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Il capitalismo all'assalto del sonno

  1. 144 pagine
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Il capitalismo all'assalto del sonno

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Aperto 24 ore su 24, 7 giorni su 7, è il mantra del capitalismo contemporaneo, l'ideale perverso di una vita senza pause, attivata in qualsiasi momento del giorno o della notte, in una sorta di condizione di veglia globale. Viviamo in un non tempo interminabile che erode ogni separazione tra un intenso e ubiquo consumismo e le strategie di controllo e sorveglianza. Sembra impossibile non lavorare, mangiare, giocare, chattare o twittare lungo l'intero arco della giornata, non c'è momento della vita che sia realmente libero. Con la sua presenza ossessiva, il mercato dissolve ogni forma di comunità e di espressione politica, invadendo il tessuto della vita quotidiana.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858420508

Capitolo quarto

Nel film La jetée (1962) di Chris Marker viene rappresentato lo scenario di un futuro post-atomico, in cui gli ultimi superstiti dell’umanità sopravvivono nel sottosuolo delle città cancellate dalla catastrofe, perennemente esclusi dalla vista del sole. Le autorità di questo futuribile scenario, attraverso rudimentali esperimenti di viaggio nel tempo, cercano disperatamente di sfuggire alle terribili angustie della loro esistenza. Tra i vari fattori della crisi, vi è la progressiva perdita della memoria, che risparmia solo alcuni individui. Il protagonista è un personaggio che viene scelto, nella realizzazione degli esperimenti, per la tenacia con cui è riuscito a ritenere delle immagini del passato. Chiaramente, La jetée è interessante non tanto per il modo in cui tratteggia il futuro, ma soprattutto come meditazione sul presente, in questo caso i primi anni Sessanta, che Marker dipinge come un’epoca buia, su cui ancora si proietta l’ombra dei campi di sterminio, di Hiroshima e delle torture perpetrate in Algeria. Come nei casi di narrazioni coeve, da Hiroshima, mon amour di Alain Resnais a Parigi ci appartiene di Jacques Rivette, da Hallucination di Joseph Losey a Il diabolico dottor Mabuse di Fritz Lang alla Piovra nera di Jacques Tourneur a molti altri ancora, la questione fondamentale è sempre la stessa: come si può conservare la propria umanità nella totale desolazione del mondo attuale, in cui i legami piú importanti svaniscono per opera di torbide forme di razionalità che sembrano onnipotenti? Sebbene Marker non fornisca una esplicita risposta alla domanda, La jetée sottolinea tuttavia il ruolo indispensabile dell’immaginazione per la sopravvivenza di una collettività. Per l’autore, essa si realizza come convergenza delle capacità visionarie sia della memoria sia della fantasia che si manifesta, nel film, a partire dall’immagine del protagonista bendato, impossibilitato a vedere. Sebbene la maggior parte del film sia soprattutto, nello sviluppo della trama, una rappresentazione di immagini mnemoniche o ideative, uno dei suoi elementi piú originali è la figura del veggente, le cui normali capacità visive vengono pregiudicate in circostanze che evocano la tortura o gli esperimenti medici su cavie umane che furono compiuti al tempo della guerra o che si sarebbero poi compiuti negli anni successivi.
Marker si discosta da quelle concezioni della visione «interiore» che presuppongono l’azione autonoma di un voyant del tutto autosufficiente. Ne La jetée, la libertà immaginativa del veggente viene limitata e in parte anche condizionata dalle oppressive circostanze in cui si trova, tanto che la sua straordinaria opera di recupero (o invenzione) di immagini mentali si manifesta in un ambiguo intreccio fra paura e squallore, da una parte, e il meraviglioso flusso della vie intérieure dall’altra. È evidente il legame di familiarità che Marker intrattiene con altri esempi del passato di esplorazione avventurosa delle reminiscenze (da Rousseau a Nerval, da Proust a Bachelard ecc.), ma le fantasticherie del protagonista de La jetée non rappresentano una mera e casuale sospensione della razionalità in un flusso di coscienza. Al contrario, il suo vagabondaggio fra le immagini viene sempre controbilanciato dai vincoli di un’esistenza ormai segnata, dal timore dei pericoli incombenti e dalla imposizione di forme di biopotere al fine di ottenere la sua cooperazione mnemonica. Marker avrebbe anche potuto richiamarsi al poeta del surrealismo Robert Desnos, noto per la capacità di cadere in stati di profonda incoscienza simili a trance, nel corso dei quali si produceva in ininterrotti flussi verbali di contenuto onirico. Il visionario Desnos, autore negli anni Trenta di un programma radiofonico sui sogni che ottenne un certo successo, fu condannato a una sorte non dissimile da quella che propone l’inizio de La jetée: deportato ad Auschwitz, nel 1944, poi trasferito in altri campi, morí di tifo pochi giorni dopo la fine del conflitto.
Gran parte della forza espressiva del film di Marker si deve alla scelta di utilizzare la fotografia a prescindere dal riferimento alla realtà intesa come nozione empirica o dai modelli indessicali offerti dal medium cinematografico. Ciò che rende «reale» una determinata immagine dipende dalla carica affettiva che riesce a esprimere, dal sentimento che fa trasparire, dal modo in cui rende credibile l’intensità di un momento vissuto o ricordato. Nel momento in cui il protagonista, per esempio, ha i suoi primi ricordi (o sogni) del passato, non sorge alcun dubbio sullo statuto ontologico di queste immagini generate dalla sua interiorità: inequivocabilmente, si tratta di «veri» uccelli, di «veri» bambini, che appaiono, anzi, piú autentici della prigione sotterranea in cui egli è costretto a vivere. Marker opera in un momento storico in cui, non soltanto in Francia, vengono percepiti con sempre maggiore evidenza gli effetti mortificanti di una cultura standardizzata e satura di immagini. Nel suo tentativo di opporsi alle costrizioni di un mondo tecnologicamente amministrato, La jetée mette in luce l’estrema difficoltà e l’eccitazione della sua ispirazione principale: «immaginare o sognare un altro tempo». Marker afferma la necessità di un progetto idealistico come questo, ma ne mette in evidenza anche la fragilità e forse l’inevitabile fallimento. Per gli anni Sessanta appena iniziati e per la generazione a venire, tuttavia, egli ha collocato il momento utopico non nel futuro, ma nella proiezione della memoria sul presente, nell’intima unione vissuta di sonno e veglia, di sogno e vita, nel sogno di una nuova vita come inestinguibile promessa di risveglio.
Il momento piú famoso de La jetée è l’istante in cui la sequenza statica delle immagini fisse viene brevemente interrotta dall’illusione cinematica di occhi umani che si aprono, come al termine del sonno. Questa apparenza di vita animata (creata anch’essa dalla giustapposizione di immagini statiche) sembra riferirsi in maniera indiretta a Psycho (1960) di Alfred Hitchcock. In quest’ultimo film, risalente a due anni prima, Marker ebbe sicuramente modo di notare la sequenza in cui Janet Leigh, dopo la scena dell’assassinio sotto la doccia, rimaneva distesa sul pavimento del bagno, con gli occhi spalancati. L’impressione persistente, anche dopo molte visioni, è che, per rendere la rigidità cadaverica del personaggio ucciso, sia stata utilizzata un’immagine fissa, dal momento che l’attrice sicuramente non sarebbe stata in grado di reprimere del tutto la normale mobilità e i piccoli spasmi muscolari degli occhi e del volto in una posa che dura oltre venticinque secondi. Prima che l’inquadratura si interrompa, però, una goccia d’acqua cade sui suoi capelli, tutto a un tratto, dando prova che l’immobilità di quel viso dagli occhi aperti è stata registrata in «tempo reale», insieme allo scroscio della doccia aperta. Nella sua bellissima analisi di questa sequenza, Laura Mulvey ha sollevato alcune questioni che sono significative anche per La jetée: «il paradosso per cui incerto è il confine che nel cinema separa l’immobilità dal movimento viene fugacemente rappresentato. La rigidità del cadavere ci ricorda che i corpi vivi e animati nel cinema non sono altro che immagini fisse in successione e l’omologia tra immobilità e morte torna a infestare l’immagine cinematografica»1. Il collegamento fra Marker e Hitchcock in questa sede, peraltro, mostra come il peculiare interesse di entrambi per la base statica del movimento cinematico faccia parte di una piú ampia esplorazione del tessuto dell’esperienza sociale contemporanea.
Sia La jetée che Psycho, agli inizi degli anni Sessanta, rappresentano in maniera emblematica le modalità in cui i processi di riduzione e condensazione in oggetti e in immagini della vita quotidiana compromettono il quadro di un’epoca storica in cui sia possibile il cambiamento. Psycho condivide la propria oscurità con quella di un mondo in cui il morboso sforzo di congelare il tempo e l’identità delle persone è destinato a un deflagrante scontro con la condizione di sradicamento e di estraneità tipica della vita moderna. La commistione di Hitchcock fra la casa avita e il motel autostradale riunisce in sé due elementi indissolubili nell’esperienza collettiva della seconda metà del XX secolo. Nella vecchia casa dei Bates, tutte le caratteristiche tradizionali di appartenenza al proprio luogo di origine, alla propria famiglia e ad altre forme di continuità scadono in una fievole opposizione ai tentativi di alterare le fondamenta dell’immaginario della vita domestica. Il corso del tempo, la dinamica dello sviluppo e quella della maturazione sono stati bloccati in uno spazio museale, amplificato dal ricorso di Norman alla tassidermia. Questa pratica, inventata negli anni Venti del XIX secolo, è stata descritta da alcuni come una forma esemplare di «resurrezione», per cui, attraverso varie tecniche, viene prodotta l’illusione della vita a partire da ciò che è morto o del tutto inerte2. La tassidermia fa la sua comparsa sia in Psycho sia ne La jetée come «effetto di realtà» che si richiama direttamente al meccanismo della rappresentazione illusoria sia del cinema sia della fotografia.
Se da un lato Norman è il proprietario/curatore della casa «monumento storico» sulla collina, egli è anche gestore, d’altra parte, di un simbolo essenziale dell’inquietudine e della mobilità moderne, il motel. Anonimo e fatiscente, il motel sorge in spazi desolati, periferici, in perenne mutamento, dove tutto è sempre sostituibile e la vita è precaria e provvisoria, reggendosi esclusivamente sulla circolazione del denaro, apparentemente utile soltanto per «placare l’infelicità». La stratificazione verticale della dimora pietrificata e la deriva orizzontale della rete autostradale di cui fa parte il motel sono le membra scomposte di un mondo in rovina e sempre piú inanimato. Le parole iniziali del cineromanzo La jetée esprimono il legame di affinità tematica con lo sfondo narrativo di Psycho in uno dei suoi elementi centrali: «Questa è la storia di un uomo segnato da un’immagine della sua infanzia, dalla scena violenta che lo ha sconvolto per sempre». Tuttavia, la concezione della memoria, del tempo e dell’immagine di Marker denota l’affiliazione a un retroterra intellettuale piuttosto diverso, estraneo all’ambivalenza espressa da Hitchcock sul tema del desiderio. Quel che l’Io considera memoria può essere guasto o parziale ma, come il museo popolato da statue cadenti de La jetée, può anche offrire delle vie d’uscita verso la libertà individuale. La stessa tassidermia, nel film di Marker – con i suoi cetacei e altri reperti di storia naturale –, non è una natura morta dall’aspetto inquietante, ma uno spiraglio del presente sull’eternità. Gli oggetti non rappresentano una simbolica forma di sopravvivenza contro l’impeto distruttivo del tempo, ma il tentativo di cogliere la dimensione del meraviglioso, di una realtà esterna alle dualità vita/morte e veglia / sogno.
Le vie di fuga de La jetée, però, sono messe a rischio da forme di potere istituzionale che trasformano il protagonista in uno strumento provvisoriamente utile e quindi in un oggetto come un altro. Da un punto di vista piú generale, gli ingredienti narrativi del film di Marker non si discostano molto dalle trame proposte da molti altri racconti fantascientifici della seconda metà degli anni Cinquanta, in cui il sogno o il ricordo diventano realtà che possono essere scandagliate o manipolate. (Ne La jetée: «La polizia del campo spiava anche i nostri sogni»). Nel corso dell’ultimo decennio o poco piú, tuttavia, un’idea solitamente confinata alle speculazioni fantastiche di un genere narrativo popolare è entrata a far parte di un immaginario assai diffuso, alimentato e rafforzato dalle fonti piú diverse. In base a questo presupposto, nella sua forma piú semplice, i sogni sarebbero oggettivabili e, in quanto entità discrete, potrebbero essere registrati e in qualche modo rivisti oppure scaricati, a seconda dello sviluppo dell’applicazione tecnologica che si intende prefigurare. Negli ultimi anni, i media hanno dato sensazionale risalto al progetto di ricerca dell’Università di Berkeley e dell’Istituto Max Planck di Berlino che prevede di utilizzare le scansioni della corteccia visiva di soggetti immersi nell’attività onirica allo scopo di generare immagini digitali che dovrebbero rappresentare il contenuto dei loro sogni. Alcuni film ad alto costo, come Inception di Christopher Nolan, accentuano l’idea che i sogni siano un prodotto perfettamente utilizzabile e manipolabile alla stregua di qualunque contenuto mediatico. La diffusione di queste congetture è rafforzata dall’annuncio di sviluppi analoghi nella ricerca neurologica: l’asserzione, per esempio, che in un prossimo futuro vi saranno scanner cerebrali, negli aeroporti e in altri siti, che saranno in grado di rilevare la presenza di «intenzioni pericolose» in potenziali terroristi.
La manifesta impossibilità o assurdità di esiti come questi conta meno del fatto che essi stanno modellando e disciplinando l’immaginario dell’epoca contemporanea. È in atto una trasfigurazione del mondo onirico in una realtà paragonabile a un software mediatico o a una sorta di «contenuto» che sarebbe, in teoria, attingibile per mezzo di congegni. Questa nozione generalizzata di accessibilità deriva da elementi della cultura popolare che, comparsi alla metà degli anni Ottanta nella narrativa cyberpunk, hanno presto saturato una sensibilità collettiva piú ampia. In vari modi, vi è stato uno sviluppo di modelli concepiti per nuovi tipi di interfacce o circuiti, in cui la mente o il sistema nervoso sono collegati effettivamente al funzionamento e ai flussi di sistemi esterni. L’idea di una reale connessione neuronale a una matrice oppure a una griglia globale, nella maggior parte dei casi, è stata pensata in funzione dell’incremento di stati aumentati di esposizione o di flussi di immagini, di informazioni o di codici. Un effetto della costruzione di un simile sistema input/output è l’omologazione della vita interiore e dei contenuti delle reti, e una non problematica conversione in formato digitale dell’infinita e informe varietà delle rappresentazioni mentali. Il romanzo di Richard K. Morgan Bay City (2002) è l’esempio piú emblematico di un topos della narrativa contemporanea in cui la coscienza individuale viene digitalizzata, scaricata, archiviata e installata in un altro corpo, ed è in grado di interfacciarsi con sterminate banche dati. Nello stesso tempo, le narrazioni che restituiscono nei dettagli livelli di esposizione cosí deliranti solitamente sono strutturate come miti di potenziamento, malgrado l’estrema asimmetria tra l’individuo e l’abnorme scala della «griglia». La morale è che, in forme diverse, un atto di eroismo imprenditoriale può sempre superare questa asimmetria sfruttandone le caratteristiche di incommensurabilità a proprio vantaggio. Il problema qui non è tanto quello di una permeabilità tra la presunta purezza della vita psichica e un insieme di tecniche e procedimenti a essa esterni. Si tratta piuttosto del segnale di una tendenza comune verso la ridefinizione di ogni aspetto dell’esperienza individuale in continuità e compatibilmente con le esigenze di un consumismo accelerato 24 /7. Anche se l’attività onirica sfuggirà sempre a simili tentativi di appropriazione, inevitabilmente essa viene r...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. 24/7
  3. Ringraziamenti
  4. 24 /7
  5. Capitolo primo
  6. Capitolo secondo
  7. Capitolo terzo
  8. Capitolo quarto
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright