Scarafaggi
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Scarafaggi

  1. 460 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

Harry Hole vola a Bangkok per affiancare i poliziotti locali nell'indagine sull'omicidio di un diplomatico norvegese ucciso in un bordello. Ma come gli scarafaggi che brulicano nella sua stanza, cosí i personaggi coinvolti nel caso si moltiplicano all'infinito. Né la famiglia dell'ambasciatore morto, né le autorità di Oslo, e tanto meno la polizia locale, sembrano disposti a collaborare. E Harry si ritrova da solo con la sua ombra, in una città dove il frastuono del traffico infuria ventiquattro ore su ventiquattro, l'umidità si taglia con il coltello e la calca ti si appiccica addosso.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858419557

Capitolo 1

Scattò il verde e il frastuono di macchine, moto, motociclette e taxi tuk-tuk crebbe tanto che a Dim sembrò di vederlo riflesso sui vetri del Robertson Department Store, che si erano messi a vibrare. I veicoli si mossero e la vetrina che esponeva l’abito lungo di seta rossa scomparve nella loro scia, avvolto dall’oscurità della sera.
Prese un taxi. Non un autobus stracolmo di gente o un tuk-tuk divorato dalla ruggine, ma un taxi fornito di aria condizionata e con un autista che teneva la bocca chiusa. Abbandonò il capo sul poggiatesta cercando di godersi quell’attimo di relax. Nessun problema. Un motorino fece uno scarto buttandosi di lato; la bambina seduta sul sellino posteriore si aggrappò a una maglietta rossa con il casco a visiera, prima di rivolgere loro uno sguardo apatico. Tieniti forte, pensò Dim.
Su Rama IV il taxista si piazzò dietro un camion dal cui tubo di scappamento usciva del fumo talmente spesso e nero da impedirle persino di leggere il numero di targa. Dopo essere stato filtrato dall’impianto dell’aria condizionata, il gas di scarico era piú freddo e quasi inodore. Ma soltanto quasi. Dim agitò discretamente la mano per mostrare quello che pensava e il taxista, dopo aver lanciato una rapida occhiata nello specchietto, cambiò corsia. Nessun problema.
Non era stato sempre cosí. Nella fattoria dove era cresciuta, erano sei femmine. Sei di troppo, a detta del padre. Lei aveva sette anni quando, tossendo per via della polvere giallastra che si levava dalla stradina di campagna, si erano riuniti per salutare con la mano la sorella maggiore che, su un carretto, si allontanava lungo la viuzza parallela alle acque marroni del canale. Rifornita di indumenti puliti, un biglietto ferroviario per Bangkok e un indirizzo a Patpong scritto sul retro di un biglietto da visita, la sorella piangeva disperata anche se Dim aveva continuato ad agitare la mano con tutte le sue forze, tanto che le sembrava si potesse staccare da un momento all’altro. La madre le aveva accarezzato i capelli dicendole che non era una cosa facile, ma neanche cosí terribile. Perlomeno a sua sorella non sarebbe toccato in sorte di girare di fattoria in fattoria come kwai, cosí come era toccato a sua madre prima di sposarsi. Inoltre Miss Wong aveva promesso che si sarebbe presa cura di lei. Il padre aveva annuito e, dopo aver sputato il bolo di betel che teneva fra i denti neri, aveva aggiunto che nei bar i farang pagavano bene per le ragazzine alle prime armi.
Dim non aveva capito quella cosa del kwai, ma non voleva chiedere. Ovviamente sapeva che un kwai era un bue. Come la maggior parte delle fattorie intorno a loro, non potevano permettersi di possederne uno, cosí prendevano in affitto uno di quelli ambulanti quando dovevano arare il campo di riso. Soltanto in seguito sarebbe venuta a sapere che anche la ragazza che seguiva l’animale nei suoi spostamenti era chiamata kwai, perché i suoi servigi erano inclusi nel prezzo. Cosí voleva la tradizione. Fortunatamente sua madre aveva incontrato un contadino che l’aveva voluta prima che diventasse vecchia.
Un giorno, quando Dim aveva quindici anni, suo padre l’aveva chiamata mentre le arrancava incontro attraverso il campo di riso, con il sole che gli picchiava sulla schiena e il cappello in mano. Lei non aveva risposto subito: dopo essersi raddrizzata e aver osservato con attenzione le colline verdi che circondavano la piccola fattoria, aveva chiuso gli occhi mentre ascoltava le grida emesse dal trombettiere nascosto tra il fogliame e annusava il profumo proveniente dall’eucalipto e dagli alberi della gomma. Sapeva che era arrivato il suo turno.
Il primo anno aveva abitato insieme a quattro ragazze in un’unica stanza condividendo con loro ogni cosa: letto, cibo e vestiti. Soprattutto l’abbigliamento era importante, perché senza abiti belli non era possibile accaparrarsi i clienti migliori. Dim aveva imparato a ballare, aveva imparato a sorridere, aveva imparato a distinguere tra chi voleva comprare solo da bere e chi invece voleva comprare sesso. Il padre aveva già pattuito con Miss Wong che i soldi sarebbero stati inviati a casa, quindi nel corso dei primi anni Dim non ne aveva visti molti, ma Miss Wong era soddisfatta e con il passare del tempo aveva trattenuto piú denaro per lei.
Miss Wong aveva motivo di essere contenta. Dim lavorava sodo e i clienti compravano da bere. Inoltre Miss Wong poteva ritenersi fortunata che fosse ancora lí, perché in un paio di occasioni era stata sul punto di andarsene. Un giapponese che diceva di volerla sposare era scomparso quando lei gli aveva chiesto i soldi per il biglietto aereo. Un americano l’aveva portata a Phuket rimandando il proprio rientro e le aveva comprato un anello di diamanti. Dim lo aveva portato al banco dei pegni il giorno dopo che lui se n’era andato.
Alcuni la pagavano male e se la prendevano con lei se si lamentava, altri facevano la spia a Miss Wong se non acconsentiva a fare tutto quello che volevano. Non capivano che una volta che l’avevano svincolata da quelli che erano i suoi obblighi al bar, e che quindi Miss Wong aveva ricevuto quello che le spettava, Dim era padrona di sé stessa. Padrona di sé stessa. Pensò al vestito rosso esposto in vetrina. Sua madre aveva ragione: non era facile, ma non era neanche cosí terribile.
Oltretutto era riuscita a conservare un sorriso innocente e una risata squillante. Il che ai clienti piaceva. Forse era quello il motivo per cui Wang Lee le aveva offerto il lavoro come G. R. O., stando all’inserzione che aveva fatto pubblicare sul «Thai Rath»: Guest Relation Officer. Wang Lee era un cinese piccolo e scuro. Gestiva un motel fuorimano in fondo a Sukhumvit Road, i clienti erano soprattutto stranieri che avevano desideri speciali, ma non cosí particolari da renderle impossibile esaudirli. A dire il vero Dim preferiva quell’occupazione che rimanere al bar a ballare per ore. Inoltre Wang Lee pagava bene. L’unico svantaggio era che ci voleva parecchio tempo per raggiungere il motel dall’appartamento di Banglamphu.
Maledetto traffico! Si era di nuovo bloccato. Dim disse all’autista che sarebbe scesa, anche se significava dover attraversare sei corsie prima di raggiungere il motel sull’altro lato della strada. L’aria la avvolse come un asciugamano caldo e bagnato quando lasciò il taxi. Con lo sguardo cercò un varco tra le macchine mentre si teneva la mano davanti alla bocca, consapevole del fatto che tanto non serviva a niente e che a Bangkok era impossibile respirare un’aria diversa da quella. Perlomeno, evitava di sentirne la puzza.
Scivolò tra le automobili, fu costretta a fare un balzo di lato per evitare un pick-up con il cassone pieno di ragazzi che le fischiarono dietro e rischiò di farsi tranciare i calcagni da una Toyota che proseguí come se niente fosse. Finalmente raggiunse la meta.
Wang Lee alzò in fretta lo sguardo quando Dim fece il suo ingresso nella reception deserta.
– Serata fiacca? – gli domandò.
L’interpellato annuí con espressione infuriata. Ce n’erano state parecchie nell’ultimo anno.
– Hai mangiato?
– Sí, – mentí lei. Lee intendeva essere gentile, ma Dim non aveva voglia di quei noodles insipidi che preparava nella stanza sul retro.
– C’è da aspettare un po’, – le disse. – Il farang vuole prima dormire, telefona quando è pronto.
Lei gemette.
– Ma lo sai che devo tornare al bar prima di mezzanotte, Lee.
Lui guardò l’orologio.
– Dagli un’ora.
Dim si strinse nelle spalle e si sedette. Se fosse stato un anno prima, probabilmente Lee l’avrebbe cacciata su due piedi per essersi permessa di parlargli in quel modo, ma adesso aveva un disperato bisogno di tutti i soldi che riusciva a incassare. Se ne sarebbe potuta andare lei, certo, ma in tal caso quel lungo tragitto sarebbe stato inutile. Inoltre era in debito con Lee per un paio di favori che le aveva fatto: in fondo, non era il peggior protettore per cui avesse lavorato.
Spenta la terza sigaretta, Dim si sciacquò la bocca con l’amaro tè cinese di Lee prima di alzarsi per dare un’ultima occhiata al trucco nello specchio appeso sopra il bancone.
– Vado a svegliarlo, – disse.
– Mmh, li hai i pattini?
Lei alzò la borsa.
I tacchi delle sue scarpe scricchiolarono sulla ghiaia che copriva lo spiazzo aperto e vuoto davanti alle stanze basse del motel. La camera 120 si trovava in fondo; nel parcheggio non si distingueva la sagoma di nessuna macchina, ma la finestra era illuminata. Forse il tipo si era svegliato. Una leggera brezza le sollevò la gonna corta, ma senza procurarle alcun refrigerio. Dim non vedeva l’ora che arrivasse il monsone, la pioggia. Proprio come, dopo qualche settimana di inondazioni, strade fangose e bucato ammuffito, sentiva la mancanza di quei mesi secchi e senza un alito di vento.
Bussò leggermente alla porta e atteggiò la bocca al solito sorriso mite e innocente, con la domanda «what’s your name» già sulla punta della lingua. Nessuno rispose. Bussò una seconda volta prima di guardare l’orologio. Sicuramente avrebbe potuto contrattare sul prezzo del vestito chiedendo uno sconto di qualche centinaio di baht, anche se era in vendita da Robertson. Girò la maniglia e scoprí con sorpresa che la porta era aperta.
Era sdraiato sul letto a pancia in giú e la prima impressione fu che stesse dormendo. Poi vide un luccichio di vetro blu: il manico del coltello che spuntava dalla giacca del vestito di un giallo fosforescente. Difficile dire quale fu il primo pensiero che le sconvolse la mente; di sicuro, tra gli altri, che il suo viaggio da Banglamphu era stato comunque inutile. Alla fine riuscí a contrarre le corde vocali. L’urlo venne coperto dal clacson di un autotreno che per un pelo riuscí a evitare un tuk-tuk disattento su Sukhumvit Road.

Capitolo 2

– Nationaltheatret, – annunciò una voce nasale e addormentata all’altoparlante prima che le porte a soffietto del tram si aprissero e Dagfinn Torhus scendesse, in quella mattina d’inverno pungente e fredda, poco prima dell’alba. L’aria gelida gli morse le guance rasate di fresco e al chiarore della scarsa illuminazione al neon di Oslo vide la condensa di gelo che gli usciva dalla bocca.
Era la prima settimana di gennaio e Dagfinn sapeva che la situazione non sarebbe migliorata fino a inverno inoltrato, quando il ghiaccio avrebbe ricoperto il fiordo e l’aria si sarebbe fatta piú secca. Cominciò a risalire Drammensveien diretto al ministero degli Affari esteri. Un paio di taxi solitari lo superarono, ma per il resto le strade erano quasi deserte. L’orologio sponsorizzato dalla compagnia di assicurazioni Gjensidige, che troneggiava sulla parete del palazzo limitrofo, si stagliava rosso contro il cielo nero indicando che erano soltanto le sei del mattino.
Davanti alla porta d’ingresso estrasse il suo badge d’accesso. «Direttore di sezione», c’era scritto sopra una foto che ritraeva un Dagfinn Torhus con dieci anni in meno mentre fissava l’obiettivo con il mento proteso in avanti e lo sguardo deciso dietro la montatura d’acciaio degli occhiali. Passò la tessera nel lettore, digitò il codice e spinse la pesante porta a vetri che dava su Victoria Terrasse.
Non tutte le porte si erano lasciate aprire con la stessa facilità da quando era arrivato lí quasi trent’anni prima, all’età di venticinque. Alla cosiddetta «scuola per diplomatici», il corso per aspiranti organizzato dal ministero degli Affari esteri, il suo ingresso in quell’ambiente non era stato del tutto indolore per via del forte accento dialettale – era nato nella vallata di Østerdalen – e dei «modi da villico», come aveva rimarcato un suo compagno di corso, un ragazzo bene della ricca contea di Bærum, in prossimità di Oslo. Gli altri aspiranti erano laureati in Scienze politiche, Economia o Giurisprudenza e avevano già maturato una certa esperienza nei rispettivi campi. I loro genitori erano accademici, politici o appartenevano anch’essi all’élite che ruotava intorno al ministero degli Affari esteri. Lui era figlio di contadini e si era laureato in Agraria all’università di Ås. Non che gliene importasse granché, però sapeva che avere gli amici giusti era fondamentale ai fini della carriera. Mentre cercava di imparare i diversi codici sociali, Dagfinn Torhus si era sforzato di compensare il proprio handicap lavorando ancora piú sodo. Anche se erano molto differenti tra di loro e avevano le idee ancora confuse su come fare, tutti condividevano la stessa aspirazione su dove volessero arrivare nella vita. Forse non sapevano come, ma erano già perfettamente consapevoli della direzione: in alto.
Torhus emise un sospiro prima di salutare con un cenno del capo la guardia giurata della Securitas che da sotto il divisorio in vetro spinse verso di lui i giornali e una busta.
– Altro…?
La guardia scosse la testa.
– Il primo ad arrivare come sempre, Torhus. La busta viene dalla sezione Comunicazioni, l’hanno consegnata questa notte.
Torhus osservò il numero dei piani accendersi e spegnersi mentre l’ascensore lo portava verso l’alto all’interno dell’edificio. Si era messo in testa che ognuno di essi simbolizzasse un periodo preciso della sua carriera e ogni mattina era come assistere a una specie di revival.
Il pianterreno rappresentava i primi due anni, che aveva passato al corso per aspiranti: le lunghe discussioni in libertà su politica e storia, il tormento delle ore di francese.
Al primo piano c’era il cosiddetto «ufficio nomine». I due primi anni gli avevano assegnato Canberra, poi per altri tre Città del Messico. Senza dubbio belle città, sí, non poteva lamentarsi. A dire il vero aveva messo come preferenze Londra e New York, ma quelle erano sedi diplomatiche di prestigio per cui avevano fatto domanda anche tutti gli altri; non bisognava prenderla come un sconfitta, si era detto, se lo avevano assegnato altrove.
Il secondo piano corrispondeva al rientro in Norvegia senza la cospicua indennità di servizio che gli sarebbe spettata per la missione all’estero, oltre a quella per l’abitazione e le spese di rappresentanza che gli avevano permesso di condurre una vita all’insegna di una pacata e calcolata abbondanza. Aveva incontrato Berit, che era rimasta incinta, e quando era stato il momento di fare domanda per essere mandato in una nuova sede diplomatica estera, il figlio numero due era già in arrivo. Berit proveniva dalla stessa zona della Norvegia e parlava al telefono con la madre tutti i giorni. Torhus, che aveva deciso di aspettare un po’, si era messo a lavorare come un pazzo, scriveva relazioni chilometriche sugli accordi commerciali bilaterali con i Paesi in via di sviluppo, scriveva ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Scarafaggi
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Capitolo 10
  14. Capitolo 11
  15. Capitolo 12
  16. Capitolo 13
  17. Capitolo 14
  18. Capitolo 15
  19. Capitolo 16
  20. Capitolo 17
  21. Capitolo 18
  22. Capitolo 19
  23. Capitolo 20
  24. Capitolo 21
  25. Capitolo 22
  26. Capitolo 23
  27. Capitolo 24
  28. Capitolo 25
  29. Capitolo 26
  30. Capitolo 27
  31. Capitolo 28
  32. Capitolo 29
  33. Capitolo 30
  34. Capitolo 31
  35. Capitolo 32
  36. Capitolo 33
  37. Capitolo 34
  38. Capitolo 35
  39. Capitolo 36
  40. Capitolo 37
  41. Capitolo 38
  42. Capitolo 39
  43. Capitolo 40
  44. Capitolo 41
  45. Capitolo 42
  46. Capitolo 43
  47. Capitolo 44
  48. Capitolo 45
  49. Capitolo 46
  50. Capitolo 47
  51. Capitolo 48
  52. Capitolo 49
  53. Capitolo 50
  54. Capitolo 51
  55. Capitolo 52
  56. Capitolo 53
  57. Capitolo 54
  58. Il libro
  59. L’autore
  60. Dello stesso autore
  61. Copyright