La fragilità che è in noi
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La fragilità che è in noi

  1. 112 pagine
  2. Italian
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La fragilità che è in noi

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Qual è il senso di un discorso sulla fragilità? Quello di riflettere sugli aspetti luminosi e oscuri di una condizione umana che ha molti volti e, in particolare, il volto della malattia fisica e psichica, della condizione adolescenziale - con le sue vertiginose ascese nei cieli stellati della gioia e della speranza, e con le sue discese negli abissi dell'insicurezza e della disperazione -, ma anche il volto della condizione anziana, lacerata dalla solitudine e dalla noncuranza, dallo straniamento e dall'angoscia della morte. La fragilità, negli slogan mondani dominanti, è l'immagine della debolezza inutile e antiquata, immatura e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell'indicibile e dell'invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con piú facilità e con piú passione negli stati d'animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858413531

Eugenio Borgna

La fragilità che è in noi

Einaudi

Quale è il senso di un discorso sulla fragilità? Quello di riflettere sugli aspetti luminosi e oscuri di una condizione umana che ha molti volti e, in particolare, il volto della malattia fisica e psichica, della condizione adolescenziale con le sue vertiginose ascese nei cieli stellati della gioia e della speranza, e con le sue discese negli abissi dell’insicurezza e della disperazione, ma anche il volto della condizione anziana lacerata dalla solitudine e dalla noncuranza, dallo straniamento e dall’angoscia della morte. La fragilità, negli slogan mondani dominanti, è l’immagine della debolezza inutile e antiquata, immatura e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con piú facilità e con piú passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi.
Una parentesi semantica.
Grande e radicale è oggi la dilatazione dei significati di fragilità: abitualmente considerata dai dizionari come indice di scarsa consistenza, di scarsa durata, di gracilità e di debolezza, di transitorietà e di caducità, di trepidità morale e di debilità; identificando la fragilità in quella che è la sua linea d’ombra, la sua precarietà e la sua instabilità. Ma le cose sono cambiate nel contesto semantico della parola: accanto ai significati ora indicati, uno splendido dizionario (il Dizionario analogico della lingua italiana edito nel 2011 da Zanichelli) assegna alla fragilità i significati di vulnerabilità, di sensibilità e di ipersensibilità, di delicatezza, e di indifesa e inerme umanità, e del loro possibile incrinarsi nel corso della vita. Ma sono dilatazioni, o integrazioni, semantiche che nei dizionari comuni, anche in quelli aggiornati, non si trovano; e questo, ovviamente, non contribuisce alla immediata comprensione degli orizzonti di senso dialettico della fragilità: struttura portante, Leitmotiv, dell’esistenza, dei suoi dilemmi e delle sue attese, delle sue speranze e delle sue ferite; e queste cose vorrei ora descrivere e analizzare. Muovendo, cosí, da una comune parabola semantica che riunisce in sé, sia pure con diverse risonanze emozionali, fragilità, vulnerabilità e sensibilità: aree tematiche che sconfinano l’una nell’altra.
La fragilità fa parte della vita.
La fragilità fa parte della vita, ne è una delle strutture portanti, una delle radici ontologiche, e delle forme di umana fragilità non può non occuparsi la psichiatria: immersa nelle sue proprie fragilità e nelle fragilità dei suoi pazienti, divorata dal rischio e dalla tentazione di non considerare la fragilità come umana esperienza dotata di senso ma come espressione piú, o meno, dissonante di malattia, di una malattia che non può essere se non curata.
Come definire la fragilità nella sua radice fenomenologica? Fragile è una cosa (una situazione) che facilmente si rompe, e fragile è un equilibrio psichico (un equilibrio emozionale) che facilmente si frantuma, ma fragile è anche una cosa che non può essere se non fragile: questo essendo il suo destino. La linea della fragilità è una linea oscillante e zigzagante che lambisce e unisce aree tematiche diverse: talora, almeno apparentemente, le une lontane dalle altre.
Sono fragili, e si rompono facilmente, non solo quelle che sono le nostre emozioni e le nostre ragioni di vita, le nostre speranze e le nostre inquietudini, le nostre tristezze e i nostri slanci del cuore; ma sono fragili, e si dissolvono facilmente, anche le nostre parole: le parole con cui vorremmo aiutare chi sta male e le parole che desidereremmo dagli altri quando siamo noi a stare male. Sono fragili, sono vulnerabili, esperienze di vita alle quali talora nemmeno pensiamo, come sono le esperienze della timidezza e della gioia, del sorriso e delle lacrime, del silenzio e della speranza, della vita mistica; ma ci sono umane situazioni di vita che ci rendono fragili, o ancora piú fragili, dilatando in noi il male di vivere, e sono le malattie del corpo e quelle dell’anima, ma anche la condizione anziana quando sconfini, in particolare, negli abissi della malattia estrema: la malattia di Alzheimer. Sono situazioni di grande fragilità interiore che la vita, la noncuranza e l’indifferenza, e anche solo la distrazione e la leggerezza altrui, accrescono e straziano.
Come non riconoscere (cosí) nell’area semantica e simbolica, espressiva ed esistenziale, della fragilità gli elementi costitutivi della condizione umana? Cosa sarebbe la condition humaine stralciata dalla fragilità e dalla sensibilità, dalla debolezza e dalla instabilità, dalla vulnerabilità e dalla finitudine, e insieme dalla nostalgia e dall’ansia di un infinito anelato e mai raggiunto? Ma come non ammettere che ci siano, anche, forme diverse di fragilità, talora concordanti le une con le altre, e talora discordanti le une dalle altre, ma le une e le altre sigillate da comuni connotazioni umane? Come non distinguere, in particolare, la fragilità come grazia, come linea luminosa della vita, che si costituisce come il nocciolo tematico di esperienze fondamentali di ogni età della vita, dalla fragilità come ombra, come notte oscura dell’anima, che incrina le relazioni umane e le rende intermittenti e precarie, incapaci di tenuta emozionale e di fedeltà: esperienza umana, anche questa, che resiste limpida e stellare al passare del tempo, e alla corrosione che il tempo rischia sempre di trascinare con sé?
Ovviamente, non di questa seconda possibile connotazione semantica della fragilità vorrei in particolare parlare ma della prima, che racchiude in sé infiniti orizzonti di senso: non sempre conosciuti, e non sempre valutati nella loro significazione umana ed etica.
La fragilità come esperienza interpersonale.
La fenomenologia della fragilità non può fare a meno di una riflessione preliminare sulla sua natura di esperienza interpersonale. La fragilità è il nostro destino, certo, ma essa nasce, si svolge e si articola in una stretta correlazione con l’ambiente in cui viviamo, e cioè con gli altri da noi. La coscienza della nostra fragilità, della nostra debolezza e della nostra vulnerabilità (sono definizioni, in fondo, interscambiabili) rende difficili e talora impossibili le relazioni umane: siamo condizionati dal timore di non essere accettati, e di non essere riconosciuti nelle nostre insicurezze e nel nostro bisogno di ascolto, e di aiuto. La nostra fragilità è radicalmente ferita dalle relazioni che non siano gentili e umane, ma fredde e glaciali, o anche solo indifferenti e noncuranti. Non siamo monadi chiuse, e assediate, ma siamo invece, vorremmo disperatamente essere, monadi aperte alle parole e ai gesti di accoglienza degli altri; e, quando questo non avviene, le dinamiche relazionali si fanno oscure e arrischiate: dilatando fatalmente le nostre fragilità e le nostre ferite, le nostre insicurezze e le nostre debolezze, le nostre vulnerabilità.
Le parole fragili.
Ciascuno di noi, in vita, ma in psichiatria in particolare, ha a che fare con le parole: con parole fredde e opache, crudeli e pietrificate, negate alla trascendenza e immerse nell’immanenza, o con parole leggere e profonde, fulgide e discrete, delicate e aperte alla speranza, fragili e friabili, permeabili all’incontro e al dialogo, al cambiamento degli stati d’animo e delle situazioni.
Cosa contrassegna le parole fragili e delicate, le parole che sono arcobaleno di speranza, e cosa le distingue da quelle che non lo sono? Solo l’intuizione e la sensibilità ci consentono di conoscerle, e di coglierle nei loro orizzonti di senso. Le parole fragili sono parole portatrici di significati inattesi e trascendenti, luminosi e oscuri, umbratili e crepuscolari. Sono fragili le parole rilkiane, che si aprono e si chiudono come ortensie azzurre, e che alludono a foreste di segni insondabili; e sono infinitamente fragili le parole leopardiane, nelle loro risonanze cosí facilmente ferite dalla nostra indifferenza e dalla nostra noncuranza, dalla nostra fretta e dalla nostra disattenzione. Sono fragili le parole ungarettiane che, come allodole accecate da troppa luce, rinascono dal silenzio e dalla discrezione, dalle luci e dalle penombre della vita. Sono, queste, le parole di cui hanno bisogno le persone fragili e insicure, sensibili e vulnerabili, indirizzate alla disperata ricerca di accoglienza e di rispetto della loro debolezza: della loro dignità.
In un bellissimo libro di David Khayat, grande oncologo francese, è radicalmente sottolineata l’importanza psicologica e umana delle parole che si rivolgono ai pazienti, e che ne rispettano, o ne lacerano, la dignità e la fragilità. La chirurgia, la radioterapia e la chemioterapia sono ovviamente strumenti essenziali di cura dei tumori, ma a esse è necessario aggiungere, egli sostiene, un altro strumento: quello delle parole. Le parole che si dicono, come quelle che si ascoltano; le parole che si condividono, che ci uniscono, che riconfortano, o quelle che feriscono. Le parole sono dotate di un immenso potere: sono in grado di aiutare, di indicare un cammino, di recare la speranza, o la disperazione, nel cuore dei malati che, nel momento in cui scendono nella voragine della sofferenza, hanno un infinito bisogno di dare voce alle loro emozioni e al loro dolore, che è dolore del corpo, e dolore dell’anima.
Quante persone ferite dalla malattia sono lacerate dalle parole troppo violente, troppo dure, troppo inumane, che i medici rivolgono loro. Una diagnosi comunicata in un corridoio o a una segreteria telefonica, un gesto ambivalente che lascia presagire indifferenza o preoccupazione, uno sguardo sfuggente nel momento di rispondere a una domanda: tutto può causare angoscia e disperazione. Cosí, è necessario scegliere parole che possano essere subito comprese, e che non feriscano. Questo è il compito, non facile ma necessario, di chi cura: creare relazioni umane che consentano al malato di sentirsi capito e accettato nella sua fragilità, e nella sua debolezza.
Come dice ancora David Khayat: egli mai avrebbe potuto pensare, all’inizio della sua carriera di oncologo, che nella pratica clinica le parole gli sarebbero state utili come gli strumenti scientifici, ma è stato cosí; e la parte piú importante dell’insegnamento, che egli avrebbe lasciato in eredità ai suoi allievi, sarebbe stato quello di ancorarsi, nella cura, alla bellezza morbida e plastica delle parole: al loro potere terapeutico. Sulla scia di quali gentili parole è possibile dire a una paziente che la sua vita è in pericolo, e che sarà forse possibile salvarla, ma a costo di gravi mutilazioni? Le parole non sono incolori, non sono uniformi, non sono semplici e, solo se sgorgano dal cuore e dal silenzio, solo se sono fragili e gentili, umbratili e arcane, lasciano una traccia profonda nell’anima di chi sta male, e chiede aiuto divorato dall’angoscia e dalla disperazione.
Ma le parole, certo, non bastano: se i pazienti hanno la sensazione che non si sia avuto il tempo di ascoltarli, di comprenderli, di prendere coscienza delle loro sofferenze, penseranno che non tutto sia stato fatto per essere loro di aiuto.
La fragilità del silenzio.
Le parole sono fragili, sono fragili le parole che aiutano a vivere, e che dovremmo sapere ricreare, o riscoprire, ogni volta che il destino ci fa incontrare con il dolore e con la disperazione; ma le parole sono intrecciate al silenzio, e la loro fragilità rimanda alla fragilità del silenzio che ha mille modi di esprimersi, e che si rompe facilmente.
Sono bellissime e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La fragilità che è in noi
  3. Nota bibliografica
  4. Il libro
  5. L’autore
  6. Dello stesso autore
  7. Copyright