Il libro di Johnny
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Il libro di Johnny

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In un primo momento Beppe Fenoglio aveva ideato un unico grande ciclo di Johnny, che partiva dagli anni del liceo di Alba, proseguiva con il corso ufficiali, l'8 settembre, il complicato e pericoloso ritorno in Piemonte, l'adesione alla guerra partigiana, il passaggio dai garibaldini ai badogliani. Successivamente però, su indicazione editoriale, Fenoglio riscrisse la prima parte di questo suo ambizioso progetto narrativo trasformando Primavera di bellezza in un libro autonomo: tagliò le prime ottanta pagine e aggiunse tre capitoli finali facendo morire velocemente Johnny al primo scontro a fuoco. La seconda parte, riscritta più volte, fu abbandonata e recuperata postuma con il titolo Il partigiano Johnny. In questa edizione Gabriele Pedullà ricostruisce per la prima volta il continuum narrativo del grande romanzo così come Fenoglio l'aveva pensato e concepito. E la saga di Johnny riemerge in tutta la sua forza epica. *** Presa nella sua integralità la storia del Libro di Johnny si rivela ispirata a un preciso modello epico. Con la prima parte del volume dedicata alle peregrinazioni di Johnny lontano da casa e la seconda parte incentrata sulla guerra nelle Langhe, Fenoglio dimostra di avere consapevolmente ripreso l'architettura dell' Eneide, dove ai primi sei libri ispirati alle peregrinazioni di Ulisse e all' Odissea seguono altri sei libri costruiti sulla falsariga dell' Iliade. Di questa struttura bipartita il disfacimento dell'esercito rappresenta il punto di svolta: la fine dei viaggi e l'inizio del vero e proprio ritorno a casa. Con la fuga del re e di Badoglio e il rientro di Johnny ad Alba comincia a tutti gli effetti un'altra storia, e si comprende facilmente per quali motivi Fenoglio avesse ipotizzato di interrompere il romanzo proprio qui nella vagheggiata edizione in due volumi. Dopo averci fatto attraversare mezza Italia, da questo momento tutta l'azione si svolgerà in uno spazio di poche decine di chilometri quadrati, attorno a un'Alba cui si chiede sempre più di prendere il posto della Troia o della Lavinio del mito, con il loro fiume sacro e i due eserciti che occupano a turno la parte dell'assediato e dell'assediante. dalla prefazione di Gabriele Pedullà

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858419144

Seconda parte

I

Johnny stava osservando la sua città dalla finestra della villetta collinare che la sua famiglia s’era precipitata ad affittargli per imboscarlo dopo il suo imprevisto, insperato rientro dalla lontana, tragica Roma fra le settemplici maglie tedesche. Lo spettacolo dell’8 settembre locale, la resa di una caserma con dentro un intero reggimento davanti a due autoblindo tedesche not entirely manned, la deportazione in Germania in vagoni piombati avevano tutti convinto, familiari ed hangers-on, che Johnny non sarebbe mai tornato; nella piú felice delle ipotesi stava viaggiando per la Germania in uno di quei medesimi vagoni piombati partito da una qualsiasi stazione dell’Italia centrale. Aleggiava da sempre intorno a Johnny una vaga, gratuita, ma pleased and pleasing reputazione d’impraticità, di testa fra le nubi, di letteratura in vita... Johnny invece era irrotto in casa di primissima mattina, passando come una lurida ventata fra lo svenimento di sua madre e la scultorea stupefazione del padre. S’era vertiginosamente spogliato e rivestito del suo migliore abito borghese (quell’antica vigogna), passeggiando su e giú in quella ritrovata attillatezza, comodità e pulizia, mentre i suoi l’inseguivano pazzamente nel breve circuito. La città era inabitabile, la città era un’anticamera della scampata Germania, la città coi suoi bravi bandi di Graziani affissi a tutte le cantonate, attraversata pochi giorni fa da fiumane di sbandati dell’Armata in Francia1, la città con un drappello tedesco nel primario albergo, e continue irruzioni di tedeschi da Asti e Torino su camionette che riempivano di terrifici sibili le strade deserte e grigie, proditoriate. Assolutamente inabitabile, per un soldato sbandato e pur soggetto al bando di Graziani. Il tempo per suo padre di correre ad ottenere il permesso dal proprietario della villetta collinare, il tempo per lui di arraffare alla cieca una mezza dozzina di libri dai suoi scaffali, e di chiedere dei reduci amici, il tempo per sua madre di gridargli dietro: – Mangia e dormi, dormi e mangia, e nessun cattivo pensiero, – e poi sulla collina, in imboscamento.
Per una settimana aveva mangiato molto, dormito di piú, nervosamente letto dal Pilgrim’s Progress2, dalle tragedie di Marlowe e dalle poesie di Browning, ma senza sollievo, con un’irosa sensazione di peggioramento. E aveva visto molto paesaggio, come un interno rinfresco, molto paesaggio (talvolta quarti d’ora e piú su un solo dettaglio di esso), tentando di escludervi i segni e gli indizi degli uomini. La villetta era stupida e pretenziosa, ma sorgeva su uno sperone in livrea d’amore autunnale, dominante a strapiombo il corso del fiume all’uscita della città, scorrente tra basse sponde come una inalterabile colata di piombo, solennemente limaccioso per le prime piogge d’autunno. In the stillness of night, il suo suono s’arrampicava frusciante su per lo sperone sino alle finestre della villetta, come per un agguato. Ma Johnny amava il fiume, che l’aveva cresciuto, con le colline. Le colline incombevano tutt’intorno, serravano tutt’intorno, sempre piú flou autunnalmente, in un musicale vorticare di lenti vapori, talvolta le stesse colline nulla piú che vapori. Le colline incombevano sulla pianura fluviale e sulla città, malsanamente rilucenti sotto un sole guasto. Spiccavano le moli della cattedrale e della caserma, cotta l’una, fumosa l’altra, e all’osservante Johnny parevano entrambe due monumenti insensati.
Le giornate d’autunno, pur d’autunno, erano insopportabilmente lunghe, il guadagno fatto col dormire diurno si dilapidò presto per l’insonnia notturna, ora egli passava nottate fumando, accavallando le gambe e leggendo un gran fondo di lettura. So mornings were diseased and nightmared. Il paesaggio ora lo nauseava, scontato il gusto del ritrovamento della terra natale e vitale. La letteratura lo nauseava. Come da quel surfeit di cibo e di sonno gli si cancellò tutto della vita militare, in capo ad una settimana non sapeva piú da che parte si cominciasse a smontare un mitragliatore, ciò che una settimana prima sapeva fare ad occhi bendati. Ed era male; qualcosa, dentro pungente e icefying, l’avvertiva che era male, le armi sarebbero rientrate nella sua vita, magari per la finestra, ad onta d’ogni strenua decisione o sacro voto contrari.
Sentiva acutamente, morbosamente, la mancanza della radio, i suoi almeno per il momento non avevano potuto far niente in questo senso. Prese a smaniare per sentire la voce di Candidus3, gluttoning on his own accent. Quasi ogni giorno saliva suo padre, for several requests-annotation e riferirgli le notizie locali e nazionali, quelle del bisbiglio e della diffusione radiofonica. Dalla sua voce opaca, irrimediabilmente anarrativa, Johnny seppe cosí della liberazione di Mussolini sul Gran Sasso ad opera di Skorzeny4 (gliel’hanno strappato come una bandiera di palio, non sono nemmeno stati capaci di sparargli in extremis, nemmeno di nasconderlo sicuramente), della costituzione in Germania di un governo nazionale fascista, dell’annuncio a Radio Roma restituitagli dai tedeschi fatto da Pavolini5 (Johnny vide con straordinaria chiarezza e vicinanza la faccia meteca del gerarca e pensò con gelida fulmineità alla sua eliminazione fisica), della strage di Cefalonia. In città, raccontava suo padre, non succedeva nulla, e proprio per questo la gente si fidava sempre meno, si chiudeva sempre piú in se stessa, morbosamente. – Chi tiene l’ordine pubblico? – I carabinieri facevano servizio, ma con evidente riluttanza, ultimamente con un gelo lampante. Chi altro era arrivato dallo sbandamento? Per dire i peggio-dislocati: Sicco dalla Francia, Frankie da Spoleto, il tale dal Brennero... «pensa agli uomini sorpresi in Grecia, in Jugoslavia, per tacer della Russia...» Gege era morto: come, non sapeva? era arrivato il mortorio dal Montenegro, fin dall’estate: la famiglia sosteneva che era caduto in guerra, ma da tutti si sapeva che era finito suicida, s’era sparato in bocca. Cosí, Gege; l’assurdo veterinario, l’uomo che l’aveva istradato al dream-boyness, nessuno piú vi sarebbe stato, dopo Gege, che corresse con le braccia ad ali di gabbiano.
Il cugino Luciano era felicemente rientrato da Milano, con una marcia notturna nel deep delle risaie vercellesi, parallelamente all’autostrada su cui rombavano le autocolonne tedesche. Ora era a casa, certo, nella sua casa fuori porta, alle falde della collina di cui Johnny abitava il vertice. Suo padre ripartiva: – E per nessun motivo ti muovi di quassú. Resisti. Se non vuoi pensare a te, pensa a noi, a tua madre: she agonized these last days.
Ma la sera stessa Johnny decise di andare a trovare il cugino, in ora atramente propizia, tagliando per la molliccia collina. Non poteva piú sopportare l’incubosa solitudine e la fissa visione della terra sfacentesi nell’umido buio come un pugno d’arena sotto una tacita acqua inesorabile. Camminava alla cieca. Ma come facevano gli uomini a riconquistare cosí le posizioni travolgentemente perdute, riacquisire tutta la loro capacità di comandare, punire ed uccidere, di piegare sotto la loro legge marziale, e con esigue, risibili armi, enormi masse di uomini ed infinite distese di terra?
Il cugino non era affatto cambiato, solo un’accentuata stempiatura gli ampliava la già vasta fronte... l’abitudine militare riafferrò Johnny e lo costrinse ad immaginarsi il cugino in uniforme militare d’ufficiale, ma il ritratto non gli venne compiuto. Poteva invece vederlo, all’opposto – un istintivo, ironico opposto – ragazzino, con le sue lunghe calze nere, alte alla coscia, automaticamente, illogicamente, suggerentigli Silvio Pellico6.
– Io ero di servizio alla Stazione Centrale l’8 settembre, e i primi due tedeschi arrivati in camionetta li abbiamo ben fatti fuori, – diceva il cugino. – Fu semplicissimo, quasi la punizione di una incredibile sfacciataggine, presentarsi in due a conquistare la stazione di Milano. C’erano borghesi con noi, fra i quali un avvocato. Davvero, un’atmosfera sognosa, inebriante da Cinque Giornate7. E nota che l’avvocato era tutt’altro che giovane, un vecchierello, s’era messo ai miei ordini declamando Cedant togae armis8, e sparava, lui personalmente, e tutto mi pareva un domino di carnevale. Poi ti volti e intorno non ti vedi piú nessuno, mentre i tedeschi facevano sempre massa, sempre piú. – Peccato dover buttare la divisa nuova di zecca, buttarla per la pelle, costata tanti soldi all’Unione Militare.
La zia stava cincischiando ai tasti della radio, Johnny si ricordò di quel loro antico acquisto, l’avevano comprata apposta per sentirsi la prima del Nerone di Mascagni, lo zio era musicomane, avevano per l’audizione e la seduta davanti all’esoterico apparecchio invitato tutto il parentado.
Lo zio, un uomo montagnoso e jelly, sotto la flagrante condanna della carne, squittí di paura, hand-menaced la moglie che regolava il tasto del volume, in un imprevedibile falsetto le domandò se le garbava la fine di quel tale, sorpreso da una ronda fascista in sentir Radio Londra, e arrestato e tenuto per notti in una misteriosa segreta, coi piedi nudi in acqua gelida. Johnny s’attendeva Radio Londra, ma sentí una diversa sigla musicale d’apertura e poi l’annunzio della Voce dell’America. Il cugino Luciano grinned humorously appena fuori dell’alone della luce, la zia disse esplicita: – Noi preferiamo la Voce dell’America. Siamo stufi degli inglesi, sono porconi come tutti noi d’Europa. Gli americani sono un’altra cosa, no? piú pulita.
Lo speaker americano aveva una bella voce, affascinante nella sua correttiva vibrazione twang, ma le notizie were under his voice. Il grande sbarco di Salerno, iniziato nella previsione di una volata a Roma, s’era insabbiato ai primi contrafforti costieri-montani. Luciano, che aveva seguito a casa la vicenda, diceva che avevano addirittura corso il pericolo d’esser ributtati a mare, ed erano comunque cascati belli belli nella guerra di posizione, e Johnny si disse che la sua brava parte doveva averla fatta la divisione vista in transito per Savona. Inutile, ad occhio si vedeva che era gente da far la sua parte. Il distante ricordo glieli magnificava, titanici soldati, depurati dal lezzo.
Seguí un commento di Fiorello La Guardia9. – Chi è costui? – Il sindaco di New York, pensa, – istruí la preparatissima zia, che non viveva piú che per i turni della Voce dell’America: – È un italiano, un emigrante, uno dei nostri tempi. Immagina la strada che deve aver fatta per arrivare ad essere sindaco di New York! – Scoppiò nel fono la voce di La Guardia, intollerabile a Johnny nella sua sbracata inflessione siculo-inglese, un repellente ibrido di corvino sudore siciliano e di amara antisepsi anglosassone. Parlava con accidentata violenza, scortecciando le parole, pareva che le schegge di quello scortecciamento rimbalzassero secche, ferenti, contro la griglia dell’apparecchio. La voce pitched, ispirata non sapevi se dal disprezzo per i suoi antichi compatrioti o dall’odio mortale per i tedeschi: tutto per lui era facile, immediato, definitivo, mortale. Urlò: – A-tacateli, a-tacateli! A-tacateli con ba-toni e con co-telli! – Johnny e il cugino scattarono in piedi per l’indignazione e lo spregio. Urlavano a loro volta. Attaccarli con ba-toni e con co-telli! Ma lui non li ha visti i panzer della GÖring10! Se costui è sindaco di New York...! Gli americani a Salerno hanno ben altro che bastoni e coltelli, ma non fanno un passo avanti! Imbecille! Sporco imbecille! Cafone! – La zia s’era alzata, muta e rigida e gonfia nella sua irriservata, martirica, silente-aggressiva ammirazione per l’America e le cose americane, La Guardia compreso. Poi si placò e risedette all’apparecchio, l’orecchio teso a districare e tesaurizzare l’ultimo urlio di La Guardia, mentre lo zio, tremando in tutta la sua mole gelatinosa, le sibilava di spegnere, che l’importante era già stato detto e sentito. Non gli badò, scrollò le spalle allo smaniare sudoroso dell’omone con la respirazione fischiante del bimbo ossesso, girò il tasto nella dissolvenza dell’ultima nota della chiusura musicale. Johnny e il cugino passeggiavano con infinita rabbia l’angusta cucinetta, s’arrestarono insieme sotto il di lei sguardo critico ed amante. Sollevò nella luce la sua consunta argentea testa, disse: – È terribile avere ora dei figli della vostra età –. Johnny si sentí touché, si disse che doveva cominciare a pensare ai suoi genitori, curarsi maggiormente di loro e del loro spirito, ora realizzava appieno l’invecchiamento di suo padre.
Si congedò, Luciano disse di tornare la prima sera sicura e che non avesse di meglio, la zia accennò a conferma, con la sua animosa sobrietà, ma lo zio salutò con una balbuziente freddezza. – Vieni tu, Luciano, da me un pomeriggio... – aveva bisbigliato Johnny, ma il vecchio udí, disse spelling: – Luciano non si muove, non si muoverà mai piú –. Ma il cugino uscí per accompagnarlo un breve e cieco tratto sulla strada della collina brulicante di buio frappè. E non si dissero parola.
Il primo autunno appariva all’agonia, a fine settembre la trentenne natura si contorceva nei fits della menopausa, nera tristezza piombata sulle colline derubate dei naturali colori, una trucità da mozzare il fiato nella plumbea colata del fiume annegoso, lambente le basse sponde d’infida malta, tra i pioppeti lontani, tetri e come moltiplicantisi come mazzo di carte in prestidigitazione ai suoi occhi surmenagés. E il vento soffiava a una frequenza non di stagione, a velocità e forza innaturale, decisamente demoniaco nelle lunghe notti.
Dalla finestra Johnny scrutava il rettifilo grigio-asfalto che dalla collina degradava in città, fino all’evidentissimo confine coll’acciottolato della città. A vista d’occhio, il movimento ed il traffico s’era diradato, epidemicamente, e quel poco s’era sensibilmente accelerato, i passanti quasi apparivano velocitati, comicamente, come personaggi nei film di Ridolini11, e nel ridicolo era una clandestina punta d’angoscia, viperina.
Vide distintamente, a grande distanza, suo padre salire alla villetta, ancora sull’asfalto suburbano, colpí Johnny la stanchezza, la non-joy del suo cammino. Lo seguí per tutto il tratto scoperto, il cuore liquefacenteglisi per l’amore e la pietà del vecchio... «È terribile ora avere dei figli della vostra età». Ogni suo passo parlava di angoscia e di abnegazione, ed il figlio alto e lontano sentiva che non avrebbe mai potuto ripagarlo, nemmeno in parte centesimale, nemmeno col conservarsi vivo. L’unica maniera di ripagarlo, pensava ora, sarebbe stata d’amare suo figlio come il padre aveva amato lui: a lui non ne verrà niente, ma il conto sarà pareggiato nel libro mastro della vita. Tremava per la voglia ed il disegno di riceverlo bene, adeguatamente, ma come il padre si sottrasse alla sua vista imboccando i primi scalini della villetta, allora Johnny automaticamente, e con una grinning ansia, pensò se aveva portato le sigarette.
Sí, ma una razione inferiore al consueto, e un fascio di giornali. Johnny accese convulsamente una sigaretta e stirò un giornale. Il gioco si faceva, il fascismo si riprendeva lentamente ma sicuramente, con una organicità che non gli si sarebbe mai riconosciuta. Tutti i giornali stavano riallineandosi, spazzati via i direttori effimeri dell’interregno, che avevano scritto l’articolo di fondo sulla libertà, la salutare tragedia, il riaccostamento agli eterni, imprescindibili valori occidentali. Una foto di un riorganizzato reparto militare, uomini di Graziani, che avevano rinnegato il giuramento al re per tener fede alla foederis arca12 germanica: apparivano atletici, estremamente efficienti, infinitamente di piú dei consimili reparti del fu Regio Esercito, modernissimi, Germanlike, tutti con sorrisi di esplodente fiducia, con un risultato visivo verminoso, apertamente, deliberatamente fratricida. L’acme però era contenuto nelle foto dei legionari della Ettore Muti13, che infilavano armi ultramoderne nei vecchi dominoes della marcia su Roma, parabellum a tracolla di neri maglioni da sciatori, col fregio stagnoso del teschio. Ma reparti sbilanciati, all’esame, composti di vecchi e bambini, veterani, novizi e mascottes.
Johnny sollevò gli occhi dal giornale a suo padre. Sedeva con una certa ritenuta scompostezza sulla cheap sedia di vimini, la sua testa leggermente oscillante nella discreta luce del rapidly-decaying pomeriggio. L’angoscia, la disperazione, il veder nero gli conferivano una petrea configurazione d’egizio o d’azteco uomo: i sentimenti elementari a galla, congelavano tutti in una antichissima iconicità, annullando, constatava Johnny, secoli di progresso nell’atteggiamento.
Si risprofondò nel giornale, un altro. Il fascio ricontrollava le grandi città, dalle quali si sarebbe riallargato nelle piccole e nelle campagne come una macchia d’olio asfissiante. Tutti i fogli sottolineavano in particolare che gli operai stavano agli editti, avevano tutti ripreso il lavoro e lo compievano regolarmente. Si riorganizzavano dunque, sarebbero stati lontani e duri a morire, e nella visione di questa riorganizzazione e resistenza alla definitiva morte Johnny non vedeva tanto la bovina, esangue faccia del Duce liberato da Skorzeny, ma la faccia di Pavolini e di molti altri come lui, mai visti ma ora immaginabili agevolmente, come tirabili a cliché.
Lasciò che i giornali gli scivolassero a terra, con un angoscioso planare di uccelli sparati. – Di nuovo in città? – Suo padre subito si ricompose per la fatica e la nobiltà del parlare. Nulla lo impressionava e tuttavia gli piaceva come parlare. – Nulla, se togli che sono arrivate, pare, due macchine di tedeschi e di fascisti all’hotel. È vero che una di queste sere sei sceso a casa degli zii? Hai fatto malissimo. Tu non ti devi muovere. Ci vuole pazienza, ma non ti devi muovere. Pensa a noi che a casa pensiamo a te che sei quassú e questo un po’ ci conforta nelle nostre preoccupazioni, e tu invece... – Io qui impazzisco! – Eh? – urlò suo padre in irosa angoscia. – Io qui impazzisco! Quassú da solo! Ed anche perché non vedo il pericolo nel scendere un minuto in città. – Non vedi il pericolo? Sei pazzo! Perché finora non è successo niente! Ma tante ne succederanno che non ne avremo mai piú gli occhi asciutti. E come credi che si viva in città, per volerci tanto scendere? In città viviamo come topi, quasi non abbiamo piú amici, nessuno si fida piú dell’altro. Non ci fidiamo piú degli stessi carabinieri in servizio, tremiamo d’incontrarli. E se facciamo un discorso, contaci che c’è un argomento di spie. I fascisti rialzano la testa. Sai che il figlio del federale e quello della DICAT sono andati a far l’allievo ufficiale in una nuova scuola fascista? Sai che l’avvocato e suo figlio si sono arruolati in una Brigata Nera? – Che vuoi che sappia da quassú? – ma subito l’afferrò, lo fulminò l’idea fissa dell’eliminazione fisica. Si vedeva benissimo come giustiziere di quei suoi connazionali, no compaesani, ecco che li giustiziava in quelle loro ribalde divise di parte. Non erano andati a indivisarsi e armarsi per gli inglesi, l’avevano deciso e l’avrebbero fatto per loro, gli italiani, gli altri. Ebbene gli italiani li avrebbero tutti ammazzati, grazie ad una mano italiana essi non sarebbero stati carne per piombo inglese... – Hai visto i miei professori? Vengono a trovarmi? – Non li ho visti piú, ma certo verranno. Non ho tanto piacere, sinceramente, che tu ti veda col professor Cocito. Parla troppo, senza precauzioni, e poi tutti sanno che è comunista –. Cocito comunista? Comunista? Ma che significava, e che comportava esattamente l’essere comunista? Johnny non ne sapeva nulla, all’infuori della stretta relazione con la Russia. – Ora va, si fa tardi, e Johnny guardò l’innaturale sera incombere sulla piana, soffocando come uno spegnitoio tutti i riflessi sui tetti della città. Le colline, esse naufragavano nel violaceo. – Sí, ma prometti, a me e a tua madre, che non ti muoverai piú di qui. Se vuoi farti una sgambata, hai la tua collina, in un’ora intelligente.
Johnny promise e guardò suo padre scendere, con l’accentuazione delle sue congenite spalle curve, per il sentiero che si floueva nel crepuscolo.
Per un freddo improvviso rientrò. Sentiva intorno a sé, ed in sé, una precarietà, una miseria per cui tutto lui era sottilizzato, depauperato, spaventosamente ridotto rispetto ad una normale dimensione umana. E uno stimolo sessuale, repentino e clamoroso, giunse a complicare tutto, portare tutto all’acme della crisi. Bisognava scendere in città anche per quello, a costo di trovare tedeschi e fascisti nei polverosi salottini démodés. La cosa gli appariva lercia ma irrifiutabile, in una livida squallorosità di intervento medico. Ciò enfiò la sua miseria umana, lo fece appa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il libro di Johnny
  3. Le armi e il ragazzo di Gabriele Pedullà
  4. Nota bibliografica
  5. Nota al testo
  6. Il libro di Johnny
  7. Prima parte
  8. Seconda parte
  9. Sussidi
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright