Privati del patrimonio
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Privati del patrimonio

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Privati del patrimonio

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Sono vent'anni che, in Italia, la politica del patrimonio culturale si avvita sulla diatriba pubblico-privato: brillantemente risolta socializzando le perdite (rappresentate da un patrimonio in rovina materiale e morale) e privatizzando gli utili, in un contesto in cui le fondazioni e i concessionari hanno finito per sostituire gli amministratori eletti, drenando denaro pubblico per costruire clientele e consenso privati. Ma cosa ha significato, in concreto, la «valorizzazione» (o meglio la privatizzazione) del patrimonio? Quali sono la storia e i numeri di questa economia parassitaria, che non crea lavoro dignitoso e cresce intrecciata ai poteri locali e all'accademia piú disponibile? Ed è vero che questa è la strada seguita nei grandi paesi occidentali? Tomaso Montanari risponde a queste e altre domande spiegando perché non ci conviene distruggere il governo pubblico dei beni culturali basato sul sistema delle soprintendenze: un modello che va invece rafforzato e messo in condizione di funzionare, perché è l'unico che consente al patrimonio di svolgere la sua funzione costituzionale. Che è quella di renderci piú umani, piú liberi, piú uguali.

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Informazioni

Capitolo ottavo

«Non abbiate paura dello Stato!»

Lo Stato può e deve portare l’uomo – col suo concorso, s’intende – alla felicità: perché lo Stato ha per fine il bene comune ... Non bisogna avere paura dello Stato.
GIUSEPPE DOSSETTI, Non abbiate paura dello Stato!
Funzioni e ordinamento dello Stato moderno, 1951.
«Lo Stato ha per fine il bene comune»: chi sarebbe disposto a sottoscrivere oggi la certezza di Giuseppe Dossetti, che è la sintesi perfetta dei dodici articoli che contengono i principî fondamentali della Costituzione?
Abbiamo un drammatico bisogno di ripensare il ruolo dello Stato, a tutto tondo. E anche di ripensarne l’azione come attore fondamentale del governo del patrimonio: una direzione diametralmente opposta a quella invocata (quasi) all’unanimità dalla classe politica italiana. E per ripensare lo Stato è indispensabile porsi una domanda fondamentale: rinunciando allo Stato, a che cosa rinunciamo? Ammettiamo che sia possibile mantenere tutto il patrimonio culturale pubblico esclusivamente con il mecenatismo privato di milionari illuminati. Un simile approdo sarebbe desiderabile? La funzione del patrimonio rimarrebbe quella costituzionale, che è favorire il pieno sviluppo della persona umana e creare uguaglianza sostanziale attraverso la produzione di conoscenza? E quali sarebbero le conseguenze di tutto questo sulla nostra vita democratica?
In Italia il sostantivo “mecenate” si usa almeno dai tempi di Boccaccio. Come tutti sanno, esso deriva antonomasticamente dal cognome di Gaio Cilnio Mecenate (68 a. C. - 8 a. C.), uno degli uomini chiave della legittimazione culturale del potere di Augusto. Il ricco e colto Mecenate seppe mettere poeti della levatura universale di Orazio e Virgilio al servizio della costruzione di un impero. Augusto usò in modo straordinariamente intelligente la retorica del bene comune e della pubblica magnificenza per innestare senza traumi una sostanziale monarchia sul ceppo della Repubblica. Plinio racconta che Marco Agrippa, genero e vero “ministro della cultura” di Augusto, «pronunciò un’orazione assai bella e degna in cui dice che è opportuno rendere pubblici tutti i quadri e tutte le statue, il che sarebbe stato meglio che mandarli, come in esilio, nelle ville private»: un discorso «grandioso, e degno del miglior cittadino»1. Grazie a una fitta rete di facoltosissimi privati Augusto restaurò i templi antichi, trasformò in spazi pubblici sontuose residenze private, lasciò di marmo la Roma che aveva trovato di mattoni: ma tutto questo ebbe un prezzo, e quel prezzo fu la libertà dei cittadini. Su un aureo del 12 a. C. l’iscrizione «Res publica restituta» (e cioè: «la repubblica restaurata») accompagna la figura della Res Publica in ginocchio di fronte ad Augusto, che la sta per sollevare: di fatto, egli uccide la Repubblica mimandone la resurrezione.
Forse non lo sappiamo, ma quando invochiamo il mecenatismo non invochiamo una favola a lieto fine, ma una storia complessa, con i suoi rischi e i suoi lati oscuri. Il 23 aprile del 2014 la Strozzi Foundation (articolazione americana della fiorentina Fondazione di Palazzo Strozzi) ha consegnato il premio annuale «Uomo rinascimentale» al signor Leonard Lauder, già amministratore delegato e presidente della grande impresa di cosmetici ereditata dai suoi genitori, la Estée Lauder. Nel discorso tenuto in quell’occasione Lauder ricordò di aver donato al Metropolitan di New York la sua collezione di 78 quadri cubisti, e rammentò i 58 milioni di dollari raccolti (in dodici anni) dalla sua defunta moglie a favore della lotta al cancro al seno, e i 328 milioni messi insieme in dieci anni dal suo fondo per la ricerca sull’Aids. Tutte iniziative straordinariamente encomiabili, naturalmente: ma non sono l’unica faccia della medaglia. L’amministratore delegato della Estée Lauder (il napoletano Fabrizio Freda) guadagna la cifra astronomica di 30,9 milioni di dollari l’anno2: il che aiuta a dare la giusta dimensione ai numeri del mecenatismo di famiglia. Ma, soprattutto, due mesi prima della premiazione l’Autorità garante della concorrenza e del mercato italiana aveva comminato alla Estée Lauder una multa da 400 000 euro per pubblicità ingannevole: perché la crema antirughe non fa i miracoli decantati dagli spot. E due anni prima la ong britannica Peta (People for Ethical Treatment of Animals) aveva promosso una class action contro la Estée Lauder, accusata di mentire ai propri clienti sul trattamento riservato agli animali nei suoi laboratori. Non sono certo motivi sufficienti per criminalizzare il signor Lauder, ma forse lo sono per chiedersi se sia giusto santificarlo: nel 2000 la Estée Lauder ha finanziato il restauro della Fornarina di Raffaello (opera di proprietà pubblica e conservata a Palazzo Barberini a Roma), e in quell’occasione il consigliere delegato di Estée Lauder Italia ha potuto scrivere sul sito di un museo pubblico che la sua impresa «ha sempre inteso la bellezza come una missione dove estetica ed etica coincidono»3. Ma è davvero cosí?
E, soprattutto, il patrimonio culturale deve giocare dalla stessa parte della pubblicità commerciale, legittimandone gli attori e amplificandone i messaggi, o deve invece poterci donare un antidoto alla credulità, attraverso il senso critico?
Facciamo l’esempio di un conflitto piú grave, e piú complesso. Nel settembre del 2014 l’Eni ha comprato una pagina dei quotidiani nazionali per presentare il progetto di restauro della Basilica di Collemaggio all’Aquila, duramente colpita dal terremoto del 2009. Eni è lo sponsor tecnico del progetto, nel quale sta investendo 14 milioni di euro. «Recuperare la Basilica – si leggeva su quella pagina – significa dare un segno di speranza alla comunità aquilana: è per questo che l’Eni ha deciso di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo mettendo a disposizione i suoi tecnici ... e costituendo una “squadra” di eccellenza per la progettazione». Al progetto stanno collaborando strettamente la Soprintendenza architettonica dell’Aquila (guidata dalla preparatissima Alessandra Vittorini), e tre università (quella dell’Aquila, la Sapienza di Roma e il Politecnico di Milano), oltre all’amministrazione comunale. L’impeccabile stile istituzionale (e per nulla “aziendalistico”) della pagina rispecchia l’altissima qualità del progetto, e il suo spirito civico. E il contratto di sponsorizzazione non riserva cattive sorprese: siamo molto lontani da quello per il restauro del Colosseo. Non per caso Eni – che è la piú grande impresa italiana – non è un privato: per il 30% è ancora pubblica, e una golden share ne affida il controllo al governo italiano. Probabilmente per questo le contropartite assicurate dallo sponsee (cioè dal Comune) sono accettabili: «nel complesso monumentale e nell’area circostante verranno definiti dei luoghi dove, oltre alla presenza del marchio Eni, potranno essere comunicati i lavori di restauro e il loro stato di avanzamento»; «a conclusione dei lavori, una targa perenne riportante il ruolo di Eni alla realizzazione del progetto sarà posizionata all’ingresso della Basilica in forme compatibili con il carattere storico-artistico, l’aspetto e il decoro dell’immobile», e ci sarà la «possibilità di organizzare eventi, nel rispetto della sacralità dei luoghi e nei tempi e modi preventivamente concordati tra le Parti, all’interno del complesso monumentale della Basilica». Semmai la richiesta di dedicare a Enrico Mattei il parco antistante alla Basilica appare, francamente, un po’ eccessiva. Tutto bene, dunque? Da un punto di vista interno, forse sí: si tratta probabilmente del piú virtuoso esempio di sponsorizzazione del patrimonio culturale italiano. Ma c’è un “ma”: un “ma” piú generale e profondo. Eni è un’azienda controversa, sul piano etico. Nel maggio del 2013, in occasione dell’assemblea generale degli azionisti Eni, Amnesty International ha presentato un report molto severo. A proposito dell’industria del petrolio nel delta del Niger, Amnesty «ha documentato una serie di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani direttamente collegate alle modalità operative delle industrie petrolifere»4, tra le quali Eni. D’altra parte, «il devastante impatto dell’inquinamento derivante dall’industria del petrolio è stato rilevato dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente». In particolare, «riguardo al gas flaring, sebbene Eni rinnovi annualmente i suoi impegni di ridurre l’utilizzo di tale pratica, l’azienda non ha mai pubblicato dati comparabili ed esaustivi riferiti alla Nigeria, né informazioni relative alle valutazioni dell’impatto che tali torce hanno avuto e avranno sulla salute delle persone che vivono nelle comunità vicine alle torce»5. In piú, Amnesty ha ricordato che «Eni ha concordato con le autorità statunitensi di pagare una somma di 365 milioni di dollari come forma di patteggiamento per il caso di corruzione relativo all’impianto di gas liquefatto di Bonny Island, nel Delta del Niger»6. E che «a febbraio le autorità giudiziarie di Milano hanno comunicato ufficialmente che lo stesso AD Scaroni è sotto inchiesta per una ipotetica tangente di 197 milioni di dollari versata fra il 2009 e il 2010 per un corposo affare dal valore di oltre 11 miliardi di dollari. Anche un possibile caso di corruzione in Kazakistan relativo all’aggiudicazione dei contratti dell’impianto di Karachaganak e del progetto di Kashagan vede attivi gli inquirenti kazaki e italiani»7. Una settimana dopo la pubblicazione della pagina promozionale di Eni, è uscita la notizia che il nuovo amministratore delegato, Claudio Descalzi, era stato indagato dalla Procura di Milano per «una brutta vicenda di corruzione internazionale per l’acquisizione, nel 2011, di un giacimento petrolifero al largo della Nigeria»8: l’ipotesi investigativa riguarda una megatangente da un miliardo di dollari. Matteo Renzi, che l’aveva appena nominato al posto di Scaroni, ha dichiarato di non essere affatto pentito: «Sono felice di aver scelto Claudio Descalzi ceo di Eni. Potessi lo rifarei domattina», ha twittato il 12 settembre 2014. E noi condividiamo la stessa sicurezza, circa la sponsorizzazione di Collemaggio? La rifaremmo domattina?
Il contratto aquilano dice che Eni ha sponsorizzato il restauro di Collemaggio per «un significativo ritorno di immagine volto a rafforzarne il valore e la reputazione aziendale»9. Ma è giusto che ciò che accade nel delta del Niger venga coperto da ciò che avviene all’Aquila? È giusto che un monumento pubblico, un edificio sacro di valore simbolico straordinario sia associato perennemente al nome controverso dell’Eni? Non dovremmo auspicare che una sana informazione sulla condotta dell’Eni possa motivare l’opinione pubblica italiana a condizionare l’azionista pubblico dell’azienda, inducendolo a dare all’Eni direttive diverse? E questo circuito virtuoso, tipico delle democrazie moderne, non rischia di essere rallentato, o bloccato, dal «ritorno di immagine» garantito dal restauro di Collemaggio?
Se continuassimo a mantenere il patrimonio culturale attraverso la fiscalità generale non ci metteremmo forse al riparo da queste contraddizioni? Certo, perché questo sia possibile, tutti dovremmo pagare le tasse, e tutti gli italiani dovrebbero farlo in Italia. E fa un certo effetto apprendere, per esempio, che decine di imprese controllate da Eni sono domiciliate fiscalmente in Olanda: «Viene da domandarsi, all’interno della sua strategia per contrastare la fuga di capitali e l’evasione e l’elusione fiscale, quale sia il controllo esercitato dal ministero dell’Economia per evitare la possibilità di comportamenti fiscali per lo meno dubbi da parte di imprese di cui lo stesso ministero è azionista di riferimento»10. E allora è legittimo chiedersi: è meglio che Eni contribuisca alla salvezza del patrimonio culturale italiano pagando le tasse in Italia, come dovrebbe, o è meglio che le paghi in Olanda e poi imiti i mecenati del Rinascimento con (una minima parte dei) soldi risparmiati, conquistando cosí una pubblica (quanto pericolosa) riconoscenza?
Nel discorso pronunciato a Palazzo Vecchio in occasione del premio, Leonard Lauder ha detto di essersi ispirato al mecenatismo di Lorenzo il Magnifico e ha citato il celeberrimo quadernuccio dei conti di famiglia che questi lasciò, morendo, ai propri figli: in esso era scritto che «si vede somma incredibile perché ascende a fiorini 663 755, tra muraglie, limosine, gravezze senza l’altre spese: di che non voglio dolermi, perché quantunque molti giudicassero averne una parte in borsa, io giudico essere gran lume allo Stato nostro, e paiommi ben collocati, e ne sono molto contento»11. Un esempio mirabile, senza alcun dubbio: ma non dobbiamo dimenticare che non si trattava di mec...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Privati del patrimonio
  3. Premessa
  4. Nota al testo
  5. Privati del patrimonio
  6. I. Petrolio
  7. II. Comprare ciò che è nostro: il metodo “Fontana di Trevi”
  8. III. Mecenati o sponsor? Patriottismo for profit
  9. IV. (Con)cessioni di sovranità
  10. V. Lo Stato rinuncia: fondazioni, consorzi, S.p.A., finanza di progetto e altri trucchi
  11. VI. Gradi di alienazione
  12. VII. Un altro privato
  13. VIII. «Non abbiate paura dello Stato!»
  14. Conclusione
  15. Il libro
  16. L’autore
  17. Dello stesso autore
  18. Copyright