1. Antropologia immunitaria.
La categoria che collega teologia ed antropologia, all’interno del medesimo lessico immunitario, è quella di ‘compensazione’. Che tale collegamento assuma esso stesso la forma compensativa di una sostituzione dell’umano al divino costituisce ulteriore conferma del rilievo centrale del concetto. Come argomenta Odo Marquard – cui va il merito di averlo esplicitamente riproposto all’attenzione – perché l’antropologia potesse succedere alla teologia nell’autointerpretazione dell’uomo, doveva ereditarne la funzione compensatoria fino ad allora svolta dal mitologema della teodicea:
L’antropologia attuale determina l’uomo essenzialmente come un essere scampato all’imperfezione, che è capace di esistere soltanto grazie a compensazioni, in quanto homo compensator. La situazione moderna e quella contemporanea dell’antropologia filosofica si collocano significativamente sotto il segno dell’idea di compensazione, vale a dire sotto il segno di un motivo di teodicea caratteristico della filosofia moderna1.
Come si è già visto nel capitolo precedente, se l’estrema giustificazione di Dio per la presenza del male nel mondo viene ad un certo punto individuata nella circostanza che egli non esiste, ciò vuol dire che l’uomo si carica in prima persona dell’incombenza di pareggiare i conti con il negativo che ne segna l’esperienza. Esattamente a questa funzione di pareggiamento – che riporti in equilibrio i piatti di una bilancia squilibrati dal ‘peso’ di un debito, di un difetto, di una mancanza – allude, anche etimologicamente, il paradigma di compensazione. Esso ha il significato di reintegrazione di un ordine infranto, di restituzione di un bene sottratto, di indennizzo di un danno subíto o provocato. Come, infatti, ha provato Jean Svagelski in una dettagliata, e ormai indispensabile, ricostruzione semantica della categoria2, l’idea di compensazione – successivamente translata in settori diversi, che vanno dalla cosmologia alla psicoanalisi – ha un’originaria valenza economico-giuridica. Anche a prescindere, del resto, dalla connotazione via via assunta dai suoi derivati nelle principali lingue moderne – si pensi, per esempio, al termine Ausgleich, adoperato per la giustizia commutativa o riparatrice (ausgleichende Gerechtigkeit) – già la compensatio latina allude ad una remunerazione, giuridicamente definita, che regola la contrattazione tra le parti; o, ancora piú precisamente, ad una pratica legale di estinzione delle obbligazioni codificata nel VI secolo dal Digesto: «Compensatio est debiti et crediti inter se contributio»3. Si può anzi dire che dalle Istitutiones di Gaio (4.66) fino alla formulazione del Codice Civile Napoleonico il significato economico-giuridico del termine rimanga assolutamente stabile. Al punto che anche la sua adozione teologica, da parte dei Padri della Chiesa, ne resta visibilmente segnata, se già ben nove secoli prima della dottrina della satisfactio riparatoria formulata da Anselmo (Cur Deus homo?, 2.18), Tertulliano poteva interpretare il sangue di Cristo come atto di compensazione giuridica rispetto allo scompenso prodotto dal peccato dell’uomo: compensatione sanguinis sui (Apologeticum, 50.15).
Ora ciò che in questo transito semantico tra economia salvifica e regolazione normativa va rilevato – perché ritornerà in primo piano nell’antropologia filosofica – è il carattere negativo della categoria. Compensazione non è mai, propriamente, un atto affermativo, positivo, originario – ma piuttosto derivato, indotto, provocato dalla necessità di negare qualcosa che a sua volta contiene una negazione. Anziché un’azione, una reazione – un contraccolpo, o una controforza, rispetto a un colpo da parare o a una forza da neutralizzare in una forma che ristabilisca l’equilibrio iniziale. Essa comporta sí un guadagno, ma mai disgiunto dalla perdita che deve reintegrare: piú che una vincita, è una non-perdita, la perdita di una perdita, l’assentarsi di un’assenza. Certo, rispetto alla diminuzione cui replica, ha un segno ‘piú’ – ma costituito dalla sottrazione di quel ‘meno’. È il piú che risulta dal prodotto di due meno: un non-meno. Il venir meno di un meno. Se – come si esprime lo stesso Marquard – «compensazione significa colmare situazioni di mancanza tramite azioni surrogatorie o atti di risarcimento»4, essa implica, e riproduce, ciò che intende supplire. Cos’altro è, infatti, il surrogato, o la protesi, se non un dispositivo che sostituisce una presenza ribadendone in questo modo l’assenza? Anche in senso piú strettamente giuridico, perché ci sia perdono, o condono, deve esserci stato un danno – il negativo di un dono – da sanare. Non solo: ma secondo una modalità che in qualche modo lo porta dentro, come appunto avviene in tutti i condoni o le amnistie – che non cancellano il reato, ma semplicemente lo sciolgono dalla pena che esso comporterebbe e cosí lo confermano. O come accade anche – per passare ad un altro ambito che ci porta ad immediato ridosso della semantica immunitaria – in tutte le medicazioni, che coprono e leniscono la ferita senza per questo eliminarla e anzi mettendola ancora di piú in risalto:
«Compensare (compenser) – osserva Svagelski – è come curare (panser) una piaga. La ferita è ricoperta, è mascherata per essere medicata; essa rimane sotto la medicazione e non scompare per questa. La medicazione l’addolcisce, la calma (dopo tutto la compensazione ha una funzione consolatrice), ne aiuta la cicatrizzazione ma nello stesso tempo la sottolinea e le conferisce un’altra realtà. D’altra parte ogni maschera smaschera. Detto in altre parole, la cosa che compensa un’altra cosa ne opera la mutazione, volendola nascondere la esibisce e l’installa nella differenza stessa…»5.
Ora è esattamente questa persistenza del negativo nella forma della sua ‘cura’ il punto di incrocio immunitario tra il paradigma di compensazione e quella modalità di sguardo sull’uomo che nel corso degli ultimi due secoli ha assunto il nome di antropologia filosofica. Perché esso potesse fissarsi teoricamente occorreva che si determinasse una doppia condizione preliminare. Intanto il transito della logica compensatoria da un equilibrio statico ad uno dinamico. E in secondo luogo il suo incontro con l’orizzonte della vita. In realtà non si tratta di due questioni diverse, dal momento che nulla come la vita organica – il problema della sua conservazione – rimanda ad un equilibrio mobile: ciò che in essa va conservato non è un dato, ma un processo, uno sviluppo, una crescita. Ad essere stabilizzato è il movimento. Non a caso allorché Pierre-Hyacinthe Azaïs – autore all’inizio dell’Ottocento del testo forse piú emblematico sulla compensazione6 – sostiene che l’eguaglianza tra azione e reazione non è di tipo sincronico, bensí diacronico, e dunque misurabile solo in termini globali, ricorre ad un’esemplificazione di carattere bio-medico:
… quando nell’organismo un organo importante è alterato, la vita non può conservarsi che per l’effetto di diverse compensazioni: gli organi sani cedono una parte delle loro forze all’organo alterato o prendono a loro carico le funzioni che questo non può piú adempiere … Tutte le malattie sono delle decompensazioni. Bisogna quindi compensare gli eccessi di espansione che determinano le malattie acute mediante calmanti, e gli eccessi di compressione che causano le malattie croniche mediante eccitanti7.
È qui che la semantica della compensazione slitta in quella, piú complessa e pregnante, della immunizzazione. Quando si allude all’autoregolazione interna dell’organismo mediante scambio di funzioni tra parti sane e parti malate, non si sta piú di fronte ad un semplice bilanciamento dall’esterno di un negativo con un positivo, ma alla positivizzazione del negativo stesso. In gioco non è piú una misurazione, o una ponderazione, ma un intreccio e una sovrapposizione tra forza e debolezza: un indebolimento di forza funzionale al rafforzamento di una debolezza e viceversa. In questo caso il negativo non è soltanto pareggiato, ma adoperato – reso produttivo – ai fini della sua stessa neutralizzazione. È per questo che, contrariamente a quanto pensarono da parte opposta Adorno8 e Heidegger9, l’antropologia novecentesca non è per nulla la continuazione, o l’estenuazione, dell’umanesimo – ma il suo rovescio. Ciò in cui essa si riconosce non è il raddoppiamento dell’uomo su se stesso – ma la piega, o la piaga, che lo rapporta all’altro da sé. Al suo centro assente, come intuí Michel Foucault allorché individuò il «posto del re» che la modernità conferiva all’uomo esattamente nello spazio scoperto del suo impensato «un po’ come l’ombra riportata dell’uomo mentre sorge nel sapere; un po’ come la macchia cieca a partire da cui è possibile conoscerlo»10: quell’ombra, e quella macchia – il profilo acuto del negativo – che nessun umanesimo riuscí a pensare, precludendosi cosí la possibilità di pensare l’umano stesso. È questo il passo avanti, anzi laterale, compiuto dall’antropologia nel momento in cui cerca l’uomo non in ciò che egli è, ma in ciò che non è. Intanto in un ‘non’ esterno, nella differenza che lo ritaglia rispetto a ciò che appunto l’uomo non è – animale o dio. Ma anche, e soprattutto, in un ‘non’ interno, nel ‘non’ che egli è – che lo costituisce in quanto tale rendendolo mai coincidente con se stesso: la frattura, o la faglia, dentro la quale egli scivola come in un dirupo ai cui bordi invano si aggrappa. Invano non solo perché piú egli si affanna a raggiungersi, tanto piú è afferrato, e internamente scavato, dalla propria distanza da sé – da un vuoto che lo insegue e precede fino a fare tutt’uno con il suo stesso movimento. Ma, piú a fondo, perché proprio in quella distanza e in quel vuoto l’antropologia individua il riparo che può conservarlo in vita.
Al di là di tutte le critiche opposte e complementari – di idealismo e di empirismo, di spiritualismo e di biologismo – cui l’antropologia filosofica è stata nel corso del tempo sottoposta, è in questa dialettica immunitaria che essa trova la sua cifra piú appropriata. Nell’assunzione del negativo come l’unica forma che può proteggere l’uomo dalla sua stessa negatività. E ciò sia nel senso gnoseologico che l’uomo non può conoscersi direttamente, attraverso determinazioni positive, ma solo obliquamente e per contrasto; sia, ancora di piú, nel senso biologico – ma si dovrebbe dire bio-ontologico – che la sua vita non è in grado di durare se non proiettandosi fuori di sé, in qualcosa di esterno che la blocca e in ultima analisi la nega. Senza questa esteriorità che la oggettiva in forme che sono altro dal suo semplice darsi, dalla sua presenza immediata, la vita non sopravvive a se stessa. La sopravvivenza implica un controllo della forza vitale che finisce inevitabilmente per ridurne l’intensità. Essa non scaturisce liberamente dal flusso della vita ...