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La comunicazione perduta

  1. 104 pagine
  2. Italian
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La comunicazione perduta

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Nel corso della nostra vita siamo accompagnati da alcune esperienze fondamentali che ci consentono di conoscere cosa noi siamo e cosa sono gli altri; e fra queste esperienze come non ripensare alla tristezza, alla sofferenza, alla felicità, alla solitudine, alla tenerezza, al desiderio di comunità e di comunità di destino, alla speranza, alla malattia e alla morte volontaria, e ai modi con cui entrare in comunicazione con ciascuna di queste esperienze? Ma cosa è questa parola ambivalente, «comunicazione», che entra in gioco in ogni forma di discorso e di vita? Comunicare vuol dire rendere comune (dal latino munus, dono): è dialogo, relazione. Significa entrare in relazione con la nostra interiorità e con quella degli altri, nella convinzione che comunicazione sia sinonimo di cura. Noi entriamo in relazione con gli altri, allora, in modo tanto piú intenso e terapeutico quanta piú passione è in noi, quante piú emozioni siamo in grado di provare e di vivere.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858420300

Eugenio Borgna

Parlarsi

La comunicazione perduta

StruzzoAlta_Ris

Nel corso della nostra vita siamo accompagnati da alcune esperienze fondamentali che ci consentono di conoscere cosa noi siamo, e cosa sono gli altri; e fra queste esperienze come non ripensare alla tristezza, alla sofferenza, alla felicità, alla solitudine, alla tenerezza, al desiderio di comunità, e di comunità di destino, alla speranza, alla malattia e alla morte volontaria, e ai modi con cui entrare in comunicazione con ciascuna di queste esperienze?
Alla ricerca della interiorità.
Sono esperienze radicate nel cuore della vita, e (cosa ancora piú importante) sono esperienze che ci consentono di avvicinarci alle sorgenti profonde della condizione umana. Non si scende nella profondità del nostro cuore se non si rivivono esperienze, come queste, che ci confrontano con gli eterni problemi dell’uomo: radicati nella nostra interiorità. Non sono lontane da queste le considerazioni che Thomas Mann è venuto svolgendo in uno dei suoi bellissimi saggi. «Ma non è forse vero che la meditazione cosmologica, paragonata al suo opposto, a quella psicologica, ha in sé qualcosa di puerile? Dicendo questo rammento gli occhi tondi e luminosi, da fanciullo, di Albert Einstein. È inutile: la conoscenza umana e l’approfondimento della vita umana ha un carattere di maggiore maturità che non la speculazione sulla Via Lattea: vorrei affermarlo con il piú profondo rispetto. “Libero ognuno” osserva Goethe “d’occuparsi di ciò che lo attrae, che fa piacere, che gli pare utile; ma il vero studio dell’umanità è l’uomo”». Se è cosí, alla conoscenza e all’approfondimento della condizione umana non sono chiamate solo la letteratura e la filosofia, ma anche la psichiatria che, in alcuni suoi aspetti tematici, ha a che fare con la sfera vasta e indefinita delle scienze umane. Certo, questa non è la psichiatria che si esaurisce nelle sue radici neurobiologiche (naturalistiche), ma è la psichiatria che non rinuncia alle sue radici fenomenologiche e antropologiche, che ne contrassegnano la dimensione sociale, senza le quali nulla essa può conoscere della interiorità, della soggettività, di una persona: malata, o non malata.
Comunicare come problema.
Cosa è questa comunicazione, questa parolamarmellata, questa parola-valigia, cosí la definirebbero i linguisti, che entra in gioco in ogni forma di discorso, e in ogni forma di vita, e come tematizzarla nei suoi aspetti essenziali e nelle sue diverse articolazioni semantiche? Come entriamo in comunicazione, come entriamo in relazione, con noi stessi e con gli altri, con la nostra interiorità e con quella degli altri?
Le relazioni umane sono faticose talora, e talora dolorose. Come dice Rainer Maria Rilke: «Ché non si deve solo alla pigrizia se le relazioni umane si ripetono cosí indicibilmente monotone e senza novità da caso a caso, ma alla paura di un’esperienza nuova, imprevedibile, a cui non ci si crede maturi. Ma solo chi è disposto a tutto, chi non esclude nulla, neanche la cosa piú enigmatica, vivrà la relazione con un altro come qualcosa di vivente e attingerà sino al fondo la sua propria esistenza».
Sono tesi che vorrei svolgere in questo mio lavoro dicendo qualcosa sulla natura, sulla dimensione dilemmatica, sulla fenomenologia della comunicazione, della relazione, che ci mette in un dialogo senza fine con la nostra interiorità, con le nostre attese e con le nostre speranze, e con quelle che sono negli altri. Non c’è cura in psichiatria se non quando siamo in comunicazione, in relazione, con la tristezza e l’angoscia, la inquietudine e la disperazione, il dolore del corpo e il dolore dell’anima, di chi sta male e chiede il nostro aiuto. Ma non c’è comunicazione autentica in psichiatria, e non solo in psichiatria, se non quando si abbiano parole capaci di creare un ponte fra la soggettività di chi parla, e quella di chi ascolta, la soggettività di chi cura, e la soggettività di chi è curato; e quando ci siano corrispondenze fra il tempo interiore dell’una e quello dell’altra.
I disturbi della comunicazione.
Le esperienze psicopatologiche, le loro diverse forme di espressione, non sono se non disturbi della comunicazione: questa è la tesi di Ludwig Binswanger, uno dei grandi psichiatri del secolo scorso, al quale si deve la rifondazione fenomenologica della psichiatria, ricondotta al suo statuto di scienza radicalmente umana, e la cura non può se non essere ricerca e ricostruzione della comunicazione perduta. Sí, comunicazione, relazione, colloquio e dialogo sono sfere semantiche che sconfinano le une nelle altre, e sono fra le esperienze piú complesse e piú difficili, piú ambigue e piú imprevedibili, della vita.
Ci si avvia a un’adeguata comunicazione, a una relazione dialogica, con se stessi e con gli altri, solo lungo i sentieri della immedesimazione nei pensieri, nei sentimenti e nei desideri degli altri; ma le cose cambiano nella misura in cui si abbia a che fare con una comunicazione razionale, o con una comunicazione emozionale. Ma anche il tempo, sapere scegliere il momento di parlare e quello di tacere, sapere armonizzare la nostra esperienza del tempo con quella degli altri, è la premessa allo svolgimento di una comunicazione che consenta di entrare in relazione sia con la vita di ogni giorno sia con la vita ferita dalla malattia.
La comunicazione razionale.
La comunicazione razionale è quella che, nelle scuole, porta chi insegna a trasmettere cognizioni senza ridestare negli studenti adeguate e profonde risonanze emozionali. Non c’è comunicazione creatrice di dialogo e di cura se non quando la ragione, la ragione calcolante, si converte in passione: nella leopardiana passione della speranza. La sola comunicazione razionale non riesce a essere strumento di rinascita interiore, di crescita e di maturazione, che non sono possibili se non quando la comunicazione sia contestualmente razionale ed emozionale. Ma in vita siamo ogni volta tentati di considerare le cose alla luce della loro significazione razionale, senza fare attenzione a quella emozionale: non meno importante.
La comunicazione emozionale.
Quando ci incontriamo con esistenze neurotiche, o psicotiche, constatiamo in esse non tanto disturbi del pensiero, quanto emozioni ferite dalla tristezza e dall’angoscia, dalla inquietudine dell’anima e dalla disperazione, dal dolore del corpo e dal dolore dell’anima. Ma non comunichiamo con le persone che stanno male, e sono lacerate da emozioni ferite, se non quando le riconosciamo nella loro appartenenza al nostro comune destino. La meta è ricostruire la comunicazione perduta, che è possibile ritrovare solo nella misura in cui le parole di chi cura siano capaci di ridestare fiducia e speranza. Ma è anche necessario mettersi in sintonia con il sentimento del tempo, con le sue vertiginose metamorfosi, che si manifestano nelle esistenze immerse nel dolore.
Ma, certo, il medico nel fare domande, nel ricostruire la storia della vita, nell’esporre le conclusioni diagnostiche e prognostiche, deve essere sincero ma deve contemporaneamente tenere presenti le risonanze emozionali, l’angoscia, e la disperazione, che alle parole possano conseguire, e deve guardarsi dal ferire la dignità delle persone malate, e non malate, con parole, con gesti, che nascano dalla indifferenza, e dalla impazienza.
La comunicazione non è se non relazione.
Comunicare è allora entrare in relazione con se stessi e con gli altri; comunicare è trasmettere esperienze e conoscenze personali; comunicare è uscire da se stessi e immedesimarsi nella vita interiore di un altro da noi: nei suoi pensieri e nelle sue emozioni. Noi entriamo in comunicazione, e cioè in relazione con gli altri, in modo tanto piú intenso e terapeutico quanta piú passione è in noi, quante piú emozioni siamo in grado di provare, e di vivere. Se vogliamo creare una comunicazione autentica con una persona, se vogliamo davvero ascoltarla, non possiamo non farci accompagnare dalle nostre emozioni. Quale abisso l’uomo medesimo, dice sant’Agostino, e come è difficile conoscere se stessi, i nostri pensieri e le nostre emozioni, e nondimeno senza questa analisi interiore nulla nemmeno possiamo conoscere degli altri.
In ogni forma di comunicazione, e soprattutto in quella terapeutica, l’io si confronta con un tu nell’orizzonte di un noi che fonde, e trascende, l’io e il tu in una nuova dimensione dalla quale si esce cambiati, e non si è piú quelli di prima. In vita non c’è solo qualcuno che parla, comunicando qualcosa, e qualcuno che ascolta, ricevendo qualcosa, ma ci sono contemporaneamente, anche nel silenzio (si può comunicare con il silenzio e nel silenzio), un parlare e un ascoltare in una continua circolarità di esperienze che nascano dalla nostra capacità di emozionarci.
Come comunicare?
Si comunica con il linguaggio delle parole, con quello del silenzio, e con quello del corpo vivente. Le parole sono portatrici di comunicazione e di cura solo quando sono parole leggere e profonde, interiorizzate e calde di emozione, sincere e pulsanti di vita; ma gli orizzonti di senso delle parole cambiano nella misura in cui si accompagnano al linguaggio del silenzio, e a quello della voce, degli sguardi, dei volti e dei gesti, che contrassegnano i modi di essere del corpo vivente.
Questi sono solo alcuni aspetti di una comunicazione, che non è unicamente quella della vita quotidiana, ma anche quella terapeutica, nella quale è necessaria una radicale attenzione alle cose che si dicono, e che possono ridestare le piú diverse risonanze emozionali in chi ascolta, e in particolare in chi attenda di essere curato. Ci sono parole, parole emozionali (le sole che contano), capaci di creare ponti di comunicazione fra chi cura e chi è curato, e ci sono parole incapaci di farlo: determinando fratture incolmabili fra noi e gli altri.
Come si entra in relazione con chi soffre di una malattia dell’anima, o del corpo? Talora anche solo rimanendo accanto a una paziente, o a un paziente, lambiti dai venti sotterranei della tristezza, o dell’angoscia, del male di vivere, o della disperazione, non lasciandosi trascinare dalle rigide scansioni di un tempo determinato, ma sintonizzandosi con gli sconfinati orizzonti del tempo interiore: del tempo vissuto. Ogni nostra emozione, la paura e l’angoscia, la insicurezza e la inquietudine dell’anima, ci fa cambiare il modo con cui noi incontriamo gli altri, e il modo con cui gli altri incontrano noi.
Le parole hanno un loro destino.
Nella definizione che ne è stata data da Hugo von Hofmannsthal, il grande scrittore austriaco dalla straordinaria sensibilità e dalle grandi intuizioni psicologiche, le parole sono creature viventi, ma anche, con una definizione ancora piú smagliante, sono prigioni sigillate dal mistero, e ogni volta dovremmo essere capaci di aprire queste prigioni, di togliere loro i sigilli, di farne sgorgare i significati, e di scrutarne le cifre tematiche solo apparentemente oscure, e inesplicabili. Le parole si modulano, cambiano, si modificano continuamente nelle situazioni in cui ci veniamo a trovare, e negli incontri che abbiamo in vita. Le parole non sono mai inerti e mute ma comunicano sempre qualcosa. Le parole sono impegnative per chi le dice, e per chi le ascolta, cambiano di significato nella misura in cui cambiano i nostri stati d’animo, e non è facile coglierne fino in fondo le risonanze. Le parole, una volta dette, non ci appartengono piú, e sono determinanti nell’aprire i cuori alla speranza, o nel condurli alla disperazione. Le parole cambiano il loro significato nella misura in cui si accompagnano al linguaggio del corpo vivente, del sorriso e delle lacrime, degli sguardi e dei gesti, e anche al linguaggio del silenzio: sí, anche il silenzio parla, bisogna saperlo ascoltare, ed esserne in dialogo senza fine.
La psichiatria ha sempre bisogno di parole capaci di creare relazioni di cura, e di fare riemergere il discorso infinito del dolore e dell’angoscia, della tristezza e della disperazione, delle inquietudini del cuore e dei trasalimenti dell’anima, delle voci e del silenzio. Ma le parole da dire a una persona depressa, fragile e disperata, non sono facili da trovare, e devono esserci concordanze fra il suo modo di vivere il tempo, e quello di vivere il tempo di chi cura. Nella depressione si vive nel passato, e si perde la percezione del futuro, che riemerge solo lentamente a mano a mano che la depressione si avvia alla guarigione. Non serve allora, e anzi causa dolore, parlare a una persona depressa di attese e di speranze nelle quali non può credere, e delle quali ha nondimeno straziata nostalgia.
Ma altre cose si possono dire delle parole.
Le parole che fanno del bene.
Le parole non sono...

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  1. Copertina
  2. Parlarsi
  3. Nota bibliografica
  4. Il libro
  5. L’autore
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