«Me l’ha fatta mia moglie, – aveva detto lui. – Per il Dramma di sant’Olav».
Gancetti di ferro uniti gli uni agli altri. Quante migliaia potevano essere? Come dicevo, ero convinto di aver avuto qualcosa in cambio dalla vedova. Una cotta. Nessuna meraviglia se Pine mi aveva trovato sudato. Sotto la giacca e la camicia ero conciato come un re santo del cazzo.
La maglia di ferro aveva respinto bene i colpi alla schiena e al petto. La coscia, invece, era messa peggio.
Sentivo il sangue che usciva pulsando mentre giacevo immobile e guardavo i fanalini di coda del furgone nero farsi sempre piú indistinti e infine sparire nella notte. Poi cercai di alzarmi. Mi sentii mancare, ma riuscii a rimettermi in piedi e a dirigermi barcollando verso la Volvo parcheggiata davanti all’ingresso della chiesa. Il canto delle sirene si avvicinava di secondo in secondo. Nel coro c’era come minimo un’ambulanza. Il becchino aveva intuito cosa stava succedendo quando aveva chiamato i soccorsi. Forse sarebbero riusciti a salvare la ragazzina. Forse no. Forse io sarei riuscito a salvarmi, pensai aprendo la portiera della Volvo. Forse no.
Ma il cognato non aveva mentito alla moglie, aveva lasciato le chiavi infilate.
A fatica mi sedetti dietro il volante e girai la chiave. Il motorino di avviamento gemette, poi si arrese. Maledizione, maledizione. Lasciai la chiave e riprovai. Altri gemiti. E mettiti in moto, forza! A che pro fabbricare automobili quassú, in culo al mondo, dove c’è tanta neve, se non riescono a farle in modo che partano con qualche grado sotto lo zero? Battei la mano sul volante. Vidi le luci azzurre pulsare come l’aurora boreale nel cielo invernale.
Ecco! Diedi gas. Lasciai la frizione, le ruote girarono a vuoto nella neve fino al fondo ghiacciato, dove le gomme chiodate fecero presa e slittando mi condussero verso il cancello.
Dopo aver percorso qualche centinaio di metri nella zona residenziale, tornai indietro verso la chiesa a passo di lumaca. Avevo appena fatto inversione quando nello specchietto retrovisore scorsi i lampeggianti azzurri. Ubbidiente, misi la freccia e imboccai il vialetto d’accesso di una villa.
Sfrecciarono due auto della polizia e un’ambulanza. Sentii che stava arrivando almeno un’altra volante e aspettai. E mi resi conto che ero già stato in quel posto. Cazzo. Proprio sulla strada davanti a quella casa avevo liquidato Benjamin Hoffmann.
La finestra del soggiorno era addobbata con decorazioni natalizie e tubi di plastica che imitavano la luce delle candele e gettavano un luccichio di calore domestico sul pupazzo di neve nel giardino. Quindi il bambino ci era riuscito. Forse con l’aiuto di un po’ d’acqua e del padre. Il pupazzo di neve era fatto bene. Aveva un cappello da uomo, un sorriso assurdo di sassolini e due braccia di stecchi che sembravano voler stringere tutto questo maledetto mondo e le cose folli che vi accadevano.
L’auto della polizia mi superò, mi immisi di nuovo sulla strada e ripartii.
Per fortuna non arrivarono altre volanti. Nessun poliziotto notò una Volvo che si affannava a procedere normalmente ma – senza che si potesse dire con precisione come – avanzava in modo diverso dalle altre auto per le strade di Oslo la sera dell’antivigilia di Natale.
Parcheggiai proprio dietro la cabina telefonica e spensi il motore. La gamba dei pantaloni e il rivestimento del sedile erano inzuppati di sangue, e mi sembrava di avere un cuore cattivo nella coscia che pompando faceva uscire sangue animale nero, sangue sacrificale, sangue satanico.
Corina sgranò i grandi occhi azzurri dallo spavento quando aprii la porta di casa e mi fermai barcollando sulla soglia.
– Oh, Signore, Olav! Che ti è successo?
– È fatta –. Mi richiusi la porta alle spalle.
– È… è morto?
– Sí.
Pian piano la stanza cominciò a girare. Quanto sangue avevo perso? Parecchio. Due litri? No, avevo letto che abbiamo cinque, sei litri di sangue e sveniamo se ne perdiamo piú del venti per cento. Che farebbe circa… Cazzo. Meno di due, a ogni modo.
Vidi la sua borsa sul pavimento del soggiorno. Aveva già fatto i bagagli per Parigi, gli stessi che aveva portato via dall’appartamento del marito. Il defunto marito. Sicuramente io avevo preparato troppa roba. Non ero mai andato piú lontano della Svezia. Insieme a mia madre l’estate in cui avevo quattordici anni. Con il vicino, che aveva la macchina. A Göteborg, prima di entrare nel parco divertimenti di Liseberg, lui mi aveva chiesto se poteva provarci con mia madre. Il giorno dopo io e lei eravamo tornati a casa in treno. Mia madre mi aveva dato un buffetto sulla guancia dicendomi che ero il suo cavaliere, l’unico cavaliere rimasto sulla faccia della Terra. Mi era sembrato di cogliere una sfumatura falsa nella sua voce, ma probabilmente era frutto del mio grande smarrimento davanti all’insano mondo degli adulti. Come dicevo, non ho orecchio musicale, non sono mai riuscito a distinguere una nota intonata da una stonata.
– Cos’hai sui pantaloni, Olav, è… sangue? Oh, mio Dio, sei ferito! Che è successo? – Là, in piedi davanti a me, alzò uno sguardo cosí confuso e agitato che per poco non mi scappò da ridere. Mi fissò incredula, quasi arrabbiata. – Che c’è? Trovi divertente perdere sangue a litri? Dove sei stato colpito?
– Solo alla coscia.
– Solo? Se ti hanno preso l’arteria, fra un po’ non avrai piú sangue, Olav! Togliti i pantaloni e siediti –. Si sfilò il cappotto e andò in bagno.
Tornò con bende, cerotto, tintura di iodio e tutto l’armamentario.
– Ti devo mettere dei punti.
– Va bene, – dissi appoggiando la testa alla parete e chiudendo gli occhi.
Lei si mise all’opera, nettò la ferita e cercò di fermare l’emorragia. Intanto commentava, spiegandomi che mi rappezzava in modo provvisorio. Che la pallottola era conficcata nella carne, ma per il momento era impossibile farci qualcosa.
– Dove hai imparato a fare questo? – le domandai.
– Zitto e fermo, altrimenti saltano i punti.
– Ma sei un’infermiera perfetta.
– Non sei il primo a prendersi una pallottola in corpo.
– Già, eh, – dissi in tono discendente. Cioè, come un’affermazione, non una domanda. Non c’era fretta, avremmo avuto tutto il tempo per raccontarci quel genere di esperienze. Aprii gli occhi e mi ritrovai a fissare il suo cuoio capelluto mentre era inginocchiata davanti a me. Inspirai il suo profumo. Aveva qualcosa di diverso, qualcosa che si mescolava all’odore di Corina addossata a me, Corina nuda e vogliosa, Corina che sudava contro il mio braccio. Niente di che, solo un’inezia, una traccia di ammoniaca che c’era e non c’era. Ma certo. Non proveniva da lei, ma da me. Sentivo l’odore della mia ferita. Si era già infettata, avevo già cominciato a imputridire.
– Ecco fatto, – disse e spezzò il filo con i denti.
La fissai. La camicetta le era scivolata sulla spalla rivelando un livido sul lato del collo. Non lo avevo notato prima, doveva averglielo fatto Benjamin Hoffmann. Avrei voluto dirle qualcosa, che non sarebbe successo mai piú, che nessuno le avrebbe piú messo le mani addosso. Ma non era il momento adatto. Non puoi rassicurare una donna dicendole che con te non corre pericoli mentre ti sta rappezzando per impedirti di morire dissanguato.
Lavò il sangue con un asciugamano imbevuto di acqua tiepida e mi bendò la coscia.
– Mi sa che hai la febbre, Olav. Ti devi mettere a letto.
Mi tolse la giacca e la camicia. Fissò la cotta. – E questo cos’è?
– Ferro.
Mi aiutò a toglierla, passò le dita sui lividi lasciati dalle pallottole del Danese. Teneramente. Affascinata. Li baciò. E mentre sentivo arrivare i brividi e lei mi rincalzava il piumino, era proprio come allora, nel lettone di mamma. Non faceva quasi piú male. E mi sembrava di poter mollare tutto, come se non dipendesse da me, ero una barca su un fiume, e il fiume aveva il comando. La mia sorte, la destinazione era fissata. Restavano il viaggio, il tempo di percorrenza e ciò che vedevi e ti capitava lungo le sponde del fiume. La vita è semplice se stai abbastanza male.
Sprofondai in un mondo di sogni.
Lei mi portava in spalla, correva levando spruzzi con i piedi. Era buio, e si sentiva un fetore di fogna, di ferite infette, di ammoniaca e di profumo. Nelle strade su in alto risuonavano spari e urla, e strie di luce filtravano dalle fessure dei tombini. Ma lei avanzava imperterrita, coraggiosa e forte. Abbastanza forte per tutti e due. E sapeva come uscire di lí perché ci era già stata. Cosí si diceva. Arrivata a un raccordo della rete fognaria si fermava, mi metteva giú dicendo che doveva fare una ricognizione ma sarebbe tornata subito. Disteso là sulla schiena, udivo i ratti scorrazzarmi intorno mentre fissavo la luna oltre il tombino. Gocce si aggrappavano alle grate lassú, girando su sé stesse, brillando nel chiaro di luna. Grandi gocce rosse e lucide. Poi si staccavano precipitando verso di me. Mi colpivano al petto. Trapassavano la cotta e penetravano fino al cuore. Calde, fredde. Calde, fredde. Quell’odore…
Aprii gli occhi.
La chiamai. Nessuna risposta.
– Corina?
Mi tirai su a sedere. La coscia pulsava e tirava. Spinsi a fatica il piede oltre la sponda del letto e accesi la luce. Trasalii. La coscia si era gonfiata tanto da far quasi orrore, sembrava che l’emorragia non si fosse fermata e che tutto il sangue si fosse raccolto sotto la pelle e la fasciatura.
Al chiaro di luna vidi la borsa di Corina sul pavimento al centro del soggiorno. Ma il suo cappotto non era piú sulla sedia. A fatica mi alzai e saltellando su una gamba sola raggiunsi il piano di lavoro della cucina. Aprii il cassetto, sollevai il portaposate.
I fogli erano ancora al loro posto, dentro la busta, intatti.
Portai la busta vicino alla finestra. Sul termometro dall’altra parte del vetro vidi che la temperatura continuava a scendere.
Abbassai lo sguardo.
Eccola. Era solo uscita a fare un giro.
Era nella cabina telefonica, piegata su sé stessa teneva le spalle rivolte alla strada e il ricevitore premuto contro l’orecchio.
La salutai con la mano anche se sapevo che non poteva vedermi.
Dio, quanto mi ...