Ah! ces sciences commençantes, ces sciences où l’hypothèse balbutie et où l’imagination reste maîtresse, elles sont le domaine des poètes autant que des savants! Les poètes vont en pionniers, à l’avantgarde, et souvent ils découvrent les pays vierges, indiquent les solutions prochaines.
ZOLA, Le Docteur Pascal
Partiamo con una constatazione. L’istituzione letteraria, in qualunque società ne esista una, procede dando in larghissima misura per scontati, prendendo per buoni, considerando naturali, se stessa e le sue espressioni e i suoi contenuti. Cosí è stato lungo i secoli della nostra tradizione; da ben prima che Freud elaborasse le proprie scoperte sul linguaggio del cosiddetto inconscio e le sue espressioni e i suoi contenuti – ma, da decenni, anche dopo. In una tale constatazione non vi è certo la pretesa di negare che la riflessione estetica, in diverse epoche e in vari modi, abbia messo in questione il proprio oggetto stesso e non solo aspetti o parti di esso. La pretesa è piuttosto di rivendicare che, a partire dalle scoperte di Freud, diventava possibile – e non è ancora avvenuta – una messa in questione conoscitiva piú radicale; e, insieme, piú feconda quanto alle risposte che la questione sollevata può ricevere. L’Ottocento, il secolo che si chiuse con le scoperte di Freud, aveva effettuato a distanza relativamente breve le due conquiste delle quali la riflessione letteraria vive ancora oggi: lo storicismo, e quello che chiamerò l’estetismo senza connotazione peggiorativa. Prima cioè si era avuta, come novità stimolatrice di studi e ricerche senza fine, la presa di coscienza dell’interrogativo storicizzante particolare: perché questo discorso letterario a questa data? Poi si era posto quello che non poteva porsi se non come un affermativo, l’affermativo estetizzante della specificità o autonomia di un linguaggio, con la forza d’una tautologia che tuttavia rechi informazione: il discorso letterario è il discorso letterario. Ancora oggi, storicismo ed estetismo fruttificano uno accanto all’altro piú respingendosi che non integrandosi; si dànno come un caso di incompatibilità complementare. Ma la riprova – e il guaio – della loro oggettiva complementarità è che fin dall’inizio era rimasto mascherato nell’ovvietà, non meno dall’uno che dall’altro, l’interrogativo generale: perché un discorso letterario, in qualsiasi data?
Riguardo a quello che ho chiamato l’affermativo estetizzante, s’intende in quali condizioni un’apparente tautologia può recare informazione: finché alla singolarità che essa riafferma è mancato un riconoscimento esplicito. E non è un caso che fossero non pensatori, ma grandi scrittori (soprattutto francesi) quelli che nel secondo Ottocento riconobbero la specificità o autonomia del discorso letterario, dentro e contro una società la cui nuovissima, mostruosa efficienza era funzione della specializzazione di tutte le attività. La loro riserva specializzante sembra mimare a prima vista questa novità sociale: al punto da assumere nel piú conseguente fra tutti (Mallarmé) accenti paradossalmente corporativi. Ma il loro paradosso esplode come protesta non appena il settore che si vorrebbe isolare viene esaltato come rifugio di una totalità culturale perduta (valga ancora per tutti Mallarmé, in cui il rapporto sostitutivo arte-religione è tematico). Da allora l’atomizzazione della realtà borghese non ha cessato di accrescersi, mentre la riserva specializzante della letteratura non ha potuto che ripetersi, fino a versioni recentissime e attuali (la storia d’un secolo di rimestamento di spunti mallarmeani è da scrivere): sempre piú illusoria come novità, sempre piú irrisoria come protesta, sempre piú priva d’informazione come tautologia.
A sua volta, la conquista ottocentesca dello storicismo nella considerazione della letteratura fu dovuta piú a critici e studiosi che a pensatori. Ma neanch’essa va esente, seppure in senso diverso, da un immanente rischio di tautologia; o almeno da un pregiudizio di obbligatoria non-contraddizione. L’alternativa, nei casi meno fortunati, è tra un miraggio e un miracolo. Se si tratta, voglio dire, d’uno storicismo orientato verso l’esterno, attento al rapporto fra la letteratura e la società o la biografia o l’ideologia, suole trarre la sua legittimazione da una sorta di condanna a sopravvalutare ciò che nel rapporto è conforme su ciò che è difforme: ed è in pericolo di perdere il suo nome appena sfugge alla sua condanna. È allora il miraggio d’un rispecchiamento in specchi lisci, non deformanti; anzi neppure – come la metafora esigerebbe – capovolgenti. Se invece si tratta d’uno storicismo orientato all’interno, attento alla configurazione del discorso, non suole sfuggire a un circolo vizioso che metterei in termini di tradizione e creazione, codice e messaggio, langue e parole letteraria. L’opera singola rimanda al corpus di quelle preesistenti, il corpus preesistente si scompone in opere singole; e il perché si parli di ciò, e il perché se ne parli cosí, rimbalzano dalle une all’altro immotivati, o non motivabili, o da non motivare. È allora il miracolo d’una partenogenesi o d’una immacolata concezione, grazie a cui si va riproducendo da sé ciò che da sé si va modificando.
Per ragioni di divisione del lavoro intellettuale, né Freud né altri si sarebbero mai immediatamente accorti di una cosa: che, col sopravvenire delle scoperte di lui, veniva virtualmente smascherata l’ovvietà in cui era rimasto sepolto l’interrogativo generale sulla consistenza della letteratura. Che, cioè, diventava possibile rettificare l’affermativo della grande tautologia estetizzante sulla specificità o autonomia di essa, introducendovi informazione inedita, trasformandola in un’affermazione del tipo: la letteratura è... (qualcosa di non semplicemente identico a se stessa). Molto meno facile ancora era l’accorgersi che diventava possibile ricondurre correttamente l’interrogativo storicizzante particolare a quello generale o teorico, da cui dev’essere inseparabile; includere un minimo di consistenza permanente della letteratura, e un suo massimo di storicità caso per caso, in un unico gioco di costanti e varianti entro cui si spieghino a vicenda. La pretesa secondo la quale sarebbe a partire dalle scoperte di Freud che si riaprono di tali possibilità, suonerà senza dubbio sconcertante ancor prima che ambiziosa. Un po’ piú chiara, forse, in quanto è piú chiaro che nella psicanalisi freudiana sono in questione una psicologia e un’antropologia; piú oscura, in quanto è piú oscuro che sono in questione una semiologia e una logica. È bene dunque dichiarare subito quale scommessa metodologica, sull’opera di Freud, ha ispirato le pagine che seguono (come, da molti anni, il lavoro di chi scrive). All’opposto di quel che gli studiosi di letteratura interessati a Freud hanno fatto finora, è dalla psicologia e dall’antropologia in questione che credo ci si debba aspettare di meno; è dalla semiologia e dalla logica che credo ci si debba aspettare di piú. E l’aver ricavato questa convinzione da un’esperienza spontanea di studioso di letteratura mi parrebbe forse insufficiente, se non individuassi il maggior continuatore dell’opera teorica di Freud nell’ancor troppo poco famoso Ignacio Matte Blanco: il quale, in un libro capitale, ha spinto molto piú innanzi la definizione del cosiddetto inconscio su base logica-antilogica, di quanto non fosse mai risultato possibile finora su base energetica o topica1.
Negli ultimi vent’anni, l’incidenza culturale della psicanalisi sulla letteratura ha dato luogo a una moltiplicazione impressionante di contributi, punti di vista, questioni, materiali. Una moltiplicazione tale che non è facile dire in che misura il fenomeno sia benefico, nocivo o inutile; e tale, in ogni caso, da rendere inesauribile un’informazione completa. Nelle pagine che seguono dovevo cercare una conciliazione fra due esigenze, non certo incompatibili, ma ben distinte: il dovere di informare; il diritto (che ho già esercitato) di scegliere, prendere posizione, far posto a opinioni proprie. Ho trovato economico, allo scopo di conciliare queste due esigenze, ritagliare lo spazio disponibile secondo i «modelli» numerosi ed eterogenei – di incidenza tra psicanalisi e letteratura – che si ricavano in prima istanza dall’opera del solo Freud2. In prima istanza, ho detto: nella convinzione che la produzione ulteriore di modelli relativi, firmati da altri, sia non sempre riducibile, ma per lo piú riconducibile a – o, se no, esemplarmente differenziabile da – qualcuno dei modelli firmati dal primo maestro. È una scelta che garantisce un’informazione minimale diffusa, e facilita altre scelte silenziose. Ma la scelta che ne comanda ogni altra e sanziona ogni informazione è stata preannunziata, in favore d’un tentativo di coinvolgimento integrale del campo letterario entro il campo psicanalitico. E contro tutte le limitazioni, dunque, di tale coinvolgimento: le limitazioni predilette da coloro che lo gradiscono, facendone però il privilegio di certe forme o sostanze del contenuto o dell’espressione letteraria, e dimenticandosi di altre; le limitazioni opposte e non meno impenitenti presso coloro che lo subiscono, accettandolo al massimo come strumento, dall’applicabilità o dal rendimento non meno settoriali.
J. Lacan, al quale si possono (e nel nostro contesto si devono) rifiutare molti m...