La fame
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«Conosciamo la fame, siamo abituati alla fame: abbiamo fame due, tre volte al giorno. Nelle nostre vite non esiste niente che sia piú frequente, piú costante, piú presente della fame - e, al tempo stesso, per la maggior parte di noi, niente che sia piú lontano dalla fame vera». Per comprenderla, per raccontarla, Martín Caparrós ha viaggiato attraverso l'India, il Bangladesh, il Niger, il Kenya, il Sudan, il Madagascar, l'Argentina, gli Stati Uniti, la Spagna. Lí ha incontrato persone che, per diverse ragioni - siccità, povertà estrema, guerre, emarginazione - soffrono la fame. La fame è fatto delle loro storie, e delle storie di coloro che lavorano in condizioni molto precarie per mitigarla e di coloro che vi speculano sopra, affamando tanta gente. La fame intende, soprattutto, svelare i meccanismi che fanno sí che quasi un miliardo di persone non mangino quanto è necessario. Un prodotto ineludibile dell'ordine mondiale? Il frutto della pigrizia e dell'arretratezza? Un affare di pochi? Un problema in via di soluzione? Il fallimento di una civiltà? Un libro scomodo e appassionato, una cronaca che riflette e un saggio che racconta, un pamphlet che denuncia una vergogna intollerabile e cerca vie di uscita per eliminarla con urgenza.

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Informazioni

SULLA FAME, 1

L’origine delle specie

1.
Una sera Diogene di Sinope, il filosofo cinico, si masturbò in mezzo all’agorà di Atene, e qualcuno lo rimproverò.
– Ah, le pare brutto? E che ne direbbe se potesse saziare la sua fame sfregandosi la pancia con la mano?
Rispose, per farsi capire appieno. Non è possibile; la ricerca di modi per saziarla è stata causa di tante guerre, di tanti cambiamenti: una delle poche ragioni della storia.
Non riusciremo mai a sapere per certo come abbiamo cominciato, ma si azzardano alcune ipotesi. Faustino Cordón, nel libro Cocinar hizo al hombre, immagina che sia accaduto perché non siamo stati capaci di fare ciò che altri riuscivano a fare: quando i nostri antenati erano scimmie che si muovevano sugli alberi in cerca di germogli, foglie e qualche insetto putrido, alcune di loro impararono ad appendersi di piú e meglio ai rami. Quelle diedero origine alle grandi scimmie: animali che a poco a poco svilupparono braccia e torsi forti per passare di ramo in ramo, che si impadronirono di un territorio ambito e ne espulsero gli altri: i nostri antenati, incapaci, impotenti, dovettero scendere da quegli alberi e cercare di cavarsela a terra.
Con quella sconfitta, si dice, cominciò l’uomo.
Qualcuno dice che adesso – sovrappopolazione, cambiamenti climatici, esaurimento dei terreni e delle acque – stia arrivando «la guerra per il cibo». La guerra per il cibo è sempre esistita, e continua a esistere. Solo che, tra una battaglia e l’altra, ci sono momenti di calma relativa nei quali i vincitori hanno vinto talmente tanto che non devono piú lottare per continuare a godersi il trionfo.
Gli ominidi, ormai a terra, dovettero fare di necessità virtú: impararono a camminare meglio, svilupparono zampe piú forti e perfezionarono le braccia e le mani che non servivano piú per appendersi: poterono usarle per maneggiare strumenti primitivi, una pietra, un osso, un bastone. Questo fatto – questo processo – sarebbe durato milioni di anni. E avrebbe prodotto un paio di effetti decisivi: la posizione eretta, conseguenza del nuovo habitat, che permise agli ominidi di trasportare strumenti che non dovevano piú buttare via, come prima, per arrampicarsi sull’albero. E un maggiore senso della comunità perché, spaventati da un habitat nuovo, le scimmie dovettero prendersi cura le une delle altre e aiutarsi a vicenda. Da qui, anche, un’evoluzione progressiva delle loro modalità di comunicazione: i primi tentativi di un linguaggio.
Con gli strumenti, che avrebbero soppiantato l’evidente incapacità del corpo umano in tante cose – non siamo particolarmente forti, non saltiamo e non corriamo come altri, non abbiamo un’ottima vista né un ottimo olfatto né un ottimo udito, non abbiamo artigli né denti possenti –, i nostri antenati cominciarono a variare la loro alimentazione: con un certo tipo di bastoni potevano uccidere un certo tipo di animali, con altri bastoni scavare per cercare radici e tuberi, con le pietre rompere le ossa che trovavano per estrarre il midollo; i loro corpi cominciarono ad abituarsi ad altri cibi – che, a loro volta, si trasformarono.
Un’orda: animali che saltano e grugniscono intorno a un animale piú piccolo o piú debole o piú morto, contendendoselo, straziandolo, facendolo a pezzi per mangiarlo: le prime immagini della fame.
La socialità aumentò quando a quei cacciatori maldestri venne in mente di fare come fa oggi qualunque giocatore di borsa: diversificare il rischio. Le semiscimmie non avevano azioni miste da comprare ma potevano allearsi con altri semiuomini, cugini o vicini, e spartirsi ogni giorno ciò che fossero riusciti a conquistare. Allora, quando qualcuno non trovava cibo a sufficienza, magari riusciva a mangiare lo stesso perché gli altri ne avevano trovato. Per questa paura di rimanere senza mangiare a poco a poco si formarono le società; i vincoli andarono saldandosi. E il principio della reciprocità, una forma dell’uguaglianza: io ti do, ti do, ma spero che tu mi dia qualcosa di piú o meno simile. Confidando e diffidando.
La fame era la loro condizione abituale. Tre o quattro milioni di anni fa, quegli ominidi vivevano sul filo del rasoio, affrontavano privazioni e pericoli, passavano il tempo a cercare cibo. E mangiavano soprattutto vegetali di tipo diverso e carni di animali morti: erano, piú che altro, necrofagi. Ma le proteine e i grassi animali che consumavano in misura sempre maggiore aumentarono a poco a poco le dimensioni delle loro teste e dei loro cervelli, e quei cervelli piú sviluppati permisero loro di procurarsi cibo migliore che aumentò la loro capacità cerebrale e cosí via. La proporzione tra corpo e cervello che avevano di solito gli altri animali negli ominidi ebbe un’impennata, e i loro corpi ebbero bisogno di quantità sempre maggiori di cibo per quei cervelli smisurati.
Ma il corpo umano è un anacronismo: è fatto per tempi e vite molto diversi. Il cibo poteva esserci oppure no: le foglie o l’animale che dovevano nutrire i nostri antenati erano difficili da ottenere, casuali: a volte si trovavano, a volte no.
La fisiologia dei nostri corpi si organizzò a quei tempi. Perciò mise in piedi un sistema nel quale la sazietà dura molto poco, nel quale alcuni ormoni richiedono cibo senza sosta: la smania continua, la voglia continua di mangiare era un modo di prevenire i momenti nei quali il cibo non saltava fuori. È quella che siamo soliti chiamare fame: l’insieme dei segnali fisici che richiedono cibo.
(Benché, per sopportare i digiuni forzati, il corpo organizzò anche un sistema di riserve: noi uomini possiamo conservare energia sotto forma di grassi).
E allora, meno di un milione di anni fa, chissà come – le ipotesi abbondano – quegli animali scoprirono il potere del fuoco.
(Molti millenni dopo, quando quegli animali avrebbero cominciato a credersi molto astuti, avrebbero celebrato quella scoperta come il proprio inizio. Il fuoco – raccontavano i loro miti, Prometeo – li aveva resi uomini, li aveva separati dalle bestie).
È probabile che i primi usi del fuoco non fossero culinari: che le semiscimmie lo avessero usato prima per proteggersi dal freddo e da altri animali. E che fosse stato un caso a insegnare loro come alcuni alimenti migliorassero molto cadendo nel falò. E, cucinando, quegli animali stabilirono una differenza fondamentale: divennero i primi a non mangiare ciò che trovavano ma qualcosa che trasformavano per migliorarlo. Introdussero la cultura – una delle prime forme di cultura – tra la carne della bestia e i loro stomaci: cucinare ci ha reso uomini.
Quei maschi e quelle femmine impararono a cacciare e a cucinare tutti insieme, ad avere piú tempo per pensare a cose che non fossero cacciare e mangiare, ad aiutarsi a vicenda, a prendersi cura per lungo tempo dei loro bambini – che, testoni com’erano, dovevano nascere molto prematuri per passare attraverso le pelvi delle madri –, a sviluppare quei linguaggi che finirono per trasformarli in uomini e donne.
La fame, per alcuni di loro, cominciò a essere qualcosa che non c’era sempre.
Pensare a quei tempi può dare le vertigini: prendersi la briga di immaginare le vite di quei signori e quelle signore seminudi, che vagavano per boschi e pianure dietro qualche boccone, saltando, saltandosi addosso, senza il benché minimo pensiero rivolto al passato o al futuro significa ricordare, per contrasto, tutto ciò che abbiamo inventato.
Cucinare, tra le altre cose, ampliò enormemente i confini del commestibile: moltissime piante e moltissimi animali che gli uomini non erano in grado di digerire crudi divennero commestibili una volta cotti. I nostri antenati, a quel punto, divennero davvero onnivori.
Fu un processo che durò migliaia di anni. L’acquisizione di nuovi alimenti fu un lavoro di appropriazione del mondo: piú ne mangio, piú lo faccio mio – e, allora, ne mangio di piú. Cominciammo a diventare le macchine mangia tutto che siamo adesso. Mangiamo animali, vegetali, minerali: radici, cortecce, fusti, foglie, frutti, fiori, semi, funghi, alghe, molluschi, pesci, uccelli, embrioni di uccelli, rettili, insetti e, dei nostri congeneri mammiferi, la carne, il sangue, la pelle, il midollo e persino le secrezioni ghiandolari che chiamiamo latte o formaggio – e grandi quantità di una pietra macinata che chiamiamo sale.
Questa capacità – quest’abilità di combattere la fame – è una delle ragioni che, in centomila anni, hanno fatto passare gli umani da qualche centinaia di migliaia a, per adesso, 7 miliardi: un’esplosione che rappresenta la prova migliore di come la specie – in quanto specie – abbia funzionato.
Niente è piú ingannevole che essere – pensarsi come – specie.
L’incremento fu un processo lungo, tortuoso. Supponiamo che fossero aumentate le temperature, che fossero cambiati gli ecosistemi, che gli animali cominciassero a scarseggiare e che quei cacciatori diventassero in misura maggiore raccoglitori. I cacciatori-raccoglitori esercitavano sulla natalità un severo controllo – che comprendeva, naturalmente, l’infanticidio – per mantenere il delicato equilibrio tra persone e cibo. Si discute ancora se abbiano perso in qualche modo il controllo e siano stati costretti a pensare nuovi modi di nutrirsi o se quei nuovi modi abbiano permesso loro di abbandonare il suddetto controllo: ancora una volta una questione che chiama in causa uova e galline.
In ogni caso, l’esplosione divenne violenta quando cominciò l’agricoltura. Fu uno dei grandi momenti – e dei grandi misteri – nella storia dell’uomo, sebbene per alcuni storici sia stato, soprattutto, uno dei grandi momenti nella storia della donna. Dieci o dodicimila anni fa, diverse persone in diversi luoghi – Medio Oriente, America centrale, Cina, Nuova Guinea, Africa tropicale – scoprirono piú o meno contemporaneamente come far sí che le piante trovate durante le solite ricognizioni crescessero in luoghi scelti da loro: potevano estrarne i semi, sotterrarli, aspettare – e, dato che c’erano, inventare dèi per chiedere la pioggia. La faccenda degli dèi, naturalmente, non venne da sola: comparve anche qualche signore che sosteneva di saper parlare con loro e di poter spiegare i loro balbettii e le loro contraddizioni. I sacerdoti e le religioni furono, in qualche modo, un parassita di quei cereali primitivi.
Al tempo stesso, quegli uomini scoprirono di poter fare la medesima cosa con gli animali: potevano addomesticarli e allevarli per avere a disposizione le loro carni e il loro latte o le loro uova – oltre che la loro forza lavoro, che serviva per produrre piú cibo.
È difficile, adesso, quando nulla è piú tradizionale che coltivare la terra, pensare a un’epoca nella quale l’agricoltura era il culmine della modernità, l’invenzione recente che stava cambiando cosí tante vite. Faceva, naturalmente, paura: le cose nuove sono sempre sembrate spaventose alla maggior parte delle persone. Molti pensavano che arare fosse una violenza brutale fatta alla Madre Terra: rivoltata, ferita, sottomessa dai suoi figli, avrebbe finito per vendicarsi. Molti racconti mitologici lamentano questa violenza intollerabile: forme primitive di ecologismo militante.
Fu un cambiamento radicale: prima di allora nessuno era mai stato sicuro di avere da mangiare qualche mese dopo. Con una simile certezza comparve la necessità di trattenersi in un determinato territorio fino a quando i semi avessero prodotto i frutti. Comparvero i primi villaggi nei quali stabilirsi e attendere – invece di correre dietro alle piante e agli animali. Comparve l’idea del futuro come un tempo nel quale sarebbero accadute cose che era possibile prevedere. Comparve la possibilità di pensare a quelle cose e di fare progetti.
E comparve la necessità di organizzare modi di conservare i chicchi di quei cereali. Uno dei grandi cambiamenti dimenticati della storia sopraggiunse quando gli uomini impararono a immagazzinare il cibo. Anche in questo caso l’uovo e la gallina: forse cominciarono scoprendo come produrre di piú e allora si trovarono di fronte al problema di metterle da parte, ma è piú probabile che abbiano cominciato scoprendo come mettere da parte l’eccedenza e quindi abbiano cercato modi di ottenere piú di ciò che poteva servire per oggi e per domani. E allora produssero di piú e ampliarono l’immagazzinamento e scoprirono nuove modalità e anche altre maniere di produrre di piú e cosí via: le nostre società.
Cominciammo a essere – nel bene e nel male – ciò che siamo.
Quegli uomini si misero a mangiare a orari fissi: fu un salto straordinario, e poterono compierlo soltanto perché credevano di avere un accesso garantito a una quantità di cibo sufficiente per permettersi di non mangiare ogni volta che potevano – come avevano sempre fatto, come fanno ancora gli altri animali.
La fame costante è la condizione generale degli uomini. E il sollievo di sapere che non sarà necessario cercare per diverse ore è una conquista culturale decisiva. Siamo tanto piú umani quanto piú siamo sazi. E siamo tanto piú umani quanto minore è il tempo che dobbiamo dedicare a saziarci. Il processo di civilizzazione è il percorso che va dall’usare tutto il tempo a disposizione per procurarsi il cibo al passare meno tempo possibile impegnati nel procurarsi il cibo. Quanto piú grande è la fame, tanto piú siamo animali; quanto minore è la fame, tanto piú umani.
Il rapporto vale anche ai nostri giorni.
2.
Per pigrizia, ignoranza o chissà quale altra grande virtú siamo soliti pensare che la storia del mondo potesse essere soltanto cosí come è stata. È l’arma piú efficace di chi preferisce farci accettare il mondo cosí come è: ciò che è stato è ciò che doveva essere – e ciò che è, è anche ciò che deve essere o, al limite: l’unica possibilità. Come sarebbe il mondo se ad alcuni pitecantropi non fosse venuto in mente – per dire – di considerare ciò che usavano e consumavano di loro proprietà, bensí di tutti perché tutti lo volevano e ne avevano bisogno? Come sarebbe, se avessero preferito evitare la fatica di lavorare e avessero continuato a vivere le loro vite di nomadi perdigiorno? Come, se nessuno avesse avuto la paura o l’immaginazione o l’ambizione o l’intelligenza necessari per dire ai compagni – per convincere i compagni – che quell’albero secolare grandissimo fosse un essere superiore, un «dio» al quale potevano chiedere le cose?
Sono esempi, la farfalla che batte le ali in Cina insegna, piú che altro, che qualunque battito d’ali è importante, che nulla è cosí sicuro.
In quei villaggi – le prime città –, la possibilità di conservare gli alimenti produsse un’altra novità straordinaria: il tempo libero, l’ozio come idea manifesta. Gli uomini non dovevano piú trascorrere tutto il loro tempo impegnati a cercare cibo perché sapevano che il loro cibo era lí, cresceva nei campi, ingrassava nelle aie. Quegli uomini e quelle donne poterono dedicare molto tempo ad altre cose: tessere, conciare, fabbricare vasellame, trasportare, combattere, chiacchierare, fare la siesta, cospirare, amarsi, tradirsi. Comparvero i mestieri, le differenze.
E l’esistenza delle riserve fece sí che altri potessero desiderarle. Bisognava proteggerle e, a poco a poco, vi fu chi si specializzò nel farlo: i piú abili, i piú forti, i piú ambiziosi. Le comunità accettarono di fornire loro l’occorrente perché potessero difenderle, e quegli individui accumularono potere.
Fu un processo lungo: le eccedenze di cibo fecero sí che alcuni si disinteressassero del tutto della produzione, si sistemassero nelle loro case piú grandi – che a un certo punto avremmo chiamato palazzi –, tesaurizzassero, concentrassero, e chi viveva nei centri abitati si distinse da chi viveva nelle campagne, i ricchi dai poveri. E le ricchezze si ammassarono in quei nuovi luoghi, le prime città. Chi controlla un granaio controlla coloro che vogliono mangiare quel grano. Chi lo controlla vuole avere un controllo maggiore: inventare strutture per avere il controllo assicurato. Cominciarono a comparire, qua e là, i primi Stati.
E l’aumento del potere grazie al potere: i nuovi Stati mesopotamici erano abbastanza forti da costruire dighe e canali di proporzioni mai viste, che a loro volta permettevano di seminare e raccogliere in quantità mai viste: di procurarsi piú cibo, piú potere.
E si formarono le classi, le differenze, le disuguaglianze: fu una grande novità che alcuni mangiassero e altri no. La fame aveva come tradizione che la penuria e l’abbondanza fossero – piú o meno – uguali per tutta l’orda; non fu piú cosí. E chi produceva il cibo – chi si sporcava le mani di terra, chi si spaccava la schiena per aprire i solchi – di solito era anche chi ne mangiava di meno.
La novità: che alcuni mangiavano e altri no.
Le società organizzate sulla base della produzione agricola ridussero la dieta ricca e complessa dei primi uomini a un regime di staple food – alimento di base – come quello che predomina ancora in molte società povere. Un determinato cereale o un unico tipo di tubero divenne il cibo abituale, ricorrente, quotidiano per buona parte di una popolazione – con aggiunte di qualche sugo fatto con le verdure disponibili o molto di rado un pezzetto di carne frutto della caccia o della pastorizia.
È vero che mangiavano molte piú persone, ma mangiavano male. Strano: la grande rivoluzione neol...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La fame
  3. Il punto di partenza
  4. Niger - Strutture della fame
  5. SULLA FAME, 1 - L’origine delle specie
  6. India - La tradizione
  7. SULLA FAME, 2 - La mano dell’uomo
  8. Bangladesh - Le sue usanze
  9. SULLA FAME, 3 - Ancora zuppa
  10. Stati Uniti - Il capitale
  11. SULLA FAME, 4 - La disuguaglianza
  12. Argentina - La spazzatura
  13. SULLA FAME, 5 - La carità bene intesa
  14. Sud Sudan - L’ultimo Paese
  15. SULLA FAME, 6 - Una metafora
  16. Madagascar - Le nuove colonie
  17. Grazie
  18. Per saperne di piú
  19. Nota alla traduzione italiana
  20. Il libro
  21. L’autore
  22. Copyright