Tempo di bilanci
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La fine del Novecento

  1. 340 pagine
  2. Italian
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La fine del Novecento

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Un bilancio letterario, ma anche politico-morale, del Novecento italiano vieta la neutralità. E infatti Cesare Segre, in questo libro, segue con reattiva attenzione critica conquiste e sconfitte dell'attività letteraria; i raggiungimenti come l'attuale, progressivo, declino. Il suo giudizio viene portato, in un ampio, esauriente capitolo iniziale (forse il piú efficace sinora proposto), sulle trasformazioni del panorama letterario del secolo scorso, e poi concentrato su una lunga serie di autori (anche delle ultime leve), con limpide monografie che completano i suoi precedenti contributi. E avverte con amarezza la scarsa continuità dell'onda di rinnovamento prodotta dalla caduta della dittatura, il crescente vuoto morale, pubblico e privato, che promuove ora il degrado della democrazia. Il giudizio di Segre fa riferimento, anche nei saggi piú letterari, a valutazioni di etica sociale che l'autore considera ormai imprescindibili. È significativo che un capitolo centrale del libro discuta i rapporti fra etica e letteratura, capovolgendo l'assioma crociano dell'autonomia dell'arte, e auspicando un nuovo impegno degli scrittori, anche come difesa dei valori culturali che essi esprimono, o credono di esprimere, e che sono sempre piú vilipesi. Se poi è vero che la Shoah ha segnato il punto piú basso nel diagramma dei valori etici operanti nella storia degli uomini, additando un bivio non evitabile, si capisce perché il libro dedichi nella seconda parte tante analisi agli scrittori, anche stranieri, della Shoah, e chiuda con un capitolo di partecipe riflessione sulla letteratura dei Lager.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858418932

Parte prima

Per un bilancio del Novecento

I. Note per un bilancio del Novecento

Premessa.
Non è facile dare un consuntivo dell’attività letteraria svoltasi in Italia nel secolo scorso. Si dovrebbero infatti indossare, preliminarmente, le vesti dello storico generale, dell’antropologo e del sociologo. Mi dichiaro inadeguato, e mi limiterò ad alcune considerazioni, delle quali non nego, anzi sottolineo il carattere nettamente personale. Nei primi paragrafi cercherò soltanto di richiamare alcuni dati storici negli aspetti che hanno avuto maggior risonanza letteraria, o che paiono significativi per un diagramma etico-politico di un quadro che darò per noto. È sui fatti letterari che, subito dopo, concentrerò l’attenzione.
1. L’Italia dalla Prima alla Seconda guerra mondiale.
Il secolo è incominciato senza netta soluzione di continuità rispetto al precedente, almeno se si assume una prospettiva borghese. Continuazione non tranquilla, se nel 1900 viene assassinato il re Umberto I, e si susseguono scioperi ed eccidi. S’era infatti sviluppata una consistente agitazione tra i lavoratori, ormai consapevoli dei propri diritti, e le loro rivendicazioni e dimostrazioni sono represse con la violenza (tristemente famoso il generale Bava-Beccaris, che nel 1898 bloccò i moti per il carovita con i cannoni). Gli Stati, monarchici o repubblicani, hanno un regime parlamentare ma con un elettorato molto ridotto, sulla base del censo e del sesso; i sindacati vedono crescere velocemente il loro seguito. In Italia, Giolitti attua aperture sociali consistenti, abbozzando un futuro di progresso che la Grande Guerra bloccò. L’analfabetismo ancora maggioritario era fronteggiato e accennava a ridursi, l’industrializzazione si stava affermando ai danni delle tradizionali attività agricole. La Società delle Nazioni era il primo esempio di un ente soprannazionale che si pronunciava sui conflitti e cercava di comporli.
La Prima guerra mondiale sconvolge dunque una situazione moderatamente positiva, portando, oltre che milioni di morti, un’accentuazione della concorrenza conflittuale tra gli Stati, e i germi di nuovi piú distruttivi scontri. La guerra, voluta da minoranze intellettuali oltre che dai militari e dagli industriali, annulla in buona parte le conquiste sociali dei decenni precedenti; essa è stata giustamente definita «il suicidio dell’Europa».
A parte le perdite, gravissime, in termini di vite umane, questo conflitto porta a un rafforzamento delle spinte irrazionalistiche o dichiaratamente eversive già presenti nell’azione degli interventisti. Negli Stati venuti fuori dai moti risorgimentali del secolo precedente si sviluppa un nazionalismo che travolge facilmente l’impegno a migliori, piú equi assetti sociali. Il cambiamento brusco del tavoliere politico nei paesi europei fomenta da ogni parte scontenti, mentre le umiliazioni inferte agli sconfitti incominciano ad attizzare volontà di rivalsa.
Nella crisi conseguente agli sconvolgimenti della guerra, si affermano in gran parte dell’Europa dei regimi totalitari: comunista, fascista e nazista. Essi portano a un terribile degrado del diritto, sempre riformulato in senso autoritario, alla creazione di nuove gerarchie fondate sui legami dei singoli col potere, in complesso alla degenerazione delle norme della convivenza sociale, che vengono finalizzate al partito unico e indiscutibile, a sua volta identificato con lo Stato. Questi regimi maturano subito spinte espansionistiche, presentate secondo i casi come realizzazione di un piú grande Lebensraum («spazio vitale»), come acquisizione di nuove terre da coltivare, come estensioni della nuova civiltà.
I regimi dittatoriali, pur con differenze dovute ai precedenti storici e ai modi della loro affermazione, sono uniti dalla spietatezza con cui l’unità dei rispettivi paesi viene mantenuta: mettendo in condizioni d’impotenza, e molto spesso eliminando, gli oppositori. Il Lager e il Gulag sono il simbolo di un assolutismo che non si era mai presentato in passato con forme cosí inumane. Queste istituzioni mirano alla trasformazione degli avversari, già dichiarati «non uomini», in schiavi, la cui morte è un risultato previsto se non auspicato. I nazisti (con l’aiuto degli alleati fascisti e dei regimi fantoccio, collaborazionisti, nei paesi conquistati) giungono a ideare i campi di sterminio, in cui i morti vengono prodotti con metodi e velocità industriali. Se tutte queste dittature mirano alla riduzione all’impotenza di avversari veri, presunti o persino creati fittiziamente, solo il nazismo giunge al concetto di definire nemiche intere etnie (in particolare ebrei e zingari) e alla decisione di annientarle. Obiettivo pienamente raggiunto, almeno dove gli eserciti tedesco e italiano giunsero e poterono agire incontrastati.
Ciò che caratterizza però le dittature europee è l’efficacia della propaganda interna, che riesce a conquistare un pieno consenso. La capacità di fanatizzare paesi di grande civiltà come Germania, Italia e Russia, di cui i primi due avevano anche discrete sebbene non assodate tradizioni democratiche, è un fenomeno che deve esser tenuto presente come anticipazione di metodi pubblicitari e di persuasioni occulte ora impiegati, meno funestamente, nella propaganda commerciale, ma anche nella lotta politica, e disponibili a eventuali nuovi tentativi totalitari. Oggi può sorprendere che tribuni meschini e rozzi, persino ridicoli, oltre che spietati, come Hitler, Mussolini e Stalin, siano stati venerati e ascoltati come oracoli dalla stragrande maggioranza dei loro sudditi. Ma la storia europea è incomprensibile se non ci si sforza di capire le motivazioni e i tramiti del potere assoluto dei dittatori e dei partiti e delle organizzazioni da loro messi in piedi, e sostituiti o sovrapposti a quelli legittimi.
2. La Seconda guerra mondiale e le sue conseguenze.
La Seconda guerra mondiale è stata preceduta da guerre locali ma significative, come l’anacronistico tentativo colonialista dell’Italia fascista e l’appoggio al colpo di Stato di Franco e alla conseguente guerra civile spagnola. Significativo anticipo della politica nazifascista che si sarebbe dispiegata dopo poco. Queste guerre minori sono state un collaudo sia dell’organizzazione e dell’attrezzatura militare di Italia e Germania, sia di tattiche sino allora vietate o non previste (bombardamenti a tappeto delle città, uso dei gas asfissianti, ecc.; alcuni casi si erano già riscontrati nella precedente guerra mondiale), sia e soprattutto di un martellante impegno propagandistico, senza alcuno scrupolo di veridicità.
La guerra si estese nell’Europa centrale sino in piena Russia, nei Balcani sino alla Grecia inclusa, nell’Africa del nord (non parlo del settore cino-giapponese, che interessò, e pesantemente, gli Stati Uniti); nei paesi vinti, prima la Francia, vennero istituiti governi fantoccio, proni alla volontà tedesca. L’Italia, impreparata nonostante le reboanti affermazioni dei capi, rimase in genere al seguito della Germania, anche se fu protagonista di operazioni, disastrose, specialmente nei Balcani, dove la «civiltà di Roma» svelò una faccia spesso spietata.
Dopo una serie prima lenta, poi travolgente di sconfitte e di ritirate, vi fu una robusta reazione, specialmente da parte della Gran Bretagna e della Russia sovietica, cui si aggiunse in modo determinante una potenza extraeuropea, gli Stati Uniti. Il territorio stesso (entro «i sacri confini della patria») dei paesi aggressori fu progressivamente occupato dagli Alleati vittoriosi; tra i quali naturalmente anche la Russia, che aveva pagato, nella sua resistenza agli italo-tedeschi, il maggior contributo di sangue. La vittoria degli Alleati portò a una spartizione dell’Europa tra i vincitori, che però lasciarono in libertà, prima vigilata, poi piú ampia, gli sconfitti. Del resto l’Italia era contemporaneamente vinta (come potenza fascista alleata della Germania nazista) e in certa misura vincitrice (guerra partigiana contro i nazifascisti, corpi militari italiani inclusi negli eserciti alleati). La Germania rimase smembrata fra l’area delle potenze occidentali e quella sovietica: divisa anche materialmente da un muro che attraversava l’ex capitale Berlino.
In pratica, a questo punto, uno dei risultati piú visibili della guerra era l’evidenziazione di due potenziali egemonie planetarie, pronte a soppraffarsi l’una l’altra. Il pericolo che si ricorresse all’arma atomica, già usata dall’America per piegare il Giappone, distruggendo due intere città, era considerato una minaccia attuale; teorie come quella del «primo colpo» o del «deterrente» hanno tenuto col fiato sospeso una generazione. Certo, una buona parte dell’umanità rischiava di essere annientata. Si affermò come una costante del mondo postbellico la «Guerra fredda», con l’«equilibrio del terrore». Il pericolo sussiste anche dopo la caduta di uno dei contendenti, ma, è strano, non viene piú considerato attuale nonostante che ormai gli armamenti atomici siano disponibili in molti Stati.
Senza diffondersi su tutte le conseguenze del nuovo assetto politico, ne ricordo una sola di grande momento in generale: la riscossa delle colonie inglesi, francesi e portoghesi, diventate presto o poi indipendenti con effetti particolarmente sensibili per l’Inghilterra, che cessava di essere la maggiore potenza imperiale, e vedeva ridursi il suo predominio economico e politico entro misure assai piú ridotte. Da allora, massima potenza occidentale furono incontrastatamente gli Stati Uniti. Seconda conseguenza l’istituzione dell’Onu, che sostituiva la Società delle Nazioni tristemente naufragata. L’Onu non è un modello di democrazia, per la diversa rappresentatività e il diversissimo potere dei suoi componenti; in piú deve ricorrere agli Stati – in sostanza a quelli Uniti – come suo braccio secolare. Gli stessi suoi membri agiscono spesso in contrasto con l’Onu. Che tuttavia ha potuto svolgere in alcuni casi un ruolo positivo, cosí come si spera ne possa svolgere il Tribunale permanente contro i crimini di guerra che si tenta di istituire, tra molte difficoltà e, per ora, col veto dell’America.
Dopo la Seconda guerra mondiale la democrazia è stata restaurata nella parte occidentale dell’Europa, e le conquiste civili ed economiche, pur con alti e bassi, sono state consistenti. Permaneva però il contrasto non guerreggiato con l’Urss. L’egemonia dell’Urss su paesi del centro Europa siti nella sua zona d’influenza fu spesso duramente imposta o riaffermata con i carri armati. E, molto lontano, la lotta per il controllo dell’Estremo Oriente sfociò nella guerra del Vietnam, lunghissima e crudelissima. Essa fu la pietra d’inciampo per i problemi morali degli americani e, indirettamente, degli europei: era giusto distruggere un paese e sottoporne gli abitanti a sofferenze inaudite, per un problema di egemonia sullo scacchiere politico? Da questa guerra pur lontana (ma, per gli americani che vi erano implicati, vicinissima) sgorgarono i movimenti studenteschi del ’68 e oltre, che trassero altra linfa dalle lotte di liberazione dei paesi sudamericani e africani.
3. La fine dell’impero sovietico.
Il colosso sovietico si afflosciò quasi d’improvviso (1989); la «Guerra fredda» terminò senza colpo ferire, il muro di Berlino cadde senza resistenza. Cosí, il bipolarismo durato per quasi mezzo secolo è terminato, e ora l’egemonia è tutta americana. L’ex impero sovietico è precipitato in parte in guerre regionali di cui non s’intravvede la fine; la Russia stessa è in una condizione di potenziale marasma. Non è qui il luogo per discutere se e in quali casi gli Stati Uniti, il «gendarme del mondo», abbiano agito saggiamente e correttamente. L’egemonia americana è un fatto, e si vedrà col tempo se l’Europa, che si è unita prima nei mercati, poi nell’economia (1998), e sta per unirsi anche politicamente, sia in grado di bilanciarla. Si vedrà anche il posto che potranno avere nel panorama mondiale il Giappone con la sua sovrapproduzione, e la Cina ancora dichiaratamente comunista e repressiva ma con un indirizzo pragmatico e uno slancio che potrebbero riservare sorprese.
Nel nuovo panorama apertosi dopo la fine della Guerra fredda s’impone sempre piú il contrasto tra il Nord e il Sud del globo. Il Sud è sottosviluppato, preda in molte zone africane della fame, dell’Aids e di guerre tribali. L’opposizione Nord-Sud s’interseca con l’opposizione tra civiltà giudeo-cristiana e civiltà islamica, che continua con fasi alterne sin dai tempi di Maometto (la vittoria cristiana a Lepanto non è stata definitiva). Mentre la prima (Nord-Sud) mette alla prova (per ora con scarsissimi risultati) la lungimiranza dei paesi ricchi e la loro capacità di provvedere a quelli poveri, la seconda (cristiani-islamici) è quella che, anche per la forza delle correnti integralistiche, appare piú minacciosa (terrorismo, guerre di religione): persino in Estremo Oriente, dove è solo da cambiare uno degli elementi dell’opposizione (indú-musulmani). Ma non è detto che non sia proprio la prima opposizione a rendere a un certo punto indifendibile (già ce lo annunciano le imponenti masse di immigrati) la fruizione del benessere in un intatto Nord del mondo.
4. La vicenda dell’Italia e il fascismo.
L’Italia ha partecipato a questa storia, persino con un ruolo tristemente esemplare (Hitler fu, agli inizi, ammiratore e imitatore di Mussolini). Abbiamo avuto l’Italietta (ma era il meglio possibile per quei tempi) di Giolitti, monarchia costituzionale di poca tradizione ma con significative aperture anche sociali. L’interventismo ruppe uno sviluppo abbastanza promettente, avvalorando nel contempo la nostra fama internazionale d’inaffidabilità (ribaltone dalla Triplice alleanza all’Intesa). Le gravissime perdite di una guerra di trincea mal condotta, insieme col gravame dei danni di guerra e delle spese militari e con la delusione di un trattato di pace in cui – si riteneva – non s’era ottenuto quanto ci spettava, prepararono il terreno per i successivi travagli.
Vinta la Prima guerra mondiale, l’azione intensa dei partiti di sinistra (che guardavano come a un modello, oltre che come alla loro centrale politica, all’Urss) e dei sindacati produssero disordini che diedero pretesto all’organizzazione di un partito il quale da un lato si poneva come restauratore dell’ordine, dall’altro come garante di future glorie e promotore di riconoscimenti ai reduci di guerra. In poco tempo, e quasi senza una vera lotta, Mussolini divenne capo del governo per decisione, molto sofferta, del re Vittorio Emanuele III, che poi la dittatura mantenne come prestanome, coprendolo di titoli («re d’Italia e d’Albania e imperatore d’Etiopia») ma sottraendogli qualunque possibilità decisionale. Il Parlamento fu presto sciolto.
Senza tentare una definizione del fascismo, dirò solo che esso sviluppava tematiche irrazionalistiche (da Nietzsche a Sorel) e tematiche reazionarie, mescolandole però a brandelli di socialismo che risalivano alla precedente milizia di Mussolini (già direttore dell’«Avanti!»). Anche i primi sostenitori erano eterogenei: agrari e piccoli industriali spaventati dall’irrequietezza dei lavoratori e dei reduci frustrati, borghesi bisognosi di affermazione sociale, nazionalisti e retori. D’Annunzio, dall’esterno, offriva parole d’ordine e il simbolo d’imprese avventurose, come quella di Fiume e, prima, il volo su Vienna. Col tempo, il fascismo cercò di elaborare una sua «dottrina», quella dello «Stato etico» [!] (poteva contare anche sui suggerimenti filosofici di Gentile). Ma in sostanza fu piú efficace nell’elaborazione di slogan, nella teatralità delle adunate e dei discorsi del tribuno, nella retorica «romana» dello stile. Anche, si sa, nella repressione degli oppositori. È insomma piú facile individuare enunciazioni ideologiche che non una ideologia articolata rigorosamente; risultato: la notevole duttilità di un potere comunque totalitario.
Se agli inizi il fascismo fu visto con benevolenza, come supposto difensore dell’ordine, anche da personaggi che ne scorgevano gli aspetti illiberali e la vocazione liberticida poi messa in atto (tra tutti Benedetto Croce), presto conquistò un consenso quasi generale. Gli antifascisti piú attivi furono costretti all’esilio, e alcuni caddero vittime di assassinii programmati (Gobetti, Matteotti, i fratelli Rosselli, ecc.), che suscitarono reazioni troppo inferiori alla loro gravità. Come se la faccia bonaria del regime nascondesse agli occhi dei piú la sua natura spregiudicatamente violenta.
Bisogna dire che il consenso al fascismo durò a lungo, sino ai rovesci dell’ultima guerra. Non è vero che nel ’38 ci sia stata una ribellione morale alle leggi cosiddette razziali; anche allora la maggioranza, come del resto la Chiesa, parve consenziente o indifferente. Il consenso aveva molte armi: le cosiddette «opere del regime», molto strombazzate; la stabilità sociale e il corporativismo, guidato dall’alto; i moderati progressi del benessere (non confrontabili, dato il controllo statale delle informazioni, con quelli che si verificavano fuori d’Italia); la coloritura nazionalistica e trionfalistica di ogni opera ed evento pubblico; la distribuzione capillare di incentivi e riconoscimenti. Anche per gli intellettuali erano approntati premi e incoraggiamenti: i «Vittoriali», i quali selezionarono una intelligencija che poi diventerà antifascista, la rivista «Primato», la valorizzazione di ogni successo.
L’ottundimento della reattività morale ottenuto dal regime risalta anche in occasione delle due guerre d’Etiopia e di Spagna, di cui in genere furono accettate le inconsistenti motivazioni, mentre quasi nessuno (a parte naturalmente gli antifascisti) ne rilevò la natura liberticida, aggressiva, contraria al diritto e alla giustizia. Per la guerra d’Africa le sanzioni decretate dalla Società delle Nazioni furono un incentivo alla solidarietà col regime. C’è solo da dire che la guerra di Spagna non lasciò indifferenti tutti, e che la partecipazione di combattenti italiani alla difesa della repubblica spagnola fu consistente e significativa, essendo volontaria; gli italiani che collaborarono al successo del golpe franchista erano sí piú numerosi, ma non agivano spontaneamente essendo soldati di leva.
5. L’Italia, la guerra e la Resistenza.
La guerra fu accettata anch’essa senza reazioni: inclusa la pugnalata alle spalle della Francia già piegata dai tedeschi. Cosí non ci furono proteste per l’invasione di paesi europei e la repressione sanguinosa di qualunque resistenza. Tuttavia la guerra aprí gli occhi a molti. Mentre si rafforzavano le organizzazioni clandestine antifasciste (soprattutto Giustizia e Libertà; i comunisti erano già organizzati da tempo), i militari si rendevano conto dell’incompetenza dei loro comandanti e dell’in...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Tempo di bilanci
  3. Introduzione
  4. Provenienza dei testi
  5. Tempo di bilanci
  6. Parte prima - Per un bilancio del Novecento
  7. Parte seconda - Note per un bilancio morale
  8. IV. Il tragico e la Shoah nel romanzo del Novecento
  9. Indice dei nomi
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright