L'ibisco viola
  1. 288 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

Kambili ha quindici anni. Vive a Enugu, in Nigeria, con i genitori e il fratello Jaja. Suo padre Eugene, proprietario dell'unico giornale indipendente in un Paese sull'orlo della guerra civile, è agli occhi della comunità un modello di generosità e coraggio politico: conduce una battaglia incessante per la legalità, i diritti civili, la democrazia. Ma nel chiuso delle mura domestiche, il suo fanatismo cattolico lo trasforma in un padre padrone che non disdegna la violenza. Cosí Kambili e Jaja crescono in un clima di dolorose contraddizioni fino a che, dopo un colpo di Stato, non vanno a vivere dalla zia Ifeoma. E nella nuova casa, tra musica e allegria, i due ragazzi scoprono una vita fatta di indipendenza, amore e libertà: una rivelazione che cambierà il loro futuro.
L'ibisco viola, opera d'esordio di Chimamanda Ngozi Adichie, racconta le trasformazioni civili e politiche del postcolonialismo, ma è anche un romanzo sulla linea sottile che divide l'adolescenza dall'età adulta, l'amore dall'odio. *** «La storia delicata e toccante di un bambino che ha conosciuto troppo presto l'intolleranza religiosa e il lato piú oscuro del suo Paese, la Nigeria». J. M. Coetzee

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858419755

Quando parlavamo con il nostro spirito

Prima della domenica delle Palme

Ero alla scrivania quando mamma entrò in camera, con le mie divise scolastiche ammucchiate sul braccio piegato. Le appoggiò sul letto. Le aveva ritirate dai fili del bucato nel cortile dietro casa, dove le avevo appese ad asciugare quella mattina. Jaja e io lavavamo le nostre divise, mentre Sisi pensava a tutto il resto. Prima immergevamo sempre minuscole parti di tessuto nell’acqua schiumosa per controllare che i colori non stingessero, anche se sapevamo che non sarebbe successo. Volevamo utilizzare ogni minuto della mezz’ora che papà assegnava al lavaggio delle divise.
– Grazie, mamma. Stavo per farlo io, – dissi alzandomi per piegare i vestiti. Non era giusto lasciare che una persona piú anziana sbrigasse le tue faccende, ma a mamma non dispiaceva; c’erano tante cose che non le dispiacevano.
– Sta per mettersi a piovigginare. Non volevo che si bagnassero –. Passò la mano sulla mia divisa, una gonna grigia con la cinta di una tonalità piú scura, abbastanza lunga da non far vedere i polpacci quando la indossavo. – Nne, presto avrai un fratello o una sorellina.
La guardai. Era seduta sul mio letto con le ginocchia strette.
– Aspetti un bambino?
– Sí –. Sorrise, continuando a passare la mano sulla mia gonna.
– Quando?
– A ottobre. Ieri sono andata a Park Lane per farmi visitare dal dottore.
– Rendiamo grazie a Dio –. Era quello che dicevamo Jaja e io, quello che papà si aspettava che dicessimo, quando succedeva qualcosa di buono.
– Sí –. Mamma lasciò andare la mia gonna, quasi con riluttanza. – Dio è fedele. Sai, dopo che sei arrivata tu, ho avuto degli aborti e la gente del villaggio ha cominciato a mormorare. I membri del nostro umunna hanno mandato persino delle persone da tuo padre per spingerlo ad avere figli con qualcun’altra. Tanta gente aveva figlie disposte a farlo, e molte erano anche laureate. Avrebbero potuto partorire molti maschi e prendersi la nostra casa e cacciarci via, come ha fatto la seconda moglie del signor Ezendu. Ma tuo padre è rimasto con me, con noi –. Di solito non diceva cosí tante cose in una volta sola. Parlava come mangia un uccellino, a piccole dosi.
– Sí, – dissi. Papà meritava un elogio per non aver accettato di avere altri figli maschi con un’altra donna, ovviamente, per non aver voluto prendere una seconda moglie. Ma del resto, papà era diverso. Avrei voluto che mamma non lo paragonasse al signor Ezendu, a nessuno: lo sminuiva, lo sporcava.
– Dicevano persino che qualcuno mi aveva chiuso il ventre con l’ogwu –. Mamma scosse il capo e sorrise, il sorriso indulgente che si allargava sul suo volto quando parlava delle persone che credevano nelle divinazioni, o quando i parenti le suggerivano di consultare un guaritore, o quando la gente raccontava di aver trovato ciuffi di capelli e ossi di animali avvolti in uno straccio che erano stati sepolti nel loro cortile per gettare il malocchio. – Non sanno che Dio segue strade misteriose.
– Sí, – dissi. Tenevo i vestiti con cura, stando attenta a far combaciare i bordi piegati. – Dio segue strade misteriose –. Non sapevo che avesse cercato di avere un bambino dopo il suo ultimo aborto spontaneo, quasi sei anni prima. Non riuscivo neppure a pensare a lei e a papà insieme, sul letto che dividevano, fatto su misura e piú largo di un normale letto matrimoniale. Quando pensavo all’affetto tra loro, pensavo a come si scambiavano il segno di pace durante la messa, a come papà la teneva teneramente fra le braccia dopo che si erano stretti la mano.
– La scuola è andata bene? – domandò mamma alzandosi. Me l’aveva già chiesto prima.
– Sí.
– Sisi e io stiamo cucinando il moi-moi per le sorelle; dovrebbero essere qui fra poco, – disse mamma, prima di scendere al piano di sotto. Io la seguii e appoggiai le divise piegate sul tavolo dell’ingresso, dove Sisi le avrebbe prese per stirarle.
Le sorelle, che appartenevano al gruppo di preghiera di Nostra Signora della Medaglia Miracolosa, arrivarono presto, e i loro canti in igbo, accompagnati da vigorosi battimani, risuonarono fino al piano di sopra. Avrebbero pregato e cantato per una mezz’ora, e a quel punto mamma le avrebbe interrotte con la sua voce bassa, che giungeva a malapena di sopra anche quando la mia porta era aperta, per dire che aveva preparato una «piccola cosa» per loro. Poi Sisi avrebbe cominciato a portare i piatti di moi-moi, riso jollof e pollo fritto, e le donne avrebbero rimproverato gentilmente mamma. «Sorella Beatrice, cos’è tutto questo? Perché lo hai fatto? Non ci basta l’anara che ci offrono in casa delle altre sorelle? Non avresti dovuto, davvero». Poi una voce flautata avrebbe detto: «Sia lodato il Signore!» trascinando il piú possibile la prima parola. L’«Alleluja» di risposta sarebbe rimbalzato contro le pareti della mia stanza, contro i mobili di vetro della sala.
Poi avrebbero pregato, chiedendo a Dio di ricompensare la generosità di Sorella Beatrice e di aggiungere altre benedizioni alle molte che già aveva. Poi il clinc-clinc-clinc di cucchiai e forchette che grattavano i piatti sarebbe echeggiato in tutta la casa. Mamma non usava mai stoviglie di plastica, per quanto il gruppo fosse numeroso.
Avevano appena cominciato a benedire il cibo quando sentii Jaja che saliva di corsa le scale. Sapevo che sarebbe passato prima nella mia stanza perché papà non era in casa. Se papà era in casa, Jaja andava prima in camera sua a cambiarsi.
Ke kwanu? – chiesi quando entrò. La sua divisa scolastica, pantaloni corti blu e camicia bianca con lo stemma del St Nicholas che brillava a sinistra sul petto, aveva ancora le pieghe della stiratura sul davanti e sul dietro. L’anno prima era stato eletto alunno piú ordinato della scuola, e papà l’aveva abbracciato cosí stretto da far temere a Jaja che gli avesse spezzato la schiena.
– Bene –. Restò in piedi accanto alla mia scrivania e sfogliò distrattamente il manuale di Introduzione alla tecnologia aperto davanti a me. – Cosa hai mangiato?
Garri.
Mi dispiace che non possiamo piú pranzare insieme, disse Jaja con gli occhi.
– Anche a me, – risposi ad alta voce.
Una volta il nostro autista, Kevin, passava prima a prendere me dalle Figlie del Cuore Immacolato, e poi tutti e due andavamo da Jaja al St Nicholas. Jaja e io pranzavamo insieme quando tornavamo a casa. Ora, invece, Jaja partecipava al nuovo programma del St Nicholas per studenti particolarmente dotati e doveva seguire alcune lezioni nel pomeriggio. Papà aveva cambiato il suo orario ma non il mio, e io non potevo aspettarlo per pranzare con lui. Dovevo mangiare, fare la siesta e cominciare a studiare prima che Jaja tornasse a casa.
Eppure Jaja sapeva cosa mangiavo a pranzo ogni giorno. Sulla parete della cucina c’era un menu che mamma cambiava due volte al mese. Però lui me lo chiedeva sempre lo stesso. Era una cosa che facevamo sovente, scambiarci domande di cui sapevamo già la risposta. Forse era per non farci le altre domande, quelle di cui non volevamo sapere la risposta.
– Ho tre compiti da fare, – disse Jaja voltandosi per andarsene.
– Mamma è incinta, – dissi io.
Jaja tornò e si sedette sul bordo del letto. – Te l’ha detto lei?
– Sí. Il tempo scade a ottobre.
Jaja chiuse un attimo gli occhi e poi li riaprí. – Ci occuperemo noi del bambino; lo proteggeremo.
Sapevo che Jaja si riferiva a papà, ma non dissi niente sul fatto di proteggere il bambino. Invece gli chiesi: – Come sai che sarà un maschietto?
– Lo sento. Tu cosa pensi?
– Non lo so.
Jaja rimase seduto sul mio letto ancora un po’ prima di scendere a mangiare; io spostai di lato il manuale, alzai gli occhi e guardai il mio orario quotidiano, fissato al muro sopra di me. In cima al foglio bianco c’era scritto a grosse lettere Kambili, proprio come c’era scritto Jaja sull’orario sopra la scrivania di Jaja nella sua stanza. Mi chiesi quando papà avrebbe stabilito un orario per il bambino, il mio nuovo fratello, se l’avrebbe fatto subito dopo la sua nascita o se avrebbe aspettato che cominciasse a camminare. Papà amava l’ordine. Si vedeva anche dagli orari, dal modo in cui le righe tracciate con la massima cura, in inchiostro nero, spezzettavano ogni giornata separando lo studio dalla siesta, la siesta dal tempo per la famiglia, il tempo per la famiglia dai pasti, i pasti dalla preghiera, la preghiera dal sonno. Li modificava spesso. Durante l’anno scolastico, avevamo meno tempo per la siesta e piú tempo per lo studio, persino nel fine settimana. Quando eravamo in vacanza avevamo piú tempo per la famiglia, un po’ piú tempo per leggere i giornali, giocare a scacchi o a Monopoli e ascoltare la radio.
Fu durante il tempo per la famiglia del giorno dopo, un sabato, che avvenne il colpo di stato. Papà aveva appena dato scacco matto a Jaja quando sentimmo la musica marziale alla radio, e il suo ritmo solenne ci costrinse a fermarci per ascoltare. Un generale con un forte accento hausa prese la parola e annunciò che c’era stato un golpe e che avevamo un nuovo governo. Presto avremmo saputo chi era il nostro nuovo capo di stato.
Papà scostò la scacchiera e si scusò dicendo che doveva andare a telefonare nel suo studio. Jaja, mamma e io lo aspettammo in silenzio. Sapevo che stava chiamando il direttore del suo giornale, Ade Coker, forse per dirgli qualcosa sulla copertura dell’avvenimento. Quando tornò, bevemmo il succo di mango, che Sisi ci aveva servito in bicchieri alti, mentre lui parlava del golpe. Aveva l’aria triste; le sue labbra rettangolari sembravano pendere verso il basso. I colpi di stato generavano altri colpi di stato, disse, raccontandoci dei golpe sanguinosi degli anni Sessanta, che erano sfociati in una guerra civile poco dopo la sua partenza dalla Nigeria per andare a studiare in Inghilterra. Un colpo di stato dava sempre inizio a un circolo vizioso. I militari avrebbero continuato a rovesciarsi l’un l’altro, perché potevano farlo, perché erano tutti ebbri di potere.
Naturalmente, ci disse papà, i politici erano corrotti e lo «Standard» aveva scritto molti articoli sui ministri che ammucchiavano soldi nelle banche straniere, soldi che dovevano invece servire a pagare gli stipendi degli insegnanti e a costruire strade. Ma noi nigeriani non avevamo bisogno di soldati che ci governassero, avevamo bisogno di un rinnovamento democratico. Rinnovamento democratico. Suonava importante, come lo aveva detto, ma del resto quasi tutto quello che diceva papà suonava importante. Gli piaceva appoggiarsi all’indietro e guardare in alto quando parlava, come se stesse cercando qualcosa nell’aria. Io mi concentravo sulle sue labbra, sul loro movimento, e a volte mi dimenticavo di tutto, a volte volevo restare cosí per sempre, ad ascoltare la sua voce, le cose importanti che diceva. Mi sentivo cosí anche quando sorrideva, il suo volto che si apriva come una noce di cocco con la scintillante polpa bianca all’interno.
Il giorno dopo il colpo di stato, prima di andare a St Agnes per i vespri, ci sedemmo in sala a leggere il giornale. Il nostro fornitore ci portava i giornali principali ogni mattina, quattro copie ciascuno, per ordine di papà. Leggemmo per primo lo «Standard», unico giornale ad aver pubblicato un editoriale critico che sollecitava il nuovo governo militare ad attuare rapidamente un piano di ritorno alla democrazia. Papà lesse ad alta voce uno degli articoli di «Nigeria Today», l’opinione di uno scrittore che sosteneva la necessità di un presidente militare, visto che i politici erano sfuggiti a ogni controllo e la nostra economia era nel caos.
– Lo «Standard» non scriverebbe mai certe sciocchezze, – disse papà mettendo giú il giornale. – E tanto meno definirebbe quell’uomo «presidente».
– «Presidente» implica che è stato eletto, – disse Jaja. – «Capo di stato» è il termine giusto.
Papà sorrise, e mi dispiacque non averlo detto prima io.
– L’editoriale dello «Standard» è ben fatto, – osservò mamma.
– Ade è di gran lunga il migliore di tutti, – disse papà con orgoglio improvviso, dando una rapida scorsa a un altro giornale. – «Cambio della guardia». Che razza di titolo. Hanno tutti paura. Parlano della corruzione del governo civile, come se pensassero che quello militare non sarà corrotto. Questo paese va di male in peggio.
– Dio ci salverà, – dissi, sapendo che papà avrebbe apprezzato le mie parole.
– Sí, sí, – rispose papà annuendo. Poi allungò il braccio e mi prese per mano, e io ebbi la sensazione che la mia bocca si riempisse di zucchero.
Nelle settimane seguenti, i giornali che leggevamo durante il tempo per la famiglia acquistarono un tono diverso, piú sottomesso. Anche lo «Standard» era diverso: era piú critico e poneva piú domande di prima. Persino il percorso in macchina fino a scuola era diverso. La prima settimana dopo il colpo di stato, Kevin raccoglieva ogni mattina qualche ramo verde e li fissava alla macchina, sopra la targa, in modo che a Government Square i manifestanti ci lasciassero passare. I rami verdi significavano «Solidarietà». Ma i nostri rami non sembravano mai avere lo stesso colore brillante di quelli dei manifestanti, e a volte mentre passavamo mi chiedevo come sarebbe stato unirsi a loro, gridando «Libertà» e bloccando il passaggio delle macchine.
Nelle settimane successive, quando Kevin percorreva Ogui Road, al posto di blocco vicino al mercato c’erano soldati che camminavano su e giú carezzando i loro lunghi fucili. Fermavano alcune macchine e le perquisivano. Una volta vidi un uomo inginocchiato sulla strada accanto alla sua Peugeot 504, con le mani ben alzate in aria.
Ma a casa non cambiò niente. Jaja e io continuavamo a rispettare il nostro orario, continuavamo a farci domande di cui conoscevamo già la risposta. L’unico cambiamento era la pancia di mamma: cominciò a crescere, dolcemente e impercettibilmente. All’inizio sembrava un pallone sgonfio, ma per la domenica di Pentecoste aveva sollevato il panno rosso ricamato in oro che lei indossava in chiesa quel tanto da suggerire che non si trattava soltanto dello strato di stoffa sottostante o dell’estremità annodata del tessuto. L’altare era dec...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'ibisco viola
  3. Gli dèi infranti - La domenica delle Palme
  4. Quando parlavamo con il nostro spirito - Prima della domenica delle Palme
  5. I pezzi degli dèi - Dopo la domenica delle Palme
  6. Un silenzio diverso - Il presente
  7. Ringraziamenti
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright