Il Tardoantico
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Il Dio unico e i molti sovrani

  1. 280 pagine
  2. Italian
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Il Dio unico e i molti sovrani

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Questo libro offre una ricostruzione d'insieme del periodo compreso tra il III e il VII secolo, dall'ascesa al trono di Diocleziano alla nascita dell'Islam. Si tratta di una delle epoche piú complesse e decisive per le sorti dell'Europa e del bacino del Mediterraneo, nel corso della quale avvengono fenomeni fondamentali, come la definitiva consacrazione della Chiesa romana in quanto istituzione avviata a dare il cambio, sul piano del governo delle popolazioni, allo stesso Impero romano, le grandi crisi politico-economiche, le invasioni barbariche con le loro devastanti conseguenze demografiche e sociali, l'affermazione del diritto dal codice teodosiano a quello di Giustiniano, la nascita dei regni romano-barbarici, preludio dell'età medievale. Epoca dunque di convulsioni, sconvolgimenti, trasformazioni e crisi, nel corso della quale, avvengono, o almeno cominciano a impiantarsi, fenomeni e processi religiosi, culturali, intellettuali, artistici ed economico sociali, che risulteranno decisivi per il mondo che verrà poi. L'autore non trascura infatti pagine solitamente collocate in secondo piano, come il tentativo di restaurazione del paganesimo in veste filosofica a opera di Giuliano l'Apostata, le varie risorgenze intermittenti dei culti orientali e il lavoro di sintesi svolto dalle correnti gnostiche, o la diffusione delle scuole filosofiche di matrice ellenistica in tutto il bacino del Mediterraneo, fino alla definitiva chiusura della scuola di Atene.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858420584
Argomento
History
Capitolo quinto

Il VI e il VII secolo (518-641): imperatore e Impero

Costantinopoli.

Intorno al 500 Costantinopoli era la città piú importante del mondo. Molte centinaia di migliaia di persone vivevano sul Bosforo. Un nuovo anello di mura aveva ampliato la città verso ovest all’inizio del V secolo. Queste mura, cosiddette «teodosiane», circondavano una superficie quasi doppia rispetto a quanto aveva fatto la realizzazione assai ampia pensata da Costantino: oltre 14 chilometri quadrati. Il numero di abitanti si era quadruplicato in uno sviluppo vertiginoso dai tempi del fondatore e i nuovi arrivati ora dovevano essere attirati singolarmente o fatti trasferire con la forza. Ovunque si costruiva, si commerciava, si riforniva e si viveva – il tutto regolato con fatica da parte dello Stato, per avere grosso modo sotto controllo lo sviluppo della metropoli. Lo sviluppo perdette soltanto gradualmente il proprio dinamismo: il centro della città e le strade piú importanti, la Mese (in greco: «il centro»), erano già stati caratterizzati dalla dinastia teodosiana una volta per tutte, in particolare con il foro di Teodosio e quello di Arcadio. In quella zona ci furono nuove costruzioni soltanto in seguito agli incendi, purtroppo non cosí rari. Anastasio e, in particolare, Giustiniano, il piú grande committente del VI secolo, non riuscirono piú a imprimere il proprio marchio sulla città, ma costruirono edifici ovunque, in città e nei dintorni, in particolare chiese, secondo la moda del tempo.
Naturalmente, fu la continua presenza dell’imperatore ad azionare e a sostenere il dinamismo dello sviluppo cittadino. Teodosio I fu il primo imperatore dai tempi di Costantino a rendere la città la propria residenza preferita. L’affetto non aveva alcuna importanza, era molto piú rilevante la posizione geografica: sul confine dell’Eufrate regnava la pace, mentre i piú importanti focolai di crisi di quel tempo si trovavano nei Balcani (i Visigoti) e nell’agitato Occidente.
Per questo motivo Costantinopoli godeva di una posizione decisamente migliore rispetto ad Antiochia o Alessandria. Tuttavia, Teodosio fu ancora un imperatore che si spostava molto, che trascorse certamente nove dei suoi sedici anni di governo sul Bosforo, e i restanti sette anni da un’altra parte: nelle campagne militari contro nemici interni ed esterni. Innanzitutto fu soltanto una casualità biografica il fatto che il figlio Arcadio non apprezzasse l’arte militare e non abbia mai comandato personalmente un’armata. Al contrario, egli restò a Costantinopoli. Nei tredici anni di governo Arcadio visitò soltanto un paio di volte l’Asia Minore per la frescura estiva; complessivamente egli trascorse poco piú di un anno fuori da Costantinopoli. Il nipote Teodosio II non si trattenne piú di un anno e mezzo lontano dalla città – in un periodo di governo di quarantadue anni. Una campagna militare non era contemplata. I successori seguirono questo modello, e le assenze divennero ancora piú brevi. Soltanto gli imperatori Marciano e Maurizio (alla fine del VI secolo) comandarono brevi campagne nei Balcani, ma forse non capitarono neanche una volta sotto gli occhi del nemico. Soltanto l’imperatore Eraclio nel VII secolo, dopo piú di duecento anni, condusse di nuovo una guerra in grande stile e quindi lasciò il Bosforo. Costantinopoli nel V e nel VI secolo era la sede imperiale permanente e quindi la capitale della parte orientale di Impero ovvero dell’Impero romano, cosí come lo era stata Roma nei primi due secoli dopo Cristo (fig. 11).
Figura 11.
Costantinopoli nel VI secolo.
Costantinopoli nel VI secolo
L’improvvisa rinuncia ai viaggi attraverso l’Impero segnò un cambiamento strutturale politico duraturo, che non poteva essere spiegato in modo soddisfacente con l’avversione o l’incapacità di un singolo imperatore per la tattica militare. Tra i successori di Arcadio si trovarono sempre piú generali esperti. La situazione era piuttosto dovuta al fatto che il sistema politico sostanzialmente traeva vantaggio da una residenza fissa. Già dopo il 395 risultò che il soggiorno a Costantinopoli non danneggiava l’Impero e rafforzava l’autorità imperiale. Poiché il territorio governato si era notevolmente ridotto, la parte orientale dell’Impero poteva di nuovo essere governata da un unico centro, nonostante le invasioni barbariche. Il fatto che questo centro fosse una grande città mediterranea modificò in modo decisivo le regole del gioco del sistema del consenso. Niente neutralizzava la forza militare cosí come una metropoli con una popolazione vivace e numerosa e strade piccole. Il ritorno a Costantinopoli permise all’imperatore di liberarsi dal dominio dei soldati e dalle rivendicazioni dei generali. Se il sovrano si tratteneva a Costantinopoli in sicurezza, lontano dall’armata, non importava piú molto la sua popolarità nell’esercito e l’opinione delle truppe. Al suo posto furono ristabilite in un certo senso le condizioni un tempo presenti nella città di Roma: l’imperatore poteva sostenersi anche su altri gruppi di consenso, soprattutto le élites e il popolo. La sua posizione divenne cosí piú stabile, perché da quel momento in poi nessun gruppo di consenso poteva piú destituire da solo il sovrano.
Questo valeva in particolare per gli affari militari, il cui ruolo era ancora piú debole che a Roma. All’interno delle mura non si trovavano unità regolari, le guardie e le forze di sicurezza erano deboli dal punto di vista numerico e a livello di forze, e non riuscivano a controllare la popolazione, in particolare quando diventava plebaglia accanita. Inoltre, esse avevano un legame di fedeltà particolarmente stretto con l’imperatore. Le guardie non avevano delle caserme proprie, come un tempo i pretoriani a Roma, bensí erano alloggiate con la corte e con una grande parte dell’amministrazione centrale nel grande palazzo reale nell’area sud-est della città. Una consapevolezza del corpo militare che non si basasse fondamentalmente sulla fedeltà all’imperatore non poteva costituirsi. Pertanto, il consenso delle guardie era relativamente facile da ottenere.
Dall’esterno, tuttavia, Costantinopoli non poteva piú essere conquistata dopo l’ultimazione delle mura teodosiane (parzialmente conservate ancora oggi) nel 413. Al muro esterno, alto 8 metri e con 92 torri piú piccole, e a una piccola intercapedine si collegava la fortificazione principale, vale a dire le mura interne, alte 11 metri, spesse 5 metri scarsi, con circa 95 torri poste a un intervallo variabile tra 40 e 60 metri. In punti particolarmente pericolosi erano disposti dei fossati, larghi fino a 20 metri e profondi fino a 7 metri. Queste mura resistettero a ogni tentativo di conquista fino alla quarta crociata (fig. 12).
La città era immune anche dalle carestie: essa poteva essere rifornita via mare, fino a quando il re avesse mantenuto la superiorità marittima (e cosí fece fino alla fine dell’antichità). Inoltre, la zona tra le mura nuove e quelle vecchie, costantiniane, non era fittamente popolata, bensí era caratterizzata da paesaggi verdi, nei quali erano inserite anche cisterne oltre a monasteri, ville, possedimenti delle élites, cimiteri e giardini. Due enormi serbatoi d’acqua aperti, che furono creati nel V secolo, assicuravano il rifornimento d’acqua di Costantinopoli. Inoltre, poiché su quei prati potevano pascolare animali da fattoria, fu migliorato anche il rifornimento di viveri in tempi di emergenza.
Per lo stratega che si trovava fuori dalla città questo significava che non poteva piú spodestare l’imperatore: il sovrano predisponeva l’armata senza doversi preoccupare della sopravvivenza del proprio trono. Non c’è da stupirsi se nessun imperatore pensò piú di lasciare Costantinopoli.
Figura 12.
Ricostruzione delle mura teodosiane.
Ricostruzione delle mura teodosiane
Il raggiungimento della stabilità interna e la sicurezza da attacchi stranieri furono, oltre alla posizione geografica vantaggiosa della parte orientale dell’Impero, un ulteriore motivo fondamentale per cui l’Oriente affrontò cosí a buon mercato le invasioni barbariche. Alarico, Attila, Teodorico: nessuno di loro ebbe ragione delle mura di Costantinopoli. Inoltre, le devastazioni nei Balcani erano ancora di un’entità tale da non mettere in pericolo il trono dell’imperatore, finché gli era garantito il consenso della capitale (e per esso egli fece di piú che per il benessere dei contadini sul Danubio). La differenza che questo comportava è dimostrata da uno sguardo all’Occidente. Onorio non era molto piú raffinato di suo fratello. All’inizio risiedeva a Milano, ma dal 402, quando la città fu minacciata dai Goti, si trasferí nella piú difficilmente espugnabile Ravenna. Questa città rimase la sua residenza per i successivi quarant’anni quasi ininterrottamente. Tuttavia, Ravenna era piú una bella città di provincia che una metropoli. La massa critica di popolazione non era disponibile, mancava una sede vescovile con importanza imperiale, mancavano le istituzioni civili esterne alla corte, soprattutto mancava un senato, che come ente pubblico poteva detenere meno potere, ma per questo poteva legare molti aristocratici alla capitale. Ravenna non era proprio una capitale, l’armata non poteva essere rinchiusa in essa. Militari e magistri militum si potevano muovere liberamente in città, con conseguenze disastrose.
Il prezzo per lo «splendido isolamento» a Costantinopoli era che l’imperatore doveva mostrarsi piú comprensivo con i gruppi di consenso all’interno delle mura. Questi avevano certamente peso differente. Dalle élites provenivano i pubblici ufficiali, gli amministratori e i generali, senza i quali l’Impero non poteva essere governato. Ancora piú importante nelle categorie del sistema del consenso era il fatto che dalle loro fila provenivano anche i potenziali usurpatori. Per rendere questo pericolo una rara realtà, l’imperatore doveva trattare le élites premurosamente. Queste non si comportavano mai come gruppi che agivano in modo consensuale, che indicavano all’imperatore anche i propri limiti. Le élites, infatti, non costituivano una nobiltà ereditaria, bensí una nobiltà funzionale, vale a dire che la loro distinzione dipendeva dagli incarichi e dai titoli rivestiti. Tuttavia, questi erano conferiti dall’imperatore, che determinava l’avanzamento politico e sociale dei singoli appartenenti alle élites. Per questo la concorrenza predominava sulla solidarietà nel rapporto con gli altri aristocratici. Essi non si sollevarono mai uniti contro l’imperatore, la forma consueta delle campagne per il consenso non era l’opposizione dei nobili, bensí la congiura.
Nell’Impero cristiano naturalmente anche il clero (vescovi, monaci, asceti devoti) aveva un ruolo importante, il quale però poteva pregiudicare il funzionamento del sistema sociopolitico in modo soltanto situazionale. La resistenza dei monaci non era riconosciuta come tale, essa fu considerata una sobillazione e perciò fu contrastata perlopiú in modo repressivo (si veda a questo proposito il passaggio sui monaci nel terzo capitolo). Gli uomini religiosi, secondo l’opinione comune, potevano certamente impiegare la propria reputazione anche nelle questioni politiche, ma ciò funzionava soltanto per breve tempo. L’eccezionalità di un uomo religioso doveva riflettersi in azioni straordinarie, per esempio una marcia spontanea verso il palazzo dopo decenni trascorsi in un eremo isolato. Tali interventi vivevano della propria rarità, la ripetizione esauriva velocemente il capitale sociale di un uomo religioso. Per l’esercizio di una pressione piú duratura sull’imperatore, una forza di questo tipo non era adatta. Era molto semplice superare l’obiezione di un uomo religioso: con la semplice attesa. A causa dei propri presupposti strutturali avveniva senz’altro cosí sporadicamente che essa era irrinunciabile per il funzionamento del sistema dei consensi. Dopotutto, il vescovo disponeva certamente di una certa legittimazione, ma proprio a Costantinopoli la presenza a corte e le élites impedirono l’ascesa di una figura sovrana determinante anche nelle questioni secolari. La funzione del vescovo rimase limitata al compito pastorale, che non gli permise mai una rivendicazione effettiva di progettualità o veto nelle questioni sacre. Soltanto quando altri gruppi di consenso lo sostenevano, egli poteva muovere qualcosa. In mancanza di questo aiuto, il vescovo, come ha mostrato l’esempio di Nestorio, era una pedina del volere imperiale. Attenzione regolare o addirittura stabilizzazione del consenso non erano pertanto ritenute necessarie dall’imperatore. Il mondo era diventato cristiano, ma l’Impero aveva radici romane, piú antiche. In occasione della proclamazione di un imperatore erano benvenute la preghiera e piú avanti persino l’incoronazione da parte del vescovo, anche se la sua partecipazione non divenne mai politicamente irrinunciabile o addirittura necessaria dal punto di vista giuridico.
Rimane il popolo. La sua importanza era maggiore che a Roma, non tanto perché esso era piú forte, quanto perché l’armata e le élites erano piú deboli. Soltanto il popolo affrontava l’imperatore con critiche aperte, e articolava chiaramente e in modo sorprendentemente compatto le proprie richieste. Gli errori del sovrano non potevano essere sanzionati apertamente da un individuo, anche molto potente, in considerazione della differenza di ceto. Tuttavia, il singolo si perdeva nella massa, protetto dall’anonimato – l’imperatore non poteva impiccare ampie parti del popolo. Pertanto, soltanto la collettività del popolo serviva come correttivo comportamentale permanente.
Il popolo si aspettava dal proprio imperatore innanzitutto che questi lo proteggesse dall’oppressione e dall’emergenza. Vale a dire, che intervenisse contro le ingiustizie dei propri pubblici ufficiali, ma anche che assicurasse il rifornimento di cereali (per l’alimento base, il pane). Questo era un compito delicato, in particolare quando Costantinopoli non poteva essere rifornita dai territori circostanti, a causa della sua grandezza. I cereali provenivano principalmente dall’Egitto – sia cattivi raccolti sia difficoltà di trasporto potevano portare la città alla fame, con la corrispondente insoddisfazione. Inoltre, l’imperatore doveva avere la giusta fede, quindi doveva essere niceno e in seguito calcedoniano. Un Augusto pagano fu impensabile a partire dal V secolo. In quali difficoltà poteva imbattersi un imperatore se la propria ortodossia era messa in dubbio, l’ho già mostrato con l’esempio di Teodosio II e con i problemi che affrontarono Basilisco e Anastasio. Infine, un imperatore doveva soddisfare alcuni requisiti comportamentali: egli doveva essere generoso, affabile e devoto, doveva condurre una vita familiare appropriata e, cosa piú importante, si doveva comportare in modo adeguato con il popolo. Quest’ultimo non auspicava alcun riconoscimento della propria «uguaglianza», un’idea che non si era sviluppata nella realtà politica dell’antichità, bensí l’assicurazione che i propri desideri e le proprie idee semplicemente contassero per l’imperatore. Lo strumento piú importante, in questo caso, era la presenza imperiale in occasione delle corse dei carri, che spesso avevano luogo per tutta la giornata e facevano coincidere l’entusiasmo del popolo e quello dell’imperatore. Quanto fosse importante l’ippodromo per la comunicazione con il popolo lo dimostra il fatto che il circo, che poteva ospitare appena trentamila persone, confinava con il Gran Palazzo (non un singolo edificio, bensí un intero quartiere con diverse costruzioni sorte e completamente risistemate durante i secoli). L’imperatore arrivava al proprio palco direttamente, tramite una scala. Se il popolo nell’ippodromo rivolgeva dei cori all’imperatore, questi doveva motivare in modo sensato il proprio rifiuto o corrispondere alla richiesta. Il silenzio, l’abbandono del palco o addirittura l’impiego delle guardie ferivano la richiesta di affabilità.
In tal caso, l’imperatore doveva mettere in conto delle rumorose proteste. Se nemmeno queste sortivano il loro effetto, il popolo faceva ricorso alla violenza. Vi erano sufficienti occasioni. L’imperatore nel Tardoantico, infatti, non trascorreva il proprio tempo nel palazzo, come vorrebbe il cliché, isolato dai propri sudditi, circondato da eunuchi compiacenti e silenzio riverente, senza aver idea di ciò che succedeva all’esterno. Già le frequenti processioni e manifestazioni religiose portavano il sovrano in continuo contatto con la popolazione e, allo stesso modo, era una scena familiare vedere l’imperatore cavalcare fuori dalla città per andare a caccia, inaugurare edifici pubblici o fare visita a uno degli altri palazzi, dentro o fuori Costantinopoli. In tutte queste occasioni l’imperatore non poteva certo parlare con i singoli, ma era visibile e, nonostante le guardie, non immune da un intervento o da un disturbo violento.
Se le nostre fonti non ci ingannano, allora l’imperatore si impegnava per il popolo piú copiosamente e piú a lungo che per gli altri gruppi di consenso, trascorreva piú tempo con esso, lo ammaliava piú spesso con gesti di integrazione, perché, se non riusciva a ottenere il consenso, era minacciato in casi estremi dalla pazzia e dal vandalismo di una massa scatenata, contro la quale le guardie non potevano fare nulla. Piú avanti parlerò di alcuni esempi. La forza del popolo, però, si poteva mostrare già in occasione della proclamazione di un imperatore. Mai fu cosí evidente come dopo il decesso di Anastasio nel luglio del 518.
In quell’occasione non c’era un uomo forte o un successore sul quale confluisse tutto. Il vecchio imperatore non aveva designato nessuno dei suoi tre nipoti e, poiché l’autocrazia romana non era piú una monarchia ereditaria, questo aspetto non aveva alcun ruolo nelle lotte per la successione. Il nuovo imperatore, pertanto, fu determinato dal libero gioco dei gruppi di consenso. Dopo la morte di Anastasio, soldati e popolo si riunirono al mattino, era il 10 luglio, e formularono le proprie aspettative nell’ippodromo: «Molti anni per il Senato! Senato dei Romani, tu vinci! Un imperatore di Dio per l’esercito! Un imperatore di Dio per il mondo!» Alla stessa ora a palazzo si incontrarono le élites e si consultarono, insieme ai patriarchi, in merito al successore di Anastasio. I senatori non riuscivano ad accordarsi. È sempre difficile, tra pari, porre sopra di sé uno del gruppo. Il tempo trascorse litigando. Un alto pubblico ufficiale, il magister officiorum Celere, dovette mettere sotto pressione i presenti: «Fino a quando abbiamo la possibilità, fateci riflettere e decidere. Infatti, se nominiamo rapidamente un successore, tutti ci seguiranno e manterranno la tranquillità. Se però esitiamo, non avremo piú il controllo degli avvenimenti e dovremo seguire altri»1. Fu una saggia previsione (e per questo forse inventata dalle nostre fonti). Le parole di Celere non spaventarono, il dibattito proseguí infruttifero. La massa all’inizio aveva atteso obbediente, ma poi era diventata agitata. Ora, nell’impaziente ippodromo, avvenne proprio ciò che Celere aveva temuto. Le due truppe di guardie, gli excubitores e gli scholarii, iniziarono a proporre candidati su un cartello. Nessuno di loro ottenne il consenso generale, la fazione blu del circo colpí un candidato favorito con delle pietre. Il secondo favorito degli excubitores era un certo Giustiniano, che però rifiutò. Il fatto che i soldati abbandonassero velocemente i propri candidati, se questi non si imponevano, e facessero nuove proposte, stupisce a un primo sguardo. Tuttavia, dietro questo comportamento non vi era del qualunquismo, bensí il desiderio di incominciare autonomamente l’iniziativa decisiva, in modo tale da sottolineare la propria importanza e impegnarsi per il nuovo imperatore. Al contrario, valeva smistare le azioni degli altri. Popolo e soldati volevano il piú velocemente possibile un nuovo imperatore, chi esattamente lo sarebbe diventato era secondario. Cosí si instaurò un circolo vizioso, nel ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Crediti delle immagini
  4. Il Tardoantico
  5. I. Alla fine dell’antichità: continuità e declino
  6. II. Diocleziano, la tetrarchia e i cristiani (284-305)
  7. III. Il IV secolo (306-395): l’inizio dell’età cristiana
  8. IV. Il V secolo (395-518): le invasioni barbariche
  9. V. Il VI e il VII secolo (518-641): imperatore e Impero
  10. VI. Epilogo: il Tardoantico come epoca
  11. Tavola cronologica
  12. Bibliografia
  13. Indice dei nomi e dei luoghi
  14. Note
  15. Il libro
  16. L’autore
  17. Copyright