Tecnobarocco
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Tecnologie inutili e altri disastri

  1. 200 pagine
  2. Italian
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Tecnologie inutili e altri disastri

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La tecnologia del terzo millennio non aiuta gli uomini a migliorare la loro esistenza né a ridurre gli impatti sul pianeta. Non è semplice, né utile e nemmeno educativa. Essa, totalmente slegata dalla radice scientifica, è - invece - fine a se stessa, «barocca», dannosa e insostenibile da un punto di vista ambientale. Viene spesso usata per rimediare ai danni perpetrati da una tecnologia precedente, incrementa i profitti basati sui bisogni indotti, accelera l'obsolescenza di oggetti e macchine, è costosa, fa perdere tempo. Attraverso molti esempi Mario Tozzi dimostra l'inutilità di bizzarri marchingegni che riteniamo indispensabili - e di cui potremmo fare a meno. D'altro canto, egli sottolinea l'utilità di quella tecnologia semplice che ha rappresentato un vero miglioramento nelle condizioni della vita degli uomini senza compromettere l'ecosistema Terra.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858418024

1.

Cultura tecnologica?

C’è davvero l’imbarazzo su quale esempio scegliere per iniziare questa critica della tecnologia barocca e degli insostenibili livelli raggiunti. E sono stato molto combattuto, perché la tecnologia moderna è una specie di totem inattaccabile e, se sbagli obiettivo ed esempi, rischi di produrre un male peggiore di quello generato dalle stesse esagerazioni tecnologiche. Se si vuole criticare la turbotecnologia, e non lo si fa per bene, allora quella tecnologia avrà vinto per sempre e anche gli elementi oggettivamente piú negativi verranno spezzettati nel frullatore di chi identifica i critici con i passatisti, nostalgici di un tempo che rimpiangono perché non amano confrontarsi con un futuro che, magari, li vedrebbe a disagio o perdenti. Non è il mio caso: in quanto ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche conosco e utilizzo le tecnologie piú moderne nel mio campo specifico, la geologia, dunque non posso essere imputato di passatismo. E non nutro alcuna nostalgia per un mondo medievale dove si moriva a quarant’anni e non c’erano né acqua corrente né bagno in casa. Ma procediamo con calma: comincerei con l’affrontare la questione delle questioni, quella culturale.
Sono in molti a credere che progresso tecnologico sia sinonimo di progresso culturale. Visto che la tecnologia avanza cosí speditamente ed è tanto comoda, ci sentiamo al riparo da eventuali fatiche che l’elaborazione culturale dovrebbe, invece, comportare. La conoscenza è un processo lungo che spesso costa fatica (e su questo tipo di fatica diremo piú in là), ma la tecnologia ci illude di poterlo saltare a piè pari, senza rinunciare ad ampliare il sapere. È possibile, invece, che la tecnologia abbia cambiato radicalmente il concetto stesso di cultura? E, oltre a registrarlo, possiamo stabilire se questo è meglio o peggio rispetto al passato?
C’è una legge generale della tecnologia che è stata sempre rispettata: ogni nuova tecnologia distrugge un pezzo di cultura preesistente. Qualche volta con la scusa di conservarla, quasi sempre col pretesto di migliorarla. In realtà questi pretesi avanzamenti non sono quasi mai tali e, una volta avviati, mandano perduto per sempre quanto si voleva migliorare. È una logica del tutto estranea ai sistemi naturali (cui in linea teorica apparteniamo) e all’evoluzione biologica, in cui i miglioramenti, per avere successo, devono essere realmente tali, altrimenti vengono presto abbandonati. Ora ci arriviamo.
È un caso di applicazione del cosiddetto principio di Anna Karenina che nasce dall’incipit di Tolstoj: «Tutti i matrimoni felici si somigliano; ogni matrimonio infelice è infelice a modo suo». Le invenzioni utili sono tutte uguali, quelle inutili sono inutili ciascuna a modo suo. Ma il successo di un’invenzione in sé è altamente improbabile, tanto che se ne deve subito inventare un’altra per sopperire all’insuccesso, almeno parziale, della prima. La nuova tecnologia nasce quasi sempre per rimediare ai danni delle tecnologie precedenti. E cosí via.

Evoluzione biologica vs evoluzione culturale.

Come è possibile che un sistema di videoregistrazione che abbia un’immagine meglio definita, un meccanismo di trascinamento del nastro (siamo negli anni Settanta-Ottanta) piú affidabile, la possibilità di duplicazione ad alta velocità e dimensioni ridotte possa perdere la battaglia per il mercato? Eppure questo è quanto effettivamente accaduto al sistema Betamax della Sony, rispetto al VHS, prima che tutto fosse travolto dalla rivoluzione digitale. Come a dire che nell’evoluzione tecnologica non agiscono meccanismi selettivi che favoriscono necessariamente i migliori, come invece avviene nell’evoluzione biologica. E che elementi meno adatti possono non solo sopravvivere, ma addirittura prevalere. Lo scrittore e giornalista Nicola Nosengo fa notare che il timer programmabile e un tasto che prevedeva di poter mettere in pausa la registrazione durante gli intervalli pubblicitari furono tra le cause della sconfitta del Betamax, pur essendo strumenti che favorivano l’utente. Inoltre il VHS aveva videocassette che duravano piú a lungo, costava molto meno e, già nel 1978, vendeva il doppio del Beta, che, comunque, continuava ad avere una qualità migliore dell’immagine registrata. Una sostituzione come questa sarebbe altamente improbabile in un sistema naturale.
È vero che le macchine possono essere classificate, esattamente come gli organismi viventi, e che si «evolvono» verso forme e sistemi sempre piú complessi, ma l’evoluzione tecnologica in cosa assomiglia e in cosa è diversa da quella biologica? Certo, in tecnologia non ci sono le specie isolate da un punto di vista «riproduttivo», anzi, l’ibrido è quasi la regola e non necessariamente l’obiettivo è quello di migliorare le condizioni di vita. George Basalla osserva che l’automobile non è affatto nata come risposta a un desiderio di mobilità che ponesse fine a uno stato di crisi. Come a dire che le macchine e gli strumenti non sono per forza soluzioni a problemi posti dall’ambiente. Non si tratta, insomma, di esigenze di sopravvivenza. O, almeno, non solo di quelle. In questo senso l’evoluzione tecnologica ricalca da vicino quella biologica, a patto che si comprenda esattamente di cosa si tratta e come si legano caso e necessità. Prendiamo per esempio il collo della giraffa: è cosí lungo perché le giraffe hanno cercato di raggiungere le foglie degli alberi piú alti o per altre ragioni? Potremmo pensare infatti che tutte le giraffe si siano progressivamente sforzate di raggiungere le fronde piú alte e per questo abbiano sviluppato i propri muscoli del collo in maniera cosí anomala. Ma come avrebbero fatto con le ossa, cioè con le vertebre? E come avrebbero fatto poi a consegnare questo miglioramento evolutivo alla propria discendenza? Non è che un genitore culturista genera figli già muscolosi alla nascita.
In realtà, agli inizi della loro storia su questa Terra, tutte le giraffe erano probabilmente a collo corto e solo qualcuna nasceva, ogni tanto, con il collo un po’ piú lungo. Ma quelle giraffe «anomale» non traevano alcun vantaggio dalla loro casuale mutazione genetica e campavano con un po’ piú di difficoltà delle altre nella savana, senza che i loro caratteri potessero diventare predominanti. Quando l’ambiente è cambiato e la foresta ha preso il posto della savana, allora quelle giraffe che casualmente avevano il collo piú lungo furono improvvisamente favorite, mentre le altre annaspavano. Cosí hanno iniziato a riprodursi con maggiore successo e sempre piú giraffe con il collo lungo hanno colonizzato quell’ambiente. Oggi tutte le giraffe hanno il collo lungo, ma ogni tanto ne nasce qualcuna con il collo piú corto che, però, non viene favorita e se ne rimane in disparte. Almeno fino al prossimo cambiamento ambientale. Lo stesso avviene per le pecore nere o gli umani albini: caratteri recessivi che non vengono premiati dall’ecosistema attuale.
In questo senso evoluzione tecnologica ed evoluzione culturale si assomigliano. Per esempio la ruota viene inventata circa 4000 anni prima dell’anno zero dell’Occidente, ma solo dopo un migliaio di anni viene usata per il trasporto delle merci, essendo stata adibita prima al solo uso rituale nelle processioni sacre. E per i popoli americani precolombiani la ruota era semplicemente inutile nella giungla e nella foresta, dunque non l’hanno mai utilizzata, anche se siamo sicuri che la conoscessero, perché compare in molti modellini e statuine in miniatura. Cioè a dire che non c’era un’esigenza universale di ruota, ma solo particolari condizioni locali che hanno portato a quell’invenzione. Inoltre si potrebbe, in prima approssimazione, sostenere anche che l’evoluzione delle macchine è un processo continuo e in qualche modo graduale, come quella biologica. E certamente non «avviene» solo per soddisfare bisogni legati alla condizione umana, ma si muove piú per caso, esattamente come l’evoluzione biologica.
Ma ci sono differenze profonde. La prima è che i miglioramenti acquisiti vengono trasmessi culturalmente alle generazioni successive e che un qualche elemento intenzionale nell’evoluzione tecnologica c’è, mentre è del tutto assente in quella biologica. Un’altra è la velocità: l’evoluzione tecnologica è enormemente piú veloce di quella biologica, e questo è un fattore cruciale su cui torneremo in seguito. E cosí torneremo sul fatto se, nell’evoluzione, la storia e il percorso fatto contino o no, e lo vedremo a proposito della tastiera del PC.

Enciclopedia vs Wikipedia (libro vs web).

Immaginiamo ora un confronto tra libri e web: qualcuno addirittura comincia a sospettare che un certo utilizzo della rete ci renda stupidi.
Esagerato? Proviamo a vedere.
Chi di noi non è molto soddisfatto delle sue ricerche in rete? Ma nessuno, ovviamente: in un paio di clic posso aggirarmi in quelle stanze della conoscenza che un tempo erano frequentate dai soliti eletti, giacendo gli altri nell’ignoranza piú assoluta. Oggi, invece, se voglio sapere quanti gol ha segnato Francesco Totti in carriera, lo scopro in un secondo e posso farmene giusto vanto al bar con gli amici. Ma non solo i gol: se non ricordo le date delle guerre puniche dei Romani, le trovo in un attimo, cosí come la capitale del Burkina Faso, o i primi versi de Il 5 maggio o di Vita spericolata. Niente male, davvero. Però non vi puzza già un po’ di bruciato? Se voglio dedicare dei versi d’amore alla mia fidanzata, posso aver orecchiato da qualche parte che Prévert è un poeta adatto allo scopo. Quindi clicco «poesie d’amore di Prévert» e mi appare prima qualche sito dedicato e poi l’immancabile Wikipedia, l’enciclopedia sul web, vantata come la vera declinazione del sapere per tutti, in cui vengo a conoscenza di quando è nato e morto Prévert, il cui nome era Jacques, e, subito appresso, di alcuni dei suoi versi immortali, per esempio:
Questo amore che impauriva gli altri
Che li faceva parlare
Che li faceva impallidire
(da Questo amore, peraltro con testo quasi a fronte, però quello è in francese...) Copio i versi che mi piacciono di piú, scrivo una mail alla mia tipa, o uso WhatsApp, e glieli incollo facendola felice. Perfetto, no? Non tanto.
Per prima cosa quei versi sono già stati selezionati per te da altri, ma, diversamente da quanto accadeva con le vecchie antologie libresche, il curatore è un fantastico signor nessuno, non un Natalino Sapegno o un Salvatore Guglielmino... Per la precisione, il curatore è la rete, che indirizza su quel sito che appare per primo la maggior parte dei link (ma su questo torniamo dopo). Infine, molto spesso, il resto del componimento poetico non viene nemmeno riportato per esteso, c’è solo la frase di maggior presunto effetto. Cosí viene del tutto a mancare la ricerca all’interno del libro di poesie integralmente riportato, ricerca da cui viene fuori il contesto del poeta, l’ordine in cui ha voluto mettere le sue liriche, lo stile che emerge piano piano dalla lettura, la soddisfazione di scoprire particolari inconsueti e arrivare a comprendere che è la poesia che legge dentro il tuo animo e non tu che leggi lei.
Invece, niente di tutto questo: qualche clic e pensi di aver capito, e magari imparato, Prévert (prego, passiamo al prossimo, chi è, Neruda? Il nome non mi dice granché...) Le ricerche rapide in internet per reperire i versi di una poesia – ma vale anche per vedere un dipinto – e trovarli piú rapidamente possibile, non aiutano la crescita culturale (almeno intesa nel senso tradizionale), la danneggiano. Si isolano le frasi dal contesto, non si comprende il valore della ricerca in sé, si tradisce il pensiero dell’artista. Addirittura si arriva alla compilation poetica che isola frasi celebri ma non consente di capire. Si perde il suono complessivo che viene dato solo dalla lettura dell’intera poesia, compresi i versi che si sono saltati e che, magari non ricorderemo lo stesso, ma avremmo saputo che c’erano. Tutto per essere piú veloci. Nel sunto dei sunti della rete vengono eliminati. Allo stesso modo la ricerca rapida di immagini non può in alcun modo sostituire il lavoro culturale che c’è dietro a una mostra d’arte.
Lo stesso accade per la prosa. Vado a vedere Il tè nel deserto e orecchio qualcosa a proposito del fatto che la nostra vita non è un pozzo senza fine da cui attingere, ma che i momenti davvero significativi, i panorami piú straordinari, le emozioni piú forti sono limitati di numero, non sono infiniti. Mi piace l’idea, ma, invece di acquistare il libro di Paul Bowles, vado in rete, clicco «Paul Bowles Il tè nel deserto frasi» e, tac, ecco fatto: mi compare un brano del libro che mi restituisce il concetto:
Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile; però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è cosí profondamente parte di voi che senza neanche riuscireste a concepire la vostra vita – forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna – forse venti – eppure tutto sembra senza limite.
Solo quello, però. Cosí mi sarò illuso di averlo addirittura letto, Il tè nel deserto, e nulla piú saprò, nemmeno che il titolo originale The Sheltering Sky (Il Cielo che [ci] protegge), da solo, mi avrebbe consentito di intuire meglio la filosofia dell’autore. Hai letto Il tè nel deserto? Sí, lo 0,0000001%, ma ho capito quello che conta.
Però, se non volete essere cosí veloci, alla fine, riuscirete a trovare anche le poesie intere e a mettere giú un sacco di informazioni su Jacques Prévert, non quelle contenute in un’onesta biografia, non è quello del resto il vostro scopo, ma sufficienti a comporre un quadro significativo. Piú o meno (un po’ meno, in verità) le stesse informazioni che avreste potuto ottenere in una biblioteca o acquistando libri consigliati da chi ha studiato il poeta. Ma, a quel punto, si palesa improvvisamente uno scoglio sommerso, che quasi nessuno vede: come faccio a sapere se è tutto vero? È il problema cruciale della fonte: già, da dove vengono le informazioni del sapere circuitate sulla rete? Voglio dire, non gli orari dei traghetti e dei treni, che quel compito internet lo assolve benissimo: figurati a recuperare, e portarsi appresso, il vecchio orario delle Ferrovie dello Stato italiane, scritto piccolissimo. Per questo tipo di informazioni internet è stata una conquista epocale, una tecnologia davvero utile. Parlo delle informazioni relative al sapere scientifico e umanistico, una delle basi della cultura personale, insomma. Nessuno lo sa bene e, a parte i siti certificati degli istituti di ricerca piú illustri e famosi o delle Università, ho il dubbio che l’illusione di una cultura di base facile da conseguire e disponibile per tutti resti soltanto un’illusione. Intanto, per cominciare, la cultura dovrebbe essere altra cosa dall’erudizione pura e semplice, ma, si può obiettare, questa confusione esiste lo stesso con i libri. Con la rete, però, si rischia di confonderle sempre di piú. Si possono sapere un sacco di cose, ma restare incolti, ovviamente.
Poi dobbiamo essere sicuri delle credenziali di chi scrive, per sapere se una certa notizia, dato o affermazione sono veri oppure no. E questo nella rete mondiale non è sempre possibile. Nel caso di Wikipedia semplicemente quasi mai (tanto che in molte voci si legge di prestare attenzione perché si tratta di definizioni le cui fonti non sono verificate; e le altre? Chi le ha verificate? E dove?) Per non parlare di alcune definizioni per cosí dire incongrue sparse qua e là. Per esempio Caterina, che diventa «un’imperatrice tedesca naturalizzata russa» e Gesú, «un predicatore ebreo e/o un profeta palestinese» (che a pensarci bene non è nemmeno cosí lontano dalla realtà ricostruita...) In buona sostanza voglio dire che se consulto l’Enciclopedia Treccani so esattamente di cosa si tratta, chi sono gli autori e l’Istituto che la certifica. Posso faticare a trovare la cosa che mi interessa (i tomi sono parecchi e pesano), ma quando la trovo sono certo dell’informazione. Se navigo in rete non devo stare tranquillo nemmeno sul numero dei gol di Francesco Totti, perché non si sa da quale fonte provengano, e, se ci sono errori, chi se ne accorge? Di piú: in rete gli errori si amplificano senza controllo e non vengono cancellati tanto facilmente, anzi si portano tipicamente appresso e vengono ridondati da siti che citano altri siti sbagliati. Il sito che vi è apparso per primo in risposta alla vostra richiesta potrebbe essere stato in cima alle citazioni e ai link, ma pieno zeppo di imprecisioni ed errori. E quello che appare per secondo essere un semplice copia e incolla del primo, solo di un «autore» diverso. Cosí la fatica si raddoppia: invece di fare solo una ricerca sull’enciclopedia ne devo fare due, una in rete (piú lunga e piú lenta di quanto prevedessi) e la seconda sui libri per verificare se la prima è vera. Parlo qui di utenti comuni della rete, non di smaliziati «smanettoni», ma proprio di quelli cui la conoscenza democratica di base della rete dovrebbe essere destinata, quelli che usano il PC come una macchina per scrivere migliorata e la rete seguendo poche operazioni sempre uguali. Peraltro internet nasce come derivato della necessità dei ricercatori del CERN di Ginevra di condividere rapidamente il flusso dei risultati degli esperimenti del grande acceleratore di particelle che avrebbero poi portato alla scoperta del bosone di Higgs, non esattamente per conoscere la carriera dei calciatori.
Forse ancora piú criticabile è il processo, tipicamente indotto dalla tecnologia digitale della rete, del copia e incolla. Un tempo anche le ricerche dei ragazzi necessitavano almeno della comprensione di ciò che si sarebbe poi riassunto per comporre il proprio lavoro, corredandolo di immagini scelte ritagliandole o, addirittura, ridisegnandole da altri testi. Oggi è sufficiente una rapida scorsa per copiare il brano di testo o l’immagine e conciarli in un patchwork spesso inconsistente, fondato su basi incontrollate e privo di qualsiasi cifra personale. Ne derivano ricerche tutte uguali, e spesso con gli stessi errori, a qualsiasi livello scolastico fino anche all’Università. Dopo lo tsunami nel Sudest asiatico del 2004, in molti articoli e resoconti, venivano allegate immagini di ondate gigantesche che lambivano la cima di grattacieli. Immagini verosimili, ma false, visto che, al massimo, si raggiunsero i 20 metri d’onda. Quelle immagini sono in rete ancora oggi: chi lo spiegherà che sono false a chi ha costruito la sua informazione solo sul web? Viene quasi da pensare che sarebbe stato meglio non avere alcuna immagine. Ci sono molte lacune nella nostra ignoranza, è vero, ma cosí rischiamo di incrementarle ulteriormente in un tipico effetto Dunning-Kruger (1999): chi è incompetente non sa di esserlo e si spinge fino alla mancanza di quella basilare abilità metacognitiva di rendersene conto. Come a dire che non c’è peggiore ignoranza di quella che riguarda la nostra coscienza (ma questo è Platone) e che la rete amplifica questo fenomeno a dismisura.
Certo, la rete è imbattibile per sapere al volo che tempo farà in Patagonia meridionale fra mezz’ora. O se ci sono intagliatori d’ebano nelle vicinanze. Ma fa perdere quel tempo che pensavi di guadagnare, e può essere diseducativa, per conoscere la poetica di Guido Cavalcanti o le ragioni della guerra civile spagnola. Ed è piú faticosa e, in definitiva, se cerchi autorevolezza e completezza, quasi piú lenta della ricerca sui libri. Ecco perché qualcuno afferma che internet non ci rende affatto piú colti o piú intelligenti, ma soltanto piú stupidi. È un assaggio rapido e distratto di molti saperi organizzati su piani orizzontali, senza alcun approfondimento verticale. Al suo cospetto, il libro suscita un pensiero molto piú profondo e creativo, anche ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Tecnobarocco
  3. Tecnologia mistica del WC giapponese
  4. 1. Cultura tecnologica?
  5. 2. Strumenti & materiali
  6. 3. Trasporti & movimenti
  7. 4. Vita quotidiana metropolitana
  8. 5. Grandi tecnologie
  9. La vita fino a ieri
  10. Piccola bibliografia consigliata.
  11. A mio figlio Mattia
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Copyright