Il sistema periodico
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Il sistema periodico

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Il sistema periodico

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Azoto, carbonio, idrogeno, oro, arsenico... Sono ventuno gli elementi chimici che dànno il titolo ai racconti di questo libro, e ventuno i capitoli di un'autobiografia che per affinità e accostamenti corre sul filo di una storia personale e collettiva, affondando le radici nell'oscura qualità della materia, raccontando le storie di un mestiere «che è poi un caso particolare, una versione piú strenua del mestiere di vivere». È questo il gigantesco minuscolo gioco che lega osservazione, memoria, scrittura: ne esce ricostruita la vicenda di una formazione maturata negli anni del fascismo, poi nelle drammatiche vicende della guerra: di chi, partendo dalla concretezza del lavoro, impara a capire le cose e gli uomini, a prendere posizione, a misurarsi con ironia e autoironia. Un De rerum natura metafora dell'esistenza, in cui emergono, nel volgersi del racconto, stranezze, fallimenti e riuscite imprevedibili. Con un'intervista all'autore di Philip Roth.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858420379

Il sistema periodico

Ibergekumene tsores iz gut tsu dertseyln.
(È bello raccontare i guai passati).

Argon

Ci sono, nell’aria che respiriamo, i cosiddetti gas inerti. Portano curiosi nomi greci di derivazione dotta, che significano «il Nuovo», «il Nascosto», «l’Inoperoso», «lo Straniero». Sono, appunto, talmente inerti, talmente paghi della loro condizione, che non interferiscono in alcuna reazione chimica, non si combinano con alcun altro elemento, e proprio per questo motivo sono passati inosservati per secoli: solo nel 1962 un chimico di buona volontà, dopo lunghi ed ingegnosi sforzi, è riuscito a costringere lo Straniero (lo xenon) a combinarsi fugacemente con l’avidissimo, vivacissimo fluoro, e l’impresa è apparsa talmente straordinaria che gli è stato conferito il Premio Nobel. Si chiamano anche gas nobili, e qui ci sarebbe da discutere se veramente tutti i nobili siano inerti e tutti gli inerti siano nobili; si chiamano infine anche gas rari, benché uno di loro, l’argon, l’Inoperoso, sia presente nell’aria nella rispettabile proporzione dell’1 per cento: cioè venti o trenta volte piú abbondante dell’anidride carbonica, senza la quale non ci sarebbe traccia di vita su questo pianeta.
Il poco che so dei miei antenati li avvicina a questi gas. Non tutti erano materialmente inerti, perché ciò non era loro concesso: erano anzi, o dovevano essere, abbastanza attivi, per guadagnarsi da vivere e per una certa moralità dominante per cui «chi non lavora non mangia»; ma inerti erano senza dubbio nel loro intimo, portati alla speculazione disinteressata, al discorso arguto, alla discussione elegante, sofistica e gratuita. Non deve essere un caso se le vicende che loro vengono attribuite, per quanto assai varie, hanno in comune un qualcosa di statico, un atteggiamento di dignitosa astensione, di volontaria (o accettata) relegazione al margine del gran fiume della vita. Nobili, inerti e rari: la loro storia è assai povera rispetto a quella di altre illustri comunità ebraiche dell’Italia e dell’Europa. Pare siano giunti in Piemonte verso il 1500, dalla Spagna attraverso la Provenza, come sembrano dimostrare alcuni caratteristici cognomi-toponimi, quali Bedarida-Bédarrides, Momigliano-Montmélian, Segre (è un affluente dell’Ebro che bagna Lérida, nella Spagna nord-orientale), Foà-Foix, Cavaglion-Cavaillon, Migliau-Millau; il nome della cittadina di Lunel, presso le Bocche del Rodano, fra Montpellier e Nîmes, è stato tradotto nell’ebraico Jaréakh ( = luna), e di qui è derivato il cognome ebreo-piemontese Jarach.
Respinti o male accetti a Torino, si erano stanziati in varie località agricole del Piemonte meridionale, introducendovi la tecnologia della seta, e senza mai superare, anche nei periodi piú floridi, la condizione di una minoranza estremamente esigua. Non furono mai molto amati né molto odiati; non sono state tramandate notizie di loro notevoli persecuzioni; tuttavia, una parete di sospetto, di indefinita ostilità, di irrisione, deve averli tenuti sostanzialmente separati dal resto della popolazione fino a parecchi decenni dopo l’emancipazione del 1848 ed il conseguente inurbamento, se è vero quanto mio padre mi raccontava della sua infanzia a Bene Vagienna: e cioè che i suoi coetanei, all’uscita dalla scuola, usavano schernirlo (benevolmente) salutandolo col lembo della giacchetta stretto nel pugno a mo’ di orecchio d’asino, e cantando: «Ôrije ’d crin, ôrije d’asô, a ji ebreô ai piasô»: «orecchie di porco, orecchie d’asino, piacciono agli ebrei». L’allusione alle orecchie è arbitraria, ed il gesto era in origine la parodia sacrilega del saluto che gli ebrei pii si scambiano in sinagoga, quando sono chiamati alla lettura della Bibbia, mostrandosi a vicenda il lembo del manto di preghiera, i cui fiocchi, minuziosamente prescritti dal rituale come numero, lunghezza e forma, sono carichi di significato mistico e religioso: ma del loro gesto quei ragazzini ignoravano ormai la radice. Ricordo qui per inciso che il vilipendio del manto di preghiera è antico come l’antisemitismo: con questi manti, sequestrati ai deportati, le SS facevano confezionare mutande, che venivano poi distribuite agli ebrei prigionieri nei Lager.
Come sempre avviene, il rifiuto era reciproco: da parte della minoranza, una barriera simmetrica era stata eretta contro l’intera cristianità («gôjím», «ñarelím»: le «genti», i «non-circoncisi»), riproducendo, su scala provinciale e su di uno sfondo pacificamente bucolico, la situazione epica e biblica del popolo eletto. Di questo fondamentale sfasamento si alimentava l’arguzia bonaria dei nostri zii («barba») e delle nostre zie («magne»): savi patriarchi tabaccosi e domestiche regine della casa, che pure si autodefinivano orgogliosamente «’l pòpôl d’Israél».
Per quanto riguarda questo termine «zio», è bene avvertire subito che esso deve essere inteso in senso assai ampio. Fra di noi, è usanza chiamare zio qualunque parente anziano, anche se lontanissimo: e poiché tutte o quasi le persone anziane della comunità, alla lunga, sono nostre parenti, ne segue che il numero dei nostri zii è grande. Nel caso poi degli zii che raggiungono un’età avanzata (evento frequente: siamo gente longeva, fino da Noè), l’attributo di «barba», o rispettivamente di «magna», tende a fondersi lentamente col nome, e col concorso di ingegnosi diminutivi, e di una insospettata analogia fonetica tra l’ebraico e il piemontese, si irrigidisce in appellativi complessi di strano suono, che si tramandano poi invariati di generazione in generazione insieme con le vicende, le memorie e i detti di chi li ha a lungo portati. Sono nati cosí i Barbaiòtô (zio Elia), Barbasachín (zio Isacco), Magnaiéta (zia Maria), Barbamôisín (zio Mosè, di cui si tramanda che si fosse fatto cavare dal ciarlatano i due incisivi inferiori per poter reggere piú comodamente il cannello della pipa), Barbasmelín (zio Samuele), Magnavigàia (zia Abigaille, che da sposa era entrata in Saluzzo a cavallo d’una mula bianca, risalendo da Carmagnola il Po gelato), Magnafôriña (zia Zefora, dall’ebraico Tzipporà che vale «Uccella»: splendido nome). Ad un’epoca anche piú remota doveva appartenere Nònô Sacòb, che era stato in Inghilterra a comperare stoffe, e perciò portava «’na vestimenta a quàder»: suo fratello, Barbapartín (zio Bonaparte: nome tuttora comune fra gli ebrei, a ricordo della prima effimera emancipazione elargita da Napoleone), era decaduto dalla sua qualità di zio perché il Signore, benedetto sia Egli, gli aveva donato una moglie cosí insopportabile che lui si era battezzato, fatto frate, e partito missionario in Cina, per essere il piú possibile lontano da lei.
Nona Bimba era bellissima, portava un boa di struzzo ed era baronessa. Lei e tutta la sua famiglia li aveva fatti baroni Napoleone, perché loro «l’aviô prestaie ’d mañòd», gli avevano imprestato dei soldi.
Barbarônín era alto, robusto e di idee radicali: era scappato da Fossano a Torino e aveva fatto molti mestieri. Lo avevano scritturato al Teatro Carignano come comparsa per il Don Carlos, e lui aveva scritto ai suoi che venissero ad assistere alla prima. Erano venuti lo zio Natàn e la zia Allegra, in loggione; quando il sipario si alzò, e la zia vide il figlio tutto armato come un filisteo, gridò con quanta voce aveva: «Rônín, co ’t fai! Posa côl sàber!»: «Aronne, che fai! Posa quella sciabola!»
Barbamiclín era un semplice; in Acqui veniva rispettato e protetto, perché i semplici sono figli di Dio e non dirai loro «raca». Però lo chiamavano Piantabibini, da quando un rashàn (un empio) si era preso gioco di lui facendogli credere che i tacchini («bibini») si seminano come i peschi, piantandone le penne nei solchi, e crescono poi sui rami. Del resto, il tacchino aveva un posto curiosamente importante in questo mondo famigliare arguto, mite ed assestato: forse perché, essendo presuntuoso, goffo e collerico, esprime le qualità opposte e si presta a divenire uno zimbello; o forse, piú semplicemente, perché a sue spese si confezionava a Pasqua una celebre semi-rituale quaiëtta ’d pitô (polpetta di tacchino). Per esempio, anche lo zio Pacifico allevava una tacchina e le si era affezionato. Davanti a lui abitava il Signor Lattes che era musicista. La tacchina chiocciava e disturbava il Signor Lattes; questi pregò lo zio Pacifico di far tacere la sua tacchina. Lo zio rispose: «Sarà fàita la sôa cômissiôn. Sôra pita, c’a staga ciútô»: «Sarà fatta la sua commissione. Signora tacchina, stia zitta».
Lo zio Gabriele era rabbino, e perciò era noto come «Barba Morénô», «zio Nostro Maestro». Vecchio e quasi cieco, se ne tornava a piedi, sotto il sole rovente, da Verzuolo a Saluzzo. Vide arrivare un carro, lo fermò e chiese di salire; ma poi, parlando col conducente, a poco a poco si rese conto che quello era un carro funebre, che portava una morta cristiana al cimitero: cosa abominevole, perché, come sta scritto in Ezechiele 44.25, un sacerdote che tocchi un morto, o anche solo entri nella camera dove giace un morto, è contaminato e impuro per sette giorni. Balzò in piedi e gridò: «I eu viagià côn ’na pegartà! Viturín fermé!»: «Ho viaggiato con una morta! Vetturino fermate!»
Il Gnôr Grassiadiô e il Gnôr Côlômbô erano due amici-nemici che, secondo la leggenda, abitarono per tempo immemorabile a fronte a fronte, sui due lati di uno stretto vicolo della città di Moncalvo. Il Gnôr Grassiadiô era massone e ricchissimo: si vergognava un poco di essere ebreo, ed aveva sposato una gôià, e cioè una cristiana, dai capelli biondi lunghi fino al suolo, che gli metteva le corna. Questa gôià, benché appunto gôià, si chiamava Magna Ausilia, il che indica un certo grado di accettazione da parte degli epigoni; era figlia di un capitano di mare, che aveva regalato al Gnôr Grassiadiô un grosso pappagallo di tutti i colori che veniva dalle Guyane, e diceva in latino «Conosci te stesso». Il Gnôr Côlômbô era povero e mazziniano: quando arrivò il pappagallo, si era comperata una cornacchia tutta spelacchiata e le aveva insegnato a parlare. Quando il pappagallo diceva «Nosce te ipsum» la cornacchia rispondeva «Fate furb», «fatti furbo».
Ma a proposito della pegartà dello zio Davide, della gôià del Gnôr Grassiadiô, dei mañòd di Nona Bimba, e della havertà di cui diremo in seguito, si rende necessaria una spiegazione. «Havertà» è voce ebraica storpiata, sia nella forma sia nel significato, e fortemente pregnante. Propriamente, è un’arbitraria forma femminile di Havèr = Compagno, e vale «domestica», ma contiene l’idea accessoria della donna di bassa estrazione, e di credenze e costumi diversi, che si è costretti ad albergare sotto il nostro tetto; la havertà è tendenzialmente poco pulita e scostumata, e per definizione malevolmente curiosa delle usanze e dei discorsi dei padroni di casa, tanto da obbligare questi a servirsi in sua presenza di un gergo particolare, di cui evidentemente fa parte il termine «havertà» medesimo, oltre agli altri sopra citati. Questo gergo è ora quasi scomparso; un paio di generazioni addietro, era ancora ricco di qualche centinaio di vocaboli e di locuzioni, consistenti per lo piú di radici ebraiche con desinenze e flessioni piemontesi. Un suo esame anche sommario ne denuncia la funzione dissimulativa e sotterranea, di linguaggio furbesco destinato ad essere impiegato parlando dei gôjím in presenza dei gôjím; o anche, per rispondere arditamente, con ingiurie e maledizioni da non comprendersi, al regime di clausura e di oppressione da essi instaurato.
Il suo interesse storico è esiguo, perché non fu mai parlato da piú di qualche migliaio di persone: ma è grande il suo interesse umano, come lo è quello di tutti i linguaggi di confine e di transizione. Esso contiene infatti una mirabile forza comica, che scaturisce dal contrasto fra il tessuto del discorso, che è il dialetto piemontese scabro, sobrio e laconico, mai scritto se non per scommessa, e l’incastro ebraico, carpito alla remota lingua dei padri, sacra e solenne, geologica, levigata dai millenni come l’alveo dei ghiacciai. Ma questo contrasto ne rispecchia un altro, quello essenziale dell’ebraismo della Diaspora, disperso fra «le genti» (i «gôjím», appunto), teso fra la vocazione divina e la miseria quotidiana dell’esilio; e un altro ancora, ben piú generale, quello insito nella condizione umana, poiché l’uomo è centauro, groviglio di carne e di mente, di alito divino e di polvere. Il popolo ebreo, dopo la dispersione, ha vissuto a lungo e dolorosamente questo conflitto, e ne ha tratto, accanto alla sua saggezza, il suo riso, che infatti manca nella Bibbia e nei Profeti. Ne è pervaso l’yiddisch, e, nei suoi modesti limiti, lo era anche la bizzarra parlata dei nostri padri di questa terra, che voglio ricordare qui prima che sparisca: parlata scettica e bonaria, che solo ad un esame distratto potrebbe apparire blasfema, mentre è ricca invece di affettuosa e dignitosa confidenza con Dio, Nôssgnôr, Adonai Eloénô, Cadòss Barôkhú.
La sua radice umiliata è evidente: vi mancano ad esempio, in quanto inutili, i termini per «sole», «uomo», «giorno», «città», mentre vi sono rappresentati i termini per «notte», «nascondere», «quattrini», «prigione», «sogno» (ma usato quasi esclusivamente nella locuzione «bahalòm», «in sogno», da aggiungere burlescamente ad un’affermazione affinché venga intesa dal partner, e solo da lui, come il suo contrario), «rubare», «impiccare» e simili; esiste inoltre un buon numero di dispregiativi, usati talvolta per giudicare persone, ma impiegati piú tipicamente, ad esempio, fra moglie e marito fermi davanti al banco del bottegaio cristiano ed incerti sull’acquisto. Citiamo: «’n saròd», plurale maiestatico, non piú inteso come tale, dell’ebraico «tzarà» = sventura, ed usato per descrivere una merce od una persona di scarso valore; ne esiste anche il grazioso diminutivo «sarôdín», e non vorrei andasse dimenticato il feroce nesso «saròd e senssa mañòd», usato dal sensale di matrimoni a proposito di fanciulle brutte e senza dote; «hasirúd», astratto collettivo da «hasír» = maiale, e quindi equivalente press’a poco a «porcheria, maialume». Si noti che il suono «u» (francese) non esiste in ebraico; esiste bensí la desinenza «út» (con «u» italiana), che serve a coniare termini astratti (ad esempio «malkhút», regno, da «mélekh», re), ma essa manca della connotazione fortemente spregiativa che aveva nell’impiego gergale. Altro uso, tipico ed ovvio, di queste e simili voci era in bottega, fra il padrone ed i commessi e contro gli avventori: nel Piemonte del secolo scorso il commercio delle stoffe era sovente in mani ebraiche, e ne è nato un sotto-gergo specialistico che trasmesso dai commessi divenuti a loro volta padroni, e non necessariamente ebrei, si è diffuso a molte botteghe del ramo e vive tuttora, parlato da gente che rimane assai stupita quando viene casualmente a sapere che usa parole ebraiche. Qualcuno, ad esempio, impiega ancora l’espressione «’na vesta a kiním» per indicare «un vestito a puntini»: ora i «kiním» sono i pidocchi, la terza delle dieci piaghe d’Egitto, enumerate e cantate nel rituale della Pasqua ebraica.
Vi è poi un discreto assortimento di vocaboli poco decenti, da impiegarsi non solo in senso proprio davanti ai bambini, ma anche in luogo d’improperi: nel qual caso, in confronto coi termini corrispondenti italiani o piemontesi, essi presentano, oltre al già menzionato vantaggio di non essere compresi, anche quello di alleviare il cuore senza scorticare la bocca.
Certamente piú interessanti per lo studioso del costume sono alcuni pochi termini che alludono a cose di pertinenza della fede cattolica. In questo caso la forma originariamente ebraica è corrotta molto piú profondamente, e ciò per due ragioni: in primo luogo, la segretezza era qui strettamente necessaria, perché la loro comprensione da parte dei gentili avrebbe potuto comportare il pericolo di una incriminazione per sacrilegio; in secondo luogo, la storpiatura acquista in questo caso il preciso scopo di negare, di obliterare il contenuto magico-sacrale della parola, e quindi di sottrarle ogni virtú soprannaturale: per lo stesso motivo, in tutte le lingue il Diavolo viene designato con moltissimi appellativi a carattere allusivo ed eufemistico, che permettono di indicarlo senza proferirne il nome. La chiesa (cattolica) era detta «tônevà», vocabolo di cui non sono riuscito a ricostruire l’origine, e che probabilmente di ebraico non ha che il suono; mentre la sinagoga, con orgogliosa modestia, veniva detta semplicemente «scòla», il luogo dove si impara e si viene educati, e, parallelamente, il rabbino non veniva designato col termine proprio «rabbi» o «rabbénu» (nostro rabbi), ma come Morénô (nostro maestro), o Khakhàm (il Sapiente). A scòla, infatti, non si è feriti dall’odioso Khaltrúm dei gentili: Khaltrúm, o Khantrúm, è il rito e la bigotteria dei cattolici, intollerabile perché politeistica e soprattutto perché gremita d’immagini («Non avrai altri dèi che me; non ti farai scultura né immagine… e non la adorerai», Esodo 20.3) e quindi idolatrica. Anche di questo termine, carico d’esecrazione, l’origine è oscura, quasi certamente non ebraica: ma in altri gerghi giudeo-italiani esiste l’aggettivo «khalto», nel senso appunto di «bigotto», ed usato principalmente a descrivere il cristiano adoratore d’immagini.
A-issà è la Madonna (vale semplicemente «la donna»); del tutto criptico ed indecifrabile, ed era da prevedersi, è il termine «Odò», con cui, quando proprio non se ne poteva fare a meno, si alludeva al Cristo, abbassando la voce e guardandosi attorno con circospezione: di Cristo è bene parlare il meno possibile, perché il mito del Popolo Deicida è duro a morire.
Altri numerosi termini erano tratti tali e quali dal rituale e dai libri sacri, che gli ebrei nati nel secolo scorso leggevano piú o meno speditamente nell’originale ebraico, e spesso comprendevano in buona parte: ma, nell’uso gergale, tendevano a deformarne o ad allargarne arbitrariamente l’area semantica. Dalla radice «shafòkh», che vale «spandere» e compare nel Salmo 79 («Spandi la Tua ira sulle genti che non Ti riconoscono, e sopra i regni che non invocano il Tuo Nome»), le nostre antiche madri avevano tratto la domestica espressione «fé sefòkh», fare sefòkh, con cui si descriveva con delicatezza il vomito infantile. Da «rúakh», plurale «rukhòd», che vale «alito», illustre vocabolo che si legge nel tenebroso e mirabile secondo versetto della Genesi («Il vento del Signore alitava sopra la faccia delle acque»), si era tratto «tirè ’n ruàkh», «tirare un vento», nei suoi diversi significati fisiologici: dove si ravvisa la biblica dimestichezza del Popolo Eletto col suo Creatore. Come esempio di applicazione pratica, si tramanda il detto della zia Regina, seduta con lo zio Davide al Caffè Fiorio in via Po: «Davidín, bat la cana, c’as sentô nèn le rôkhòd!»: che attesta un rapporto coniugale di intimità affettuosa. Quanto alla canna, poi, era a quel tempo un simbolo di condizione sociale, come potrebbe essere oggi il viaggiare in 1ª classe in ferrovia: mio padre, ad esempio, ne possedeva due, una di bambú per i giorni feriali, e l’altra di malacca col manico placcato d’argento per la domenica. La canna non gli serviva per appoggiarsi (non ne aveva bisogno), bensí per rotearla giovialmente in aria. e per allontanare dal suo cammino i cani troppo insolenti; come uno scettro, insomma, per distinguersi dal volgo.
«Berakhà» è la benedizione: un ebreo pio è tenuto a pronunziarne piú centinaia al giorno, e lo fa con gioia profonda, poiché intrattiene cosí il millenario dialogo con l’Eterno, che in ogni berakhà viene lodato e ringraziato per i Suoi doni. Nonô Leônín era il mio bisnonno, abitava a Casale Monferrato ed aveva i piedi piatti; il vicolo davanti alla sua casa era acciottolato, e lui soffriva a percorrerlo. Un mattino uscí di casa e trovò il vicolo lastricato, ed esclamò dal profondo del cuore: «’N abrakhà a côi gôjím c’a l’an fàit i lòsi!»: una benedizione a quegli infedeli che hanno fatto le lastre. In funzione di maledizione veniva invece usato il curioso nesso «medà meshônà», letteralmente «morte strana», ma in effetti calco del piemontese «assidènt». Allo stesso Nonô Leônín si attribuisce l’imprecazione inesplicabile «c’ai takèissa ’na medà meshônà fàita a paraqua», gli prendesse un accidente fatto a parapioggia.
Né potrei dimenticare Barbaricô, piú vicino nel temp...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il sistema periodico
  4. Appendice
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Dello stesso autore
  8. Copyright