciato mentre stavi per apprendere dei suoi orrendi crimini, stando a quel tuo amico cosí deciso e amante della lettura.
– In realtà ben poco, professore. Niente che sia degno di menzione. Vidal esagerava, non mi ha parlato d’altro che di piccole beghe d’ospedale e di congressi. Lo sai come sono fatti i medici, tra di loro si odiano tutti –. Era falso, o almeno io non ne sapevo nulla, non avevo idea delle loro dispute e rivalità. Immaginavo ce ne fossero, come in ogni ambito professionale, in Spagna non c’è pietà nemmeno tra gli spazzacamini, per parlare di un mestiere che non esiste piú da secoli.
Rico mi guardò con sospetto. Glielo vedevo bene negli occhi, non un granello di polvere sulle lenti.
– A me non m’insaponi, giovane De Vere. Con me non vendi la fava per torta né ciurli nel manico –. Era ricaduto nei suoi modi di dire obsoleti, non capii quasi una parola, anche se molto chiaramente il senso. – Se non vuoi raccontare, non farlo, ma sono sicuro che il tuo amico non si riferiva a sottane di infermiere né a interventi scopiazzati ai congressi né a ingiustizie negli scatti di carriera. E nemmeno alle toccatine alle pazienti adulte che gli capitano a tiro o alle mamme dei piccoli pazienti. Che sessualmente il dottore sia un maiale è cosa che si vede a occhio nudo e lo sappiamo tutti, ma questo non basta a farne un grandissimo figlio di puttana –. Usò lo stesso termine che aveva usato Celia, solo che in bocca a lui suonò piú leggero; né l’uno né l’altra sapevano fino a che punto fossero nel giusto. – Il paese ne sarebbe pieno. Be’, lo è, in effetti: guarda quei tre fossili che mi hanno servito il brodo –. E tornò a scagliarsi contro gli accademici vetusti.
Nei giorni successivi fu occupato a ordire congiure e ad architettare rappresaglie. Ma non si dimenticava di Van Vechten, ogni tanto tornava alla carica: «Mi devi una gustosa storiella su un gran figlio di puttana, giovane De Víah, e me la devi verbatim, – mi diceva appena mi vedeva. – Chissà quando ti degnerai di accontentarmi. Se c’è una cosa che non sopporto è esser lasciato al buio. Ossia all’oscuro. Ossia digiuno. Sappilo».
Magari Muriel fosse stato colto dalla stessa curiosità maliziosa, rimasi immensamente deluso quando finalmente una settimana dopo i suoi affanni si placarono e tornò a trascorrere un po’ di tempo in casa. Fu in parte grazie al suo amico Jack Palance, che accettò subito il ruolo di coprotagonista nel nuovo film improvvisato là per là, o forse riesumato dal cassetto progetti mancati o rinviati o dimenticati, erano tante le idee di Muriel che non trovavano i mezzi per realizzarsi, probabilmente fu piú quello che non poté girare di quello che effettivamente realizzò. Non che Palance fosse nel momento piú fulgido della sua carriera, anzi, era quasi certamente nel peggiore. Chi consulti oggi la sua filmografia può notare che tra il 1981 e il 1986 non fece neanche un film, e che per quattro di quei sei anni la sua sola attività artistica fu condurre un programma televisivo che non varcò le frontiere degli Stati Uniti. Quindi non era strano che si prestasse a partecipare a una fantomatica produzione spagnola o di qualunque altra nazionalità; in fondo non si era fatto problemi già negli anni Sessanta a mettersi agli ordini di Jesús Franco, di Isasi-Isasmendi e di un pugno di italiani minori (e dire che in quello stesso decennio aveva lavorato per cineasti del calibro di Godard e Richard Brooks, di Abel Gance e Fleischer). Ma l’ammirazione che Muriel gli tributava era tale che la sola idea di poterlo avere come interprete bastò a pacificargli l’animo e a riempirlo di speranza. Non che il nome del grande Jack Palance nel cast di un film rappresentasse una garanzia di finanziamento o di successo, a quei tempi, era piuttosto il contrario, per quanto oggi possa sembrare vergognoso. Però a Muriel sembrava di buon auspicio poter contare su di lui e forse anche su Richard Widmark, che aveva già lavorato con Palance nei suoi primi due lungometraggi, intorno al 1950, e che forse si sarebbe lasciato convincere per l’altro ruolo di protagonista. Non ho la minima idea di quale fosse il soggetto del film né se furono mai iniziate le riprese. So solo che Volodymyr Jack Palahniuk – questo il vero nome ucraino di Palance – aveva già compiuto sessant’anni e Widmark doveva essere sui sessantacinque.
Avevo la sensazione, inoltre, che Muriel fosse di buonumore per l’intensificarsi dei suoi contatti con l’imprenditrice Cecilia Alemany. Ignoro come fosse riuscito a farsi ascoltare né di che tipo di ascolto si trattasse, so solo che si sentivano per telefono quasi ogni giorno e che per discorrere con lei si appartava e biascicava in modo che nessuno potesse sentirlo, me compreso. Non parlava piú di lei come di un essere semidivino, non gli uscivano piú frasi come «Che donna insigne; che fiuto per gli affari, siamo tutti dei microbi vicino a lei». Quando si smette di esagerare e di scherzare su qualcuno che prima si venerava è segno che quel qualcuno è sceso sulla terra ed è diventato uno di noi. Non arrivavo a pensare che ora condividessero la gomma da masticare o se la passassero senza alcuna finezza, ma una notte in cui Muriel era rientrato tardi e io, ancora sveglio, vagavo per la casa, notai che spandeva un’inebriante scia di profumo, quasi un narcotico, che di sicuro non si era messo lui. Se di una cosa ero certo era che la proprietaria di quella catena di grandi magazzini non si rivolgeva piú a lui con quel «buon uomo» che tanto l’aveva umiliato e divertito nel loro lontano primo colloquio.
La mattina dopo era cosí di ottimo umore, immagino, che mi convocò nel suo studio e mi disse, col pollice sotto l’ascella e la pipa nell’altra mano, che puntò verso di me come Sherlock Holmes, o meglio come Walter Pidgeon che a volte aveva baffi simili ai suoi:
– Giovane De Vere, visto che le cose sembrano sistemarsi e che ho l’impressione che il nuovo progetto si farà, dimentica pure quello che ti ho detto. Se non hai già preso altri impegni e preferisci rimanere, credo che qualcosa da farti fare la troverò. Ci sarà da tradurre la sceneggiatura, tanto per cominciare, quando sarà pronta –. E aggiunse, con una sfumatura d’orgoglio prematuramente risarcito: – Se ne accorgeranno Towers e quegli altri.
Ai suoi cambiamenti d’idea mi ero già abituato, come ai suoi ordini e contrordini. E anche al suo umore variabile. Ritenni quindi che forse non era il giorno sbagliato per verificare se anche la sua posizione nei confronti di Van Vechten fosse mutata.
– La ringrazio, Eduardo. Per la fiducia. Lavorare con lei è un piacere, lo sa, anche se ogni tanto temo di non esserle molto utile. Ma se mi desse un po’ di tempo per pensarci, gliene sarei grato. Mi ero già abituato all’idea di passare a un’altra fase lavorativa in settembre.
Quell’atmosfera, l’ho già detto, cominciava a risultarmi pesante, se non venefica, a tratti. Beatriz aveva ripreso a uscire con relativa normalità, ma il suo ticchettio senza musica era tornato a farsi insistente nelle ore in cui era in casa, e mi pareva piú funesto che mai, come se segnasse un lentissimo conto alla rovescia verso una fine che non arrivava, o che solo lei poteva intravedere nella sua bruma. La immaginavo mentre fissava assorta i tasti del pianoforte, mentre contava macchinalmente quelli bianchi e quelli neri e ascoltava lo scorrere del tempo senza riempirlo di nessun accordo o melodia, il tempo che non riempiamo suole accompagnarsi a pensieri statici, ripetitivi: «Ancora no, ancora no, ancora no, non è ancora il momento», per esempio. E la vedevo incupita: anche se lei e Muriel quasi non scambiavano parola, doveva essersi accorta della sua contentezza, cosí improvvisa, e forse anche lei aveva sentito a distanza quell’esclusivo profumo. Per quel che ne sapevo, non tentava neppure le incursioni notturne né montava la guardia davanti alla sua porta, come se finalmente avesse abbandonato ogni speranza. Quanto a me, sebbene continuassimo a trattarci con lo stesso rispetto e la stessa simpatia di prima, come se tra noi non vi fosse mai stata alcuna intimità, mi sentivo in colpa, ero a disagio e arrossivo, avrei voluto togliermi di torno perché il peso della mi...