Lo sguardo lontano
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Lo sguardo lontano

  1. 240 pagine
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Lo sguardo lontano

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Informazioni sul libro

Quando Laura Boldrini giunge a Montecitorio e diventa la terza donna a presiedere la Camera dei deputati, appare subito come un presidente anomalo. Lei, che si è occupata per anni di diritti umani, di conflitti e di rifugiati, vuole aprire un dibattito sulle grandi questioni della società, accorciare le distanze fra la gente e le istituzioni, fare del Parlamento la «casa della buona politica». E la buona politica è fatta di giustizia sociale, di riconoscimento della dignità, di restituzione della speranza a chi sembra averla perduta. Raccontando dall'interno l'istituzione di cui ha accettato di mettersi al servizio, Laura Boldrini conferma la volontà di farla divenire anche il luogo di una nuova cittadinanza, dimostrando che la rotta può essere invertita. «Non è vero che non si può cambiare. Dobbiamo concentrarci sulla politica, senza lasciare ad altri la responsabilità né abbandonarla nelle mani di chi vuole perseguire il proprio tornaconto. Farne una cosa pulita, aperta, come è giusto che sia, come è scritto nella Costituzione, come è scritto nella Storia migliore del nostro paese. Farne una cosa bella e alta».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858418529

La telefonata

18 dicembre 2012.
Da qualche giorno mi trovo in Grecia per conto dell’Unhcr1, di cui sono portavoce per l’Europa meridionale. La Grecia è in una situazione di particolare gravità: sconta le conseguenze di una drammatica crisi economica alla quale il governo non è riuscito a porre rimedio, impossibilitato a modificare la propria politica e a rispettare i parametri imposti dall’Unione europea. Rischia il default, ed è stata perciò costretta ad accettare il salvataggio imposto dalla Trojka, la delegazione tripartita formata da Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale e Commissione europea. La ricetta è amara. È fatta di tagli durissimi: delle pensioni, del numero di dipendenti statali, di tutto ciò che accresce la spesa pubblica. Questo causa un incremento della povertà, che dal 2009 aumenta inarrestabile di anno in anno colpendo fortemente anche il ceto medio. Fra i miei colleghi di Atene si avverte molta preoccupazione per la sorte dei loro familiari, che nel giro di poco tempo si sono ritrovati senza lavoro o rischiano di perderlo da un momento all’altro. Pure la sanità subisce provvedimenti drastici; di conseguenza, soltanto i greci che hanno un contratto di lavoro e sono in regola con il versamento delle tasse – e basta non aver saldato una multa per non rientrare nei parametri – hanno accesso alle strutture mediche senza ulteriori carichi. Per tutti gli altri – i piú deboli, i piú vulnerabili – niente è gratuito: c’è da pagare un ticket di entrata, e a un certo punto persino i medicinali. Cosí, una grossa fetta di cittadini è esclusa dai servizi sanitari, e molti greci bisognosi di cure mediche devono rivolgersi alle organizzazioni non governative che operano lí per fornire assistenza a rifugiati e migranti.
La mattina del 18 dicembre 2012, dunque, mi trovo al centro di Atene, nella sede della Ong Medici del Mondo, a colloquio con il responsabile. Noto che ci sono anche parecchi greci in attesa: il direttore mi conferma che i pazienti locali sono quasi il quaranta per cento. E mentre discutiamo della povertà e delle patologie che stanno emergendo fra quei cittadini – malanni da carenze proteiche, anemia, problemi respiratori, ricomparsa della tubercolosi e di altre malattie ormai debellate, perché anche la salute patisce le conseguenze della crisi –, sentiamo un pianto accorato. Usciamo dall’ambulatorio e vediamo un ragazzo nero con il viso sanguinante; piange disperato, e i compagni lo sgridano:
– Basta, smettila di frignare! Di cosa ti lamenti? Se sei nero è normale che ti prendano a mazzate, qui ad Atene. A me è già successo tre volte, – dice uno.
E un altro: – A me due volte. M’hanno fermato, m’hanno picchiato, ma non è che se ne può fare una tragedia. Succede e basta.
Come, succede e basta?, dico fra me e me. Avevo già fatto visite in ospedali dov’erano ricoverati – in particolare ad Atene – giovani afghani che erano stati fermati per strada e malmenati, oppure che avevano subito spedizioni punitive dentro casa, nel cuore della notte. Ma era la prima volta che mi capitava di sentire che loro stessi avessero introiettato tanta violenza come un fatto normale, quasi ritenessero di meritarsela.
Torno in albergo scossa dall’angoscia e carica di interrogativi: com’è possibile assistere a questa situazione in maniera supina, senza reagire, senza impedire che ciò accada? Com’è possibile che, davanti a un tale sfaldamento della società greca, nessuno in altri paesi scenda in piazza per solidarietà e si renda conto che siamo al punto di non ritorno? Com’è possibile che ci siano milioni di greci, tagliati fuori da ogni forma d’assistenza, che riversano la loro rabbia sociale sui piú deboli, e che a livello europeo tutto questo venga ignorato? Davvero conta soltanto il pareggio di bilancio? Ma cosa stiamo facendo, ovvero cosa non stiamo facendo?
Turbata da queste riflessioni, scrivo al computer un pezzo da mandare a «Repubblica.it», per il mio blog Popoli in fuga. Scelgo un titolo: La banalità del male2.
La Grecia mi mette sempre a dura prova. Un paese che amo, ma che a volte mi amareggia. Andavo spesso nella regione di Evros, al confine con la Turchia, dove entravano migliaia di migranti; visitavo le stazioni di polizia trasformate in centri di detenzione, senza essere attrezzate per questo scopo: stanze sovraffollate, uomini, donne e bambini in promiscuità, scarsi servizi igienici perdipiú mal funzionanti, e nessuno in grado di comunicare con tutte quelle persone che non erano delinquenti, ma gente in fuga da guerre e violazioni dei diritti umani. Nell’isola di Lesbo, nell’Egeo nordorientale, a pochi chilometri dalla città di Mitilene, ho visto nel famigerato centro di Pagani – poi giustamente chiuso dalle autorità elleniche – centocinquanta bambini afghani senza famiglia, ammassati in una stanza sprangata da sbarre e lucchetti, sorvegliati da poliziotti in guanti in lattice e mascherina. Letti a castello di quattro piani salivano fino al soffitto, materassi sudici erano sparsi in terra, senza coperte e in condizioni igieniche spaventose. Quei bambini si aggrappavano alle sbarre e gridavano: «Libertà! Libertà!», con tutto il fiato che avevano in corpo.
Mentre mi scorrono in testa queste immagini insieme a quelle appena vissute lí ad Atene nella sede di Medici del Mondo, squilla il cellulare. È Nichi Vendola a chiamarmi. Lo saluto, ma sono ancora talmente indignata che gli scarico addosso il racconto di quella giornata orribile. Lui mi ascolta in silenzio. Dopo dieci minuti di sfogo, mi rendo conto di non averlo lasciato parlare: mi scuso e gli domando il motivo della sua telefonata, certa che nella sua regione ci siano delle questioni umanitarie su cui attivarsi. Vendola, infatti, lo conosco perché, in quanto presidente della regione Puglia, abbiamo collaborato per delle iniziative nel suo territorio riguardanti i rifugiati. Ma non si tratta di questo.
– Come Sel vogliamo intensificare la battaglia sui diritti, – mi dice, – visto che la Grecia non è cosí lontana da noi… Tu ti sei sempre battuta contro il razzismo, le discriminazioni, a sostegno di rifugiati e migranti, e per questo rappresenti un punto di riferimento. Perciò ti chiedo di candidarti con noi alle prossime elezioni.
Rimango colpita. La cosa mi lusinga. Lo ringrazio di aver pensato a me, ma gli rispondo che dovrò rifletterci. Sarei tornata in Italia a breve, ci saremmo potuti incontrare per parlarne.
Non è una decisione facile. Accettare la candidatura, ed eventualmente essere eletta, significherebbe chiudere il rapporto con l’Unhcr per avviare un percorso di impegno politico che non so cosa mi riserverà. E se invece non fossi eletta, potrei continuare a lavorare per l’Unhcr ma non piú in Italia, perché l’essermi candidata mi farebbe perdere il ruolo super partes senza il quale non potrei rappresentare un organismo internazionale: sarebbe in contrasto con la terzietà dell’Onu. In caso di non elezione, quindi, per continuare la mia attività di portavoce dell’Alto commissariato per i rifugiati dovrei considerare un trasferimento all’estero, con tutto quello che ne conseguirebbe. Candidandomi, insomma, rischio un salto nel vuoto.
Sono però davanti a un’opportunità: potrei entrare nel cuore delle questioni per la porta principale. Le novità devono essere colte, non bisogna essere troppo prudenti. Sono incline a prendere decisioni, anche in assenza di certezze. Perché pure questo è il bello della vita: rigenerarsi, aprire nuovi orizzonti, mettersi in discussione e osare sempre di piú. Se hai paura di muoverti, non farai mai niente, è sempre stata questa la mia filosofia. Sin dall’inizio. Sin da quando ero adolescente e volevo viaggiare, ed era ancora soltanto la curiosità a spingermi a lasciare la provincia per assecondare il desiderio di vedere, conoscere, capire. Era l’innamoramento per la sorpresa che il mondo mi riservava. Ero desiderosa di stupirmi, di guardare il Machu Picchu e restare senza fiato, di andare in Tibet a oltre seimila metri e avere la forza di respirare; di fermarmi a Bamiyan davanti ai Buddha e sentirmi fortunata di poter ammirare le meraviglie del pianeta, di potermi alimentare di tanta bellezza.
Avevo diciannove anni; a un giovane agronomo che conoscevo da tempo era stata data la possibilità di gestire una finca de arroz, un’azienda di riso in Venezuela. Il cambio fisso bolívar/dollaro garantiva buoni fatturati e ritorno economico, e il Venezuela attirava molti investimenti stranieri. Il giovane agronomo delle mie parti era decisamente bizzarro, ma mi offriva una grande opportunità; se avessi voluto, nella finca ci sarebbe stato posto anche per me. E io non volevo farmi sfuggire quell’occasione. Mia madre, che amava la vita ed era altrettanto curiosa, sia pur preoccupata non mi ostacolò. Mentre mio padre non ne volle sapere. Lui era un avvocato, io mi ero iscritta a Giurisprudenza, e quell’estate avrei dovuto lavorare nel suo studio legale senza alcuna distrazione.
Invece ero partita. Arrivata a Calabozo, mi avevano assegnato mansioni organizzative: avrei dovuto occuparmi dell’assetto dell’azienda e di tenere i rapporti fra gli uffici italiani e le autorità locali. Ma io ero curiosa di vedere come lavoravano i campesinos, perciò, appena potevo, andavo nelle risaie. Erano analfabeti privi di futuro; se ne stavano l’intero giorno con le gambe a mollo a piantare riso, poi, alle cinque della sera (che è già notte in quella zona caraibica), si rintanavano nelle baracche di lamiera, senza elettricità, senza acqua corrente. Mangiavano e stramazzavano sulle brande, per tornare nella risaia l’indomani mattina presto. Il venerdí li caricavano sui pick-up, li accompagnavano al villaggio, dove molti di loro spendevano in alcolici buona parte dei soldi guadagnati in cinque giorni di fatica, e la domenica sera li riportavano in azienda. La loro vita era tutta là. Un meccanismo che si riproduceva uguale ed eterno. E quando ne sarebbero usciti? Il circolo vizioso della povertà non si spezza senza l’istruzione: un campesino che non sa né leggere né scrivere resterà sempre un campesino, suo figlio sarà un campesino, suo nipote sarà un campesino. È in Venezuela che comincio a pormi delle domande fondamentali: è la democrazia che porta la distribuzione della ricchezza? E cosa spinge un paese ricco di risorse a non mettere in atto politiche di sviluppo a vantaggio di tutta la popolazione e a non restituire niente ai propri cittadini? Non è questa una scelta che minaccia la stabilità stessa del paese?
A diciannove anni, figlia di famiglia borghese, iniziavo a capire il conflitto sociale. E quindi anche cosa non volevo fare, e cosa invece volevo fare fortemente: dare il mio contributo per ridurre le diseguaglianze attraverso l’affermazione dei diritti fondamentali di ciascuno, senza i quali non vi è progresso sociale.
Tre mesi dopo, di ritorno dal Venezuela, avevo proseguito l’università cercando di concentrarmi al massimo sugli esami, cosí da avere piú tempo per viaggiare e conoscere altre realtà. Ero partita per il Sudest asiatico, in un percorso on the road dalla Thailandia all’Indonesia. Dopo ci sono stati l’India, il Nepal, il Tibet, l’Africa. Ancora viaggi di conoscenza e formazione, ma anche di consapevolezza che aumentava, tant’è che, una volta laureata, avevo fatto subito richiesta per il concorso alle Nazioni Unite. Avevo abbandonato l’idea di diventare avvocato, che mai avevo perseguito veramente, e dato la notizia ferale a mio padre. All’inizio avevo pensato di fare il concorso in magistratura, ma piú facevo quelle esperienze di viaggio, piú mi era chiaro di essere proiettata verso altro.
Mi piaceva scrivere. Negli anni dell’università, la sera lavoravo all’Aise, l’Agenzia internazionale stampa emigrazione: rielaboravo le notizie diffuse in Italia in un’ottica che potesse interessare le comunità degli italiani all’estero. Tutto torna, tutto si tiene. Amavo l’aspetto del racconto, della scrittura, però l’obiettivo vero era mettere tutto ciò al servizio di una causa.
Per questo avevo fatto il concorso per Jpo3, il programma finanziato dal ministero degli Esteri grazie a cui si può compiere un’esperienza formativa di un biennio presso un organismo internazionale, conclusa la quale si viene assunti se quell’organismo lo ritiene utile. Avendo trascorso diverso tempo in America Centrale e parlando un discreto spagnolo, ero stata selezionata dall’Unhcr per fare l’addetta stampa a Tegucigalpa, in Honduras. Avevo pensato a lungo se partire o meno, e alla fine avevo rinunciato, ma fra mille dubbi. Dopo circa un anno, era arrivata la chiamata della Fao, che stava selezionando un addetto stampa per l’Italia. Alla Fao ero rimasta cinque anni per poi ottenere un contratto al Programma alimentare mondiale, e nel 1998 mi era stato proposto un nuovo incarico all’Unhcr, che avevo accolto con entusiamo.
Sono stati anni straordinari, di lavoro intenso, svolto in Italia ma anche in luoghi in cui tanti fatti, spesso terribili, sono accaduti, dall’esplosione dei Balcani alle crisi del Caucaso. Quando arrivò la notizia dell’uccisione di Ilaria Alpi in Somalia, ero in Mozambico nel mezzo del bush, dove si dava corso alla smobilitazione della Renamo4; da lí mi ero spostata verso il Malawi, dal cui confine entrava proprio in Mozambico un fiume umano di centinaia di migliaia di persone: tornavano a casa dopo un conflitto durato dieci anni. Poi ci sono state le missioni in Pakistan, in Afghanistan, in Kosovo, e ancora tante situazioni di crisi in Africa – Sudan, Angola, Tanzania, Ruanda… – durante le quali svolgevo il mio ruolo di portavoce informando la stampa italiana e internazionale della situazione umanitaria e dei bisogni dei rifugiati, ma anche dando parola alle loro storie e alle loro denunce.
A un certo punto il mio impegno con l’Unhcr si concentra interamente sull’Italia. Perché l’emergenza si sposta nel Mediterraneo, il muro d’acqua che miete tantissime vittime e cambia ogni prospettiva. Non c’è piú il nemico in carne e ossa: il nemico è il mare. È la guerra fra l’uomo e il mare, in cui migliaia di persone perdono la vita. È anche la guerra fra chi tenta di ignorare questa realtà e chi invece vuole vederla. È la guerra fra la paura e la solidarietà.
Mi ritrovavo a scontrarmi con la propaganda, con la politica. E le prese di posizione dell’Unhcr contro i respingimenti in alto mare messi in atto nel 2009 dal governo italiano, mi portavano a volte a essere oggetto di pesanti attacchi come di norma non accade ai funzionari delle Nazioni Unite. L’immigrazione era già uno dei temi piú scottanti dei nostri tempi, quindi la materia che trattavo era divenuta altamente politica, sia in Italia sia in Europa, e io ero nel Sudeuropa a occuparmene, come portavoce dell’Unhcr. Non ero un esponente politico, ma mi toccava spesso tenere testa a chi nelle trasmissioni televisive, nei talk show, nei dibattiti – dove la sinistra agiva timidamente – strumentalizzava il tema dell’immigrazione, fomentando la paura a scopi elettorali. Sentivo che in alcuni casi c’era una sorta di tacita delega da parte della sinistra, che nel fare questo, però, perdeva l’opportunità di ingaggiare una battaglia politica sui principî e sui diritti. La sinistra dovrebbe stare dalla parte di chi ha piú bisogno e spendersi politicamente per questo. Se non lo fa, perde la sua identità, la sua natura, e finisce per copiare dagli altri qualcosa che non è suo e che infatti poi non le riesce.
Dopo quella telefonata ricevuta in Grecia, penso a lungo alla proposta di Nichi Vendola. Ne parlo con Vittorio, il mio compagno; con Anastasia, mia figlia; con tutte le persone a me vicine. E alla fine maturo la convinzione che sia un percorso necessario e doveroso. Per anni ho guardato l’Italia da una posizione di terzietà, a volte anche puntando l’indice contro le sue inadempienze. Come molti cittadini, provo scontento, frustrazione, rabbia verso la classe dirigente, per gli scandali, per la stagnazione del paese, per la mancanza di ricambio. Di fronte all’offerta di fare la mia parte e contribuire al cambiamento che tanto è necessario, sarebbe poco coerente tirarsi indietro, dire no e rimanere sull’uscio a guardare.
Ai primi di gennaio del 2013 prendo quindi l’aspettativa dall’Unhcr e inizio la campagna elettorale. Non so ancora dove mi candideranno. Spero nelle Marche, perché è la mia regione e perché lí ho una rete consolidata di contatti. Mi sembra perciò la destinazione piú naturale. E infatti la scelta cade sulle Marche, ma Sel aggiunge anche la Sicilia, che a seguito degli sbarchi è diventata, per cosí dire, la mia seconda casa. Non è subito chiaro se la candidatura sarà alla Camera o al Senato, ma io insi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Lo sguardo Lontano
  3. La telefonata
  4. Una nuova vita
  5. La casa della buona politica
  6. La trasparenza come politica
  7. Internet. Luci e ombre
  8. Se son donne passeranno
  9. La violenza travestita da amore
  10. Una Repubblica fondata sul lavoro
  11. Alla luce del sole
  12. Tutti per uno, uno per tutti
  13. In movimento
  14. Post scriptum
  15. Ringraziamenti
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Copyright