Quando tutte le donne del mondo...
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Quando tutte le donne del mondo...

  1. 192 pagine
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Informazioni sul libro

Famiglia, contraccezione, amore, aborto, violenza: attraverso articoli, interviste, note, Simone de Beauvoir affronta senza reticenze la condizione della donna e invita uomini e donne a considerare la vera uguaglianza dei sessi una conquista necessaria al progresso della società. Pubblicato in Italia nel 1982, le pagine militanti di questo libro conservano una straordinaria e bruciante attualità, soprattutto oggi che alcuni diritti civili, conseguiti grazie alle lotte del movimento femminista, vengono messi in discussione da certi ambienti politici e confessionali.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858418741
Categoria
Sociologia

Intervista di Madeleine Chapsal a Simone de
Beauvoir1

Sono sempre esistite donne eccezionali, ma dànno generalmente la sensazione di essere passate dalla parte degli uomini. Lei invece sarebbe piuttosto la rappresentante di una società che non esiste ancora. Non si sente un unicum della sua specie?
No, perché non penso tanto alla mia specie, non penso che sono una scrittrice e non sento la necessità di avere intorno a me delle scrittrici. Nella mia vita ci sono state soprattutto amicizie maschili, ma sono anche stata molto legata con donne. Nell’insieme vado molto d’accordo con le donne.
Chi sono i lettori del Secondo sesso?
Donne, e anche giovani. Ma ora sono soprattutto donne; leggendo le loro lettere, ho l’impressione che la situazione odierna sia proprio quella da me descritta, una specie di dilaniamento. Ci sono quelle che lavorano, che tentano di crearsi una vita loro, e non riescono a conciliarla con la propria vita coniugale, o domestica, oppure quelle che lottano contro un ambiente che non le capisce.
Quando hanno approvato la sua opera, sa se passano poi alle conclusioni, all’azione?
Un libro non basta mai a cambiare una vita; le circostanze hanno troppo peso. Non credo che Il secondo sesso abbia trasformato la condizione di alcuna donna; ha però potuto aiutarle a meglio capirla, a sentirsi meno sole.
Ho trovato in loro molta risonanza, cosí pure per I mandarini. Anche per questo non mi sento affatto sola. Non sono beninteso le piú indipendenti, le piú seriamente impegnate in un’azione, quelle che mi scrivono: generalmente le mie corrispondenti sono persone esitanti, dilaniate. Una quantità di donne si trova in queste condizioni.
Lei risponde?
Sí, dal Secondo sesso in poi, rispondo. Rispondo a quasi tutte le lettere, tranne quando sono richieste d’autografo.
Sono lettere del tipo «Posta rosa»?
Ho delle corrispondenti intelligentissime, e due o tre che mi sembrano addirittura notevoli. Alcune mi mandano dei manoscritti. Se hanno delle qualità, tento di farli pubblicare. Ci sono riuscita qualche volta, e i libri hanno avuto successo. Tutto questo non ha niente a che vedere con la «Posta rosa».
Quando è uscito Il secondo sesso, ho fatto vedere le lettere che mi erano arrivate a Colette Audry perché facesse un articolo: era davvero un documento sulla condizione femminile. Le ho detto che ricevevo anche lettere di giovani: ce ne sono di interessantissime, ad esempio quelle che mi manda dall’Algeria un giovane richiamato. Naturalmente in mezzo c’erano anche lettere sciocche o bislacche, o provocatorie, o aberranti; in questi casi, lascio perdere. Ma voglio precisare, perché mi sembra importantissimo, che la maggior parte pone veri quesiti, scopre veri conflitti.
Ne è stata sorpresa? Nel Secondo sesso non ha forse detto che la maggioranza delle donne è o incosciente, o in malafede?
No, non avevo una cosí cattiva opinione delle donne quando ho scritto Il secondo sesso. Ciò che ho detto è che erano «incastrate», prese in trappola: allora, naturalmente, questo le costringe alla malafede. Non dico che non ci sia mai malafede nelle mie corrispondenti, ma sovente c’è anche un vero e proprio sforzo per vederci chiaro e tirarsene fuori.
Da quand’è che lei riflette sulla condizione delle donne? Ci pensava da giovanissima? Ne ha sofferto?
No. Ho spiegato nelle Memorie d’una ragazza perbene come avessi avuto da questo punto di vista una giovinezza privilegiata. Quando studiavo alla Sorbona, trovavo comodo e piacevole essere donna.
Queste Memorie, perché le ha scritte?
Diventare un’intellettuale, una scrittrice, il problema si poneva in termini diversi per una ragazza della mia generazione che per una ragazza di oggi, ecco perché ho scritto le Memorie d’una ragazza perbene; ho pensato che potesse essere interessante raccontare quella storia.
Come ha avuto inizio la sua «presa di coscienza»?
Non la chiamerei una «presa di coscienza»; non credo che quest’espressione sia esatta. Comunque, ha poca importanza. Fatto sta che un giorno mi sono accorta di non credere piú in Dio. Da tempo trovavo contraddittorio credere in Dio e rimanere nel mondo: dal momento che c’era l’infinito, la vita eterna, si sarebbe dovuto rinunciare al mondo.
E poi un giorno mi sono resa conto che non avrei mai sacrificato il mondo a Dio. Leggevo libri di nascosto, era un peccato, lo sapevo, e mi sono sentita molto sola perché agli occhi di mia madre, delle mie insegnanti, delle mie amiche, perdere la fede era una cosa orrenda. Si diventava una sorta di pecora nera. Ho conservato il segreto, ma sono vissuta a disagio per due-tre anni: come se avessi avuto torto di avere ragione.
Quando ha incominciato a scrivere?
Come molti bambini, avevo scritto delle sciocchezzuole, tra gli otto e i dieci anni; poi ho smesso, ma a quindici anni avevo un unico sogno: diventare scrittrice, e ho voluto farlo seriamente sin dall’inizio del periodo universitario. Era l’unica soluzione. Nel mio ambiente non ero piú al mio posto, e siccome lo confondevo con l’intera società, potevo ricorrere solo a una specie di assoluto: era ciò che la letteratura rappresentava per molti giovani della mia generazione. Dalla mia educazione religiosa mi era rimasto il disprezzo del denaro, della celebrità, di tutti i beni di questo mondo; anelavo a tutt’altro; scrivere, per me, era una missione, era una salvezza, sostituiva Dio.
Si sentiva in colpa nei confronti di quella società in cui voleva collocarsi?
Mi sono sentita colpevole dai quattordici ai diciotto anni: continuavo a prendere la comunione e non avevo piú la fede. E poi ho detto la verità a mia madre, ho smesso di praticare, e ho avuto la coscienza a posto.
Fu da quel momento in poi che ebbi il permesso di leggere tutto. Prima mi censuravano severamente: perfino all’Aiglon mio padre faceva dei tagli. Avevo letto di nascosto tutta la sua biblioteca: Zola, Maupassant, France, Bourget, ecc. Ma non conoscevo la letteratura moderna, e non sapevo neppure come abbordarla. Per fortuna avevo un cugino – piú vecchio di me di sei mesi, frequentava lo «Stanislas» – che veniva sovente a casa nostra e che ammirava Mallarmé, Cocteau, Picasso. Fino ad allora mi aveva guardata dall’alto in basso; poi ha cominciato a parlarmi. Gli ho spiegato che soffocavo, che marcivo. Mi ha imprestato dei libri, me ne ha consigliati. È stata una rivelazione. Ho letto Gide, Barrès, Montherlant, Claudel, Valéry, Proust, tutto quello che ignoravo; leggevo come pazza…
Non leggeva dei filosofi?
No, leggevo soprattutto Gide e Barrès. Sono diventata fanatica del «culto dell’io» e ho cominciato a tenere un diario per incoraggiarmi alla lotta contro «i Barbari».
Dopo il primo anno di università, decisi di studiare filosofia. Non era molto sostanziosa, allora, la filosofia alla Sorbona. Ci veniva insegnato un idealismo spiritualista, molto vago. Hegel, Marx, quei nomi non venivano mai pronunciati. Li ho conosciuti solo dopo l’ordinariato. Ho cominciato a parlare con qualche studente, leggevo, discutevo. Però preferivo la letteratura. Mi piaceva molto Bergson, e in particolare la sua critica del linguaggio: ma una frasettina di Barrès sullo stesso argomento mi toccava maggiormente. La voce dei filosofi mi sembrava troppo impersonale.
Aveva una meta?
Anzitutto cercavo di difendermi dal mio ambiente, di giustificarmi. Ma quando mi chiedevo: cosa fare di me stessa? non vedevo risposte. Pensavo che non valesse la pena di vivere, eppure ci tenevo molto a vivere. Pensavo che nessuno scopo meritasse qualsiasi sforzo, e nello stesso tempo portavo avanti le mie iniziative con accanimento. Teoricamente ero già delusa da tutto in anticipo. In realtà lavoravo molto, volevo capire. E, sempre piú, volevo scrivere.
Fare la romanziera?
Sí, volevo scrivere dei romanzi. Volevo parlare di persona alla gente, cosí come certi scrittori avevano parlato a me.
Lei si esprime infatti, nelle sue opere e in ogni caso, come se fosse convinta che tutto può essere spiegato, che ci si può sempre mettere d’accordo; che con parole, con idee ben articolate, si finisce col comprendersi per forza.
Perfino a vent’anni sapevo benissimo che non ci si può intendere con tutti. Ma pensavo anche che c’è gente dispostissima ad ascoltarti se sai parlarle. E contavo che avrei saputo farlo.
Studiavo come un uomo. Mi sentivo un po’ eccezionale. L’anno dell’ordinariato ho conosciuto Sartre, Nizan, Aron, Politzer, erano tutti piú avanti di me, sul piano intellettuale, ma non l’ho rimpianto, anzi: il mondo mi è sembrato piú ricco di quanto sperassi. Sartre, in particolare, mi sono rapidamente resa conto che – almeno per me – era imbattibile, ma questo mi andava benissimo. Perché un uomo fosse un mio pari, doveva dimostrarsi un po’ superiore, dal momento che nell’insieme la casta femminile era svantaggiata in partenza.
Come le è venuta l’idea del Secondo sesso?
Mi è venuta tardissimo. Uomini o donne, pensavo che ciascuno può cavarsela; non mi rendevo conto che la femminilità fosse una situazione. Ho scritto tre romanzi, dei saggi, senza preoccuparmi della mia condizione di donna. Un giorno mi è venuta voglia di dare una spiegazione su me stessa. Ho cominciato a riflettere e mi sono accorta con una specie di sorpresa che la prima cosa che avrei dovuto dire era: sono una donna. L’intera mia formazione affettiva, intellettuale, è stata differente da quella d’un uomo. Ho riflettuto su questo e mi sono detta: bisognerebbe vedere sul piano generale, e nei particolari, cosa significa essere donna. Ho cercato di tenere conto dei miti, e soprattutto di descrivere il modo in cui la società fabbrica le sue donne.
Per quanti anni vi ha lavorato?
Prima avevo studiato molta psicologia, psicanalisi, sociologia. Avevo basi abbastanza solide. Ho scritto il libro in due anni.
All’inizio, si ha l’impressione di dover leggere centinaia di libri. Ma poi ci si accorge che ne esiste soltanto un numero piccolissimo in cui si impara qualcosa: gli altri si limitano a plagiare, a ripetere, a volgarizzare i libri chiave.
Aveva l’impressione di fare delle scoperte?
Sí, su parecchi punti. In storia, ad esempio, certi studi mi hanno fatto pensare che la storia della donna si confondeva con quella dell’eredità: ma non ho trovato quest’idea espressa in nessun posto. La maggior parte delle sintesi che ho proposto, e la prospettiva generale, sono invenzioni personali.
Non ha chiesto il consiglio di nessuno?
Discuto sempre con Sartre, è lui che mi ha spinta a dare al libro tale ampiezza.
Julien Gracq ha scritto che avevo dato prova di coraggio esponendomi alla «canea francese». In effetti, sono stata molto sorpresa dal furore scatenato dal Secondo sesso. Per lo piú si sono irritati gli uomini, perfino uomini di sinistra
Forse ciò che li urta è di vedere che lei non esita mai davanti alla parola precisa?
Era la tesi di per sé a urtare. Il fascista che sonnecchia nell’intimo di molti uomini di sinistra si è risvegliato in quell’occasione. Non mi aspettavo assolutamente una simile reazione. I miei amici maschi sono privi di ogni «complesso di virilità», provano verso le donne un sentimento di fratellanza; pensavo che la stragrande maggioranza degli appartenenti alla sinistra avrebbe avuto lo stesso atteggiamento. Mi sbagliavo di molto. Naturalmente è stato detto che avevo scritto una «opera piena di rancore», mentre si trattava di uno studio sereno al massimo.
Avevo cominciato a riflettere su me stessa, e mi ero accorta che esisteva una «condizione femminile». Avevo voluto spiegarla, ecco tutto.
Il fatto di scrivere Il secondo sesso l’ha cambiata?
Nient’affatto. Perché? Non credo che si possa cambiare a quell’età.
Ho l’impressione che tutto si determina molto presto: forse a dieci anni, forse addirittura a due.
Quali sono state le reazioni alle sue Memorie?
L’alta tiratura mi ha sorpresa e messa un po’ in imbarazzo. Pensavo che avrebbero interessato solo poche persone. In effetti, quel successo mi è sembrato di bassa lega: troppe donne ci si so...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quando tutte le donne del mondo...
  3. Simone de Beauvoir di Simone de Beauvoir
  4. Simone de Beauvoir vista da Jean-Paul Sartre
  5. Simone de Beauvoir vista dagli altri
  6. Brigitte Bardot e la sindrome di Lolita
  7. Oggi Julien Sorel sarebbe una donna
  8. Intervista di Madeleine Chapsal a Simone de Beauvoir
  9. Prefazione a La Grand’ Peur d’aimer [La grande paura di amare] della dottoressa Lagroua Weill-Hallé
  10. La condizione femminile
  11. Una francese celebre spiega che cosa è l’amore e che cosa non è
  12. Situazione della donna di oggi
  13. La donna e la creazione
  14. La donna ribelle
  15. Risposta ad alcune donne e a un uomo
  16. Prefazione a Un caso di aborto
  17. Deposizione di Simone de Beauvoir al processo di Bobigny
  18. Il sessismo comune
  19. Prefazione al libro di Claire Cayron Divorce en France [Il divorzio in Francia]
  20. Le donne si ostinano
  21. Simone de Beauvoir interroga Jean-Paul Sartre
  22. Il secondo sesso venticinque anni dopo
  23. Quando tutte le donne del mondo…
  24. Prefazione al libro di Anne Ophir Regards féminins [Sguardi femminili]
  25. Conversazione con Simone de Beauvoir
  26. Il libro
  27. L’autore
  28. Dello stesso autore
  29. Copyright