Tre secondi
  1. 672 pagine
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Poche volte un romanzo ci aveva fatto percepire il mondo con un senso cosí straziante del pericolo, e con un desiderio cosí struggente della vita normale.
E poche volte un intreccio narrativo è stato cosí ben condotto.
Piet Hoffman, nome in codice Paula, è da anni un infiltrato per conto della polizia svedese. Ma Piet è anche un uomo qualunque, che ama sua moglie e accompagna a scuola i due bambini. Per stroncare il traffico di stupefacenti di una mafia dell'Est, è costretto a entrare da criminale in un carcere di massima sicurezza. Ma qualcosa va storto.
A Piet, assolutamente solo, braccato a ogni passo, sembra non essere rimasta scelta. Se vuole proteggere la sua famiglia, deve diventare criminale in tutto e per tutto. Intorno a lui si muovono Ewert Grems, vecchio commissario cocciuto di Stoccolma, poliziotti che si addestrano in America, killer senza frontiera, gangster polacchi all'assalto dell'Occidente, politici spaventati che non esitano di fronte al crimine. Il lato piú oscuro della società alza un muro impenetrabile, davanti a un uomo solo, alla sua paura. Recita la tua parte, Paula. Recita la tua parte o muori.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858417751

Terza parte

Lunedí

Gli stavano addosso.
Due agenti gli premevano sulla schiena, altri due lo tenevano d’occhio di fronte, a pochi centimetri di distanza; lo spazio era cosí angusto che sentiva il loro alito caldo e umido sul collo, le orecchie, gli occhi, le narici.
Erano stati avvisati.
Gli agenti della polizia penitenziaria che erano andati a prenderlo al centro di detenzione di Kronoberg avevano letto la sentenza a carico di uno dei criminali piú pericolosi di Svezia e avevano sentito i colleghi raccontare di come, dieci giorni prima, dopo l’arresto in una sala da biliardo in Sankt Eriksgatan, un ricercato di nome Hoffmann avesse osato sputare in faccia a un poliziotto e minacciarlo di morte.
Lo condussero fuori dallo stretto ascensore nel garage blindato sotto il parco di Kronoberg e lo fecero salire sul pulmino che l’avrebbe trasportato nel carcere di Aspsås. Erano in quattro, due piú del solito, e il detenuto indossava manette e cavigliere di acciaio, per precauzione.
Era uno di quelli che odiavano tutto e tutti, e usavano quel poco di cervello che avevano per importunare chiunque in maniera violenta. Ne avevano visti negli anni di tipi come lui, brutali delinquenti il cui unico scopo era dar sfogo alla propria aggressività. Gli agenti non lo persero di vista un solo istante nel breve tratto fra l’ascensore e il pulmino: era lí che aveva sputato al collega, ricevendo in cambio un bel calcio nei testicoli quando tutti avevano guardato dall’altra parte.
Erano preparati a qualunque reazione, e a rispondere fulmineamente.
Mentre raggiungeva il veicolo e saliva, il prigioniero che aveva fama di violento e imprevedibile non disse una parola. Si sedette su uno dei sedili posteriori e rimase in silenzio finché l’autista non si diresse verso la guardiola e l’uscita dell’autorimessa sotterranea in Drottningholmsvägen. Poi, sbottò.
– Tu dove cazzo vai?
Quando Hoffmann era stato spinto sul pulmino, aveva scoperto di non essere l’unico passeggero: c’era un altro detenuto seduto su un sedile, indossava gli stessi indumenti informi con il logo del sistema penitenziario sul petto. Lo aveva fissato con insistenza e aveva atteso che gli restituisse l’occhiata.
– Österåker.
Un altro carcere a nord di Stoccolma. Accadeva spesso che dal centro di detenzione partissero contemporaneamente piú detenuti destinati a strutture diverse.
– E per cosa cazzo sei stato condannato?
Hoffmann non ricevette risposta.
– Cos’è, sei sordo? Per cosa cazzo ti hanno condannato?
– Molestie.
– Quanto ti hanno dato?
– Dieci mesi.
Gli agenti si scambiarono un cenno. Cosí non andava bene.
– Dieci mesi. Ci avrei scommesso. In genere non si allargano con quelli come te, le teste di cazzo che gonfiano la tipa.
Hoffmann aveva abbassato la voce e aveva cercato di spostarsi piú vicino, mentre il pulmino oltrepassava la garitta e la sbarra continuando verso nord in Sankt Eriksgatan.
– In che senso?
Il prigioniero diretto a Österåker si era reso conto che il tono di Hoffmann era cambiato e, intuitane l’aggressività, si era istintivamente ritratto.
– Nel senso che sei uno di quelli a cui piace picchiare le donne. Uno di quelli che a me danno un gran fastidio.
– Ma come cazz... come cazzo fai a saperlo?
Piet Hoffmann sorrise debolmente. Aveva indovinato. Capí che i secondini li stavano ascoltando, era quel che voleva: dovevano sentire tutto e poi spargere la voce sul detenuto che aveva provocato tanto da farli intervenire.
– I cagasotto di merda come te li riconosco da lontano.
Ascoltavano tutto e Piet Hoffmann era certo che non avessero piú dubbi. Non era la prima volta che si trovavano in una situazione simile: era sempre rischioso trasportare stupratori o criminali che si erano macchiati di reati sessuali insieme agli altri detenuti. Parlò tranquillamente, lo sguardo rivolto ai sedili anteriori.
– Ragazzi, vi do cinque minuti. Solo cinque.
Si voltarono e il secondino sul sedile del passeggero stava per rispondere quando Hoffmann riprese.
– Cinque minuti per far scendere questo stronzo. Altrimenti… qua dentro ci sarà un po’ di casino.
Piú tardi avrebbero parlato con altre guardie.
Avrebbero sparso la voce, fuori e dentro le mura.
In fin dei conti, era una questione di potere e rispetto. Recita la tua parte o muori.
L’agente di custodia che stava per reagire emise un sospiro profondo, poi mandò un messaggio via radio in cui richiedeva immediatamente una volante di supporto al pulmino della polizia penitenziaria fermo nei pressi di Norrtull: un prigioniero doveva essere scortato a Österåker in auto.
Prima di allora Piet Hoffmann non era mai stato all’interno del penitenziario di Aspsås. Da una torre campanaria aveva mappato ogni singolo edificio di cemento ed esaminato le sbarre davanti a ogni finestra, con l’aiuto di Erik si era procurato informazioni su quelli che sarebbero stati i suoi compagni di cella e sul personale in servizio su tutti i piani dell’ala G, ma quando i pesanti cancelli di ferro si aprirono e il pulmino si avvicinò all’unità di accettazione per Piet fu il primo vero incontro ravvicinato con una delle tre carceri di massima sicurezza del Paese. Non era facile muoversi con la cavigliera stretta e pesante, ogni passo era troppo breve e il metallo affilato gli tranciava la pelle. Due secondini dietro di lui, e due davanti, gli indicarono la porta a sinistra dell’ingresso dei visitatori che conduceva direttamente alla sala di accettazione, dove c’erano altre guardie per i controlli di rito. Lo liberarono dalle manette e dalla catena alle caviglie, cosí che potesse muovere liberamente braccia e gambe, poi lo fecero svestire e piegare in avanti per l’ispezione: sentí una mano protetta da un guanto di plastica che s’infilava nell’ano, mentre un’altra gli passava le dita nei capelli come un pettine e una terza gli palpava le ascelle.
Gli diedero nuovi indumenti, altrettanto brutti e informi di quelli che indossava prima, e lo fecero spostare nella sala di attesa sterile, dove si sedette su una sedia di legno e si mise a fissare nel vuoto.
Erano trascorsi dieci giorni dall’arresto.
Per ventitre ore al giorno era stato disteso su una branda dietro una porta di metallo con uno spioncino che dava sul corridoio del centro di detenzione. Cinque metri quadrati. Niente visite, giornali, tv o radio. Un periodo di isolamento forzato, che avrebbe dovuto piegare il suo orgoglio e convincerlo a collaborare.
Si era abituato ad avere accanto qualcuno; aveva dimenticato quanta nostalgia potesse generare la solitudine.
Gli mancava cosí tanto.
Si chiese che cosa stesse facendo in quel momento, cosa avesse addosso, di cosa profumasse la sua pelle, se i suoi passi fossero lunghi e calmi o corti e nervosi.
Zofia. Con lei, forse, era già tutto finito.
Le aveva detto la verità e adesso lei era libera di farne quel che voleva, ma lo terrorizzava il pensiero che, tra due mesi, avrebbe potuto non esserci piú. Senza di lei, senza la nostalgia, lui non era niente.
Fissava le pareti bianche della sala di attesa da quattro ore quando due secondini del turno di giorno aprirono la porta e gli comunicarono che gli era stata assegnata una cella sul lato sinistro dell’ala G2: era lí che avrebbe iniziato a scontare la sua lunga pena. I due agenti, uno davanti e l’altro dietro, lo scortarono attraverso una larga galleria che passava sotto il cortile della prigione, un centinaio di metri su un pavimento e tra mura di cemento che conducevano a una porta in metallo chiusa a chiave sorvegliata da una videocamera, poi un altro tunnel piú breve e una scala ripida su fino all’ala G.
Si era lasciato alle spalle l’isolamento coatto nel centro di detenzione di Kronoberg e un processo per direttissima che si era svolto esattamente come aveva anticipato a Henryk e al vicepresidente esecutivo.
Aveva ammesso che i tre chili di anfetamine nella borsa erano suoi.
Aveva risposto di no quando il Pubblico ministero gli aveva chiesto se fosse coinvolto qualcun altro.
Non si era opposto alla sentenza; anzi, l’aveva subito sottoscritta e, cosí facendo, aveva evitato di dover aspettare che diventasse esecutiva.
Già ventiquattr’ore dopo lo avevano trasferito nel carcere di Aspsås, dove adesso stava raggiungendo la sua cella attraverso un complicato sistema di passaggi sotterranei.
– Vorrei richiedere sei libri in prestito.
La guardia che gli camminava davanti si fermò.
– Che cosa?
– Vorrei prendere in prestito...
– Sí, ho sentito cos’hai detto. Speravo solo di aver capito male. Sei qui da un paio d’ore, non hai nemmeno fatto in tempo a entrare nella tua cella, e mi chiedi dei libri?
– È un mio diritto, lo sa benissimo.
– Ne parliamo piú tardi.
– Ne ho bisogno. Non posso farne a meno. Senza libri, qui non sopravvivo.
– Piú tardi.
Non hai capito.
Non sono qui per scontare una schifosissima pena.
Sono qui perché, tra pochi giorni, annienterò la concorrenza e assumerò il controllo totale dello spaccio di droga nei reparti di questa fottuta prigione.
E poi andrò avanti con il mio lavoro finché non avrò accumulato tutte le informazioni di cui ho bisogno per estirpare alla radice un intero ramo del crimine organizzato polacco, per conto della polizia svedese.
Non credo che tu l’abbia capito.
Il reparto era vuoto quando arrivò di fronte alla sua cella, stretto fra due secondini giovani e parecchio agitati.
Erano passati dieci anni, e il penitenziario in cui si trovava ora era completamente diverso. Eppure, gli sembrò di essere tornato indietro ai tempi di Österåker, allo stesso reparto e al corridoio con otto celle su ogni lato, la cucina ben attrezzata, l’angolo con la tv, le carte da gioco e i quotidiani stropicciati, il tavolo da ping-pong con la rete rotta relegato nel deposito angusto e quello da biliardo con la copertura in feltro ormai sudicia. Perfino l’odore era simile, un misto di sudore, polvere, angoscia e adrenalina, guarnito da un debole tanfo di marciume.
– No...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Tre secondi
  3. Prima parte
  4. Seconda parte
  5. Terza parte
  6. Quarta parte
  7. Quinta parte
  8. Nota degli autori
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright