Cento anni fa la scienza si faceva diversamente. Per renderci conto di quanta fosse la differenza, basta confrontare le abituali foto di gruppo dei convegni scientifici di oggi con quella del convegno Solvay sulla meccanica quantistica che si tenne nel 1927 a Bruxelles1. Non si vedono indumenti informali, non si vedono studenti, e assolutamente nessuna espressione allegra: al massimo, il sorrisetto tra il nervoso e il birichino di Heisenberg. La rigidezza delle norme nel vestire è pari alla severità degli sguardi, che trasmettono un senso opprimente del rispetto dei codici di condotta e delle gerarchie. Si ha l’impressione che Hendrik Lorentz, in prima fila alla destra di Einstein, ci stia rampognando tacitamente per qualche infrazione al protocollo. Neanche a dirlo, è una riunione di soli uomini, con l’eccezione di Marie Curie, che non ha ancora sessant’anni ma è invecchiata dall’esposizione alla radioattività che la ucciderà sette anni dopo. Lí, all’estrema sinistra della fila centrale, rigido e a disagio, ecco Peter Debye.
Ovviamente molti degli aspetti esteriori sono solo uno specchio dei tempi, ma alcuni sono specificamente tedeschi, perché in questa riunione predominano uomini di lingua tedesca. Ancor oggi la scienza tedesca mantiene qualcosa di questo senso della forma e del decoro; gli stranieri in visita sono sorpresi nell’osservare che anche tra colleghi ci si rivolge l’un l’altro con il titolo e il cognome, e i livelli di anzianità sono distinti quasi con lo stesso scrupolo della società giapponese. E ovviamente il tipo di relazione tra le persone è codificato esplicitamente dalla distinzione du/Sie. Per gli scienziati di lingua tedesca presenti al convegno Solvay questa etichetta linguistica rifletteva le rispettive posizioni professionali: per quanto in qualsiasi altro ambito li si sarebbe considerati amici, i giovani Heisenberg e Wolfgang Pauli si diedero del Sie finché non furono entrambi professori ordinari.
Sarebbe non solo scorretto ma del tutto privo di senso valutare la reazione a Hitler da parte dei fisici tedeschi senza tenere conto delle attese sociali e culturali in cui si inseriva. Una cosa che forse ci dicono le felpe e le scarpe da ginnastica di oggi è che, tra l’altro, gli scienziati accademici non godono piú dello stesso status dell’epoca in cui Einstein e colleghi si misero seri in posa per i posteri all’albergo Métropole.
I delegati presenti al convegno Solvay del 1927 a Bruxelles, il cui titolo ufficiale era Elettroni e fotoni. Da sinistra a destra: fila in alto, A. Piccard, É. Henriot, P. Ehrenfest, É. Herzen, Th. de Donder, E. Schrödinger, J. E. Verschaffelt, W. Pauli, W. Heisenberg, R. H. Fowler, L. Brillouin; fila centrale, P. Debye, M. Knudsen, W. L. Bragg, H. A. Kramers, P. A. M. Dirac, A. H. Compton, L. de Broglie, M. Born, N. Bohr; fila in basso, I. Langmuir, M. Planck, M. Curie, H. A. Lorentz, A. Einstein, P. Langevin, Ch.-E. Guye, C. T. R. Wilson, O. W. Richardson.
Quel rispetto portava con sé doveri e responsabilità. Gli accademici tedeschi provenivano per lo piú dalla media e alta borghesia: conoscevano la loro posizione nella scala sociale e il fatto che, occupandola, erano tenuti a rispettarne i gradini. L’istruzione ricevuta da questi uomini attribuiva grande importanza al concetto di Bildung, un’idea di formazione che andava molto al di là del semplice apprendimento di fatti e abilità. Significava coltivare e far maturare – intellettualmente, socialmente e spiritualmente – la personalità, e parallelamente apprendere ad allineare la propria visione del mondo con le richieste e le aspettative della società. Il sistema di istruzione tedesco sottolineava l’importanza della filosofia e della letteratura, che conferivano la capacità di apprezzare la Kultur; ci si aspettava che l’élite colta custodisse questo retaggio culturale del paese, un ruolo del quale si sentiva incaricata dalla nazione. Il fisico olandese Samuel Goudsmit che, come vedremo, aveva buoni motivi per riflettere sulle conseguenze della cultura scientifica tedesca dell’inizio del Novecento, scrisse nel 1947:
... la Prussia non poteva permettere alla propria borghesia piú che una libertà condizionata, e di sicuro non si poteva permettere di tirar su uomini di scienza che arrivassero a mettere in dubbio la missione divina dello Stato2.
Questa forma di devozione patriottica non era però vista come una semplice posizione politica, ma come qualcosa che andava al di là. «Come la grande maggioranza dei docenti, – scrive lo storico Alan Beyerchen, – i fisici tedeschi volevano sicuramente restare fuori dalle questioni politiche»3. Ciò non vuol dire che rigettassero completamente la politica: la maggior parte dei cittadini rispettabili si proclamava fedele a un partito, ma lo facevano proprio in quanto cittadini, mantenendo in generale una distinzione netta tra l’aspetto politico e quello professionale. Una critica ricorrente nei confronti di Einstein, ammessa persino da alcuni dei suoi sostenitori, consisteva proprio nel fatto che non rispettava questa divisione, che «faceva politica» propugnando l’internazionalismo. Il suo pacifismo, che era parte integrante di questo atteggiamento, lo rendeva ancor piú sospetto, perché il patriottismo e l’orgoglio nazionale non erano considerati una scelta ma un dovere. In netto contrasto con quello che ci si potrebbe aspettare dagli accademici odierni, gli scienziati non si schierarono quasi per niente con i movimenti popolari di sinistra filobolscevichi del primo dopoguerra. Anzi, i docenti universitari tedeschi furono per lo piú di tendenze conservatrici, contrari al governo di Weimar e pieni di risentimento per le riparazioni di guerra.
La fisica, una disciplina giovane e meno radicata nella tradizione di molte altre, era in qualche misura piú progressista, ma anche qui non dobbiamo pensare che ciò avesse lo stesso significato di oggi. Il presunto atteggiamento apolitico degli accademici tedeschi era in realtà ritagliato su misura per calzare con una precisa posizione politica: era «apolitico» assecondare la convenzione di sostenere il militarismo e il patriottismo tedeschi, cosí come porsi in modo antagonista nei confronti della democratica Weimar.
Il rivoluzionario riluttante.
Nessuno esemplifica meglio di Max Planck i tratti tradizionalisti dello scienziato tedesco fin de siècle. Secondo il suo biografo John Heilbron,
... il rispetto delle leggi, la fiducia nelle istituzioni, la dedizione al dovere, l’assoluta onestà – che talvolta giungeva a trasformarsi in uno scrupolo eccessivo – contraddistinguevano la personalità di Planck4.
Questi furono i suoi punti di forza, i motivi per cui dobbiamo considerarlo un uomo d’onore. Ai tempi del nazismo sarebbero divenuti anche punti di debolezza, che l’avrebbero intrappolato nella stasi e nel compromesso.
Nato nel 1858 a Kiel, nello Holstein, quando era ufficialmente parte della Danimarca, Planck era un uomo mite; come si descrive egli stesso: «per mia natura tranquillo e poco propenso a discutibili avventure»5. La miglior avventura che potesse concepire era lontana dagli affanni confusi e imprevedibili della comunità umana: le scienze. Dichiarava:
Il mondo esterno è qualcosa di indipendente dall’uomo, qualcosa di assoluto, e la ricerca delle leggi che si applicano a quest’assoluto mi appariva la piú sublime delle attività scientifiche6.
Come molti scienziati odierni, Planck sembrava trovare e apprezzare nella sua disciplina un ordine astratto che non chiedeva molto all’anima umana. I suoi rapporti con gli altri non mancavano di calore, a quel che possiamo capire dall’affetto che ispirava, ma erano condotti con grande riserbo e senso del decoro: solo con i pari grado riusciva a rilassarsi e a godersi un sigaro.
Ma a questa natura tranquilla non era estranea una certa bellicosità quando erano in ballo l’orgoglio e il sentimento nazionale. Accettando l’opinione diffusa che allo scoppio della Prima guerra mondiale la Germania fosse impegnata in uno scontro puramente difensivo, Planck scrisse alla sorella nel settembre 1914: «In che tempo glorioso viviamo. È una grande soddisfazione potersi dire tedesco»7.
Considerato a sé stante, un commento del genere potrebbe essere preso come prova di un nazionalismo esasperato. E se muoviamo quest’accusa a Planck, che i colleghi elogiavano nel 1929 per «l’immacolata purezza della sua coscienza»8, non c’è praticamente nessuno scienziato tedesco dell’epoca che non si possa bollare in modo simile. Anzi, si potrebbe rinforzare in vari modi l’accusa. Planck fu uno dei molti scienziati che firmarono il famigerato Manifesto dei 93, l’«Appello alla cultura mondiale» dell’ottobre 1914, a sostegno delle azioni militari tedesche e negando le atrocità (fin troppo reali) perpetrate nel Belgio occupato. Qui il suo nome appare a fianco di quelli dei chimici Fritz Haber, Emil Fischer, Wilhelm Ostwald e dei fisici Wilhelm Wien, Philipp Lenard, Walther Nernst, Wilhelm Röntgen, tutti passati o futuri vincitori di un Nobel (ma fra i firmatari manca, significativamente, Einstein). Inoltre Planck sosteneva il Partito popolare tedesco (Deutsche Volkspartei, DVP) di destra moderata, in cui non era difficile trovare correnti di antisemitismo. Ed era scettico nei confronti della validità politica della democrazia in senso moderno.
Max Planck (1858-1947) nel 1936.
Ma non sarebbe onesto trascegliere in questo modo i tratti del carattere di Planck, perché potremmo altrettanto bene mettere in evidenza i suoi atteggiamenti progressisti e illuminati. Sostenne il diritto delle donne a un’istruzione superiore (ma non il suffragio universale). Rifiutò di firmare un appello redatto nel 1915 da Wilhelm Wien, in cui si deplorava l’influenza sulla Germania dei fisici britannici, li si accusava di scorrettezze professionali di ogni tipo e si chiedeva l’interruzione di tutti i rapporti scientifici con l’Inghilterra. Ed ebbe il coraggio di rendersi conto dell’errore commesso associando il proprio nome al Manifesto dei 93 e di ritrattare pubblicamente durante la guerra. Una testimonianza ci è data anche dall’affetto e dalla stima che Einstein giunse a provare per lui, e dal fatto che il fisico Max Born, parzialmente ebreo, cosí ne parlò: «Si può certamente dissentire da Planck, ma può dubitare del suo carattere retto e onesto soltanto chi sia privo di carattere»9. È necessario sapere tutto ciò prima di parlare di che cosa ne fu di questo fisico e poi del suo nome.
Le caratteristiche di Planck si riflettono nella sua attività scientifica, che fu cauta, conservatrice e tradizionale, ma al contempo egli mostrò apertura mentale e generosità. Non aveva problemi a riconoscere di non essere un genio; anzi, è stato detto che aveva tanto spesso torto che non c’era da stupirsi che ogni tanto avesse ragione. Ma fece una grande scoperta, che nel 1918 gli fruttò un premio Nobel10. Riguardava un problema che può sembrare enormemente esoterico e al contempo banale: come i corpi caldi emettono radiazioni. Eppure portò alla meccanica quantistica.
La cosiddetta «radiazione di corpo nero» – la radiazione elettromagnetica (compresa la luce) emessa da un oggetto caldo e del tutto non riflettente – era da tempo un vero rompicapo. Le vibrazioni atomiche dell’oggetto fanno oscillare gli elettroni e, come aveva mostrato a metà Ottocento il fisico scozzese James Clerk Maxwell, una carica elettrica che oscilla emana onde elettromagnetiche. Piú caldi sono gli atomi e piú velocemente vibrano e cosí piú elevata è la frequenza (e piú breve la lunghezza d’onda) della radiazione emessa11.
Verso la fine dell’Ottocento Wien aveva scoperto sperimentalmente le relazioni matematiche fra la temperatura di un corpo nero, la quantità di energia che irradia e la lunghezza d’onda della radiazione piú intensa. Questa lunghezza d’onda diminuisce al crescere della temperatura, il che è un fenomeno familiare se abbiamo presente una stufa elettrica: quando si scalda, dapprima emette raggi infrarossi invisibili a elevata lunghezza d’onda (che percepiamo come calore), poi luce rossa e infine gialla. Gli oggetti ancora piú caldi acquisiscono una luminosità azzurrognola. Per cercare di spiegare questo processo di emissione da parte degli atomi caldi e quindi vibranti del corpo nero, Planck si imbatté nella natura quantistica del mondo fisico.
I precedenti tentativi di trovare una relazione tra le vibrazioni atomiche e la temperatura sembravano portare alla conclusione che la quantità di energia irraggiata dovesse crescere sempre piú al diminuire della lunghezza d’onda della radiazione. Nello spettro degli ultravioletti (cioè delle lunghezze d’onda inferiori a quella della luce violetta) questa quantità dovrebbe tendere all’infinito, un evidente controsenso detto «catastrofe ultravioletta». Nel 1900 Planck scoprí che le equazioni della radiazione di corpo nero avrebbero portato a risultati piú sensati assumendo che l’energia degli «oscillatori» nel corpo nero fosse in unità discrete, i «quanti», contenenti una quantità di energia proporzionale alla loro frequenza. Indicò questa costante di proporzionalità con h, che divenne nota come costante di Planck.
Per Planck era semplicemente un artificio matematico – come si espresse lui, un’«ipotesi fortunata»12 – per far sí che le equazioni dessero un risultato sensato. Ma Einstein la vide in un altro modo. Nel 1905 argomentò che non solo i quanti di energia di Planck si potevano considerare reali, ma che si applicavano anche alla luce: scrisse che l’energia contenuta nella luce
... rimane costituita da un numero finito di quanti di energia localizzati nello spazio e che si muovono senza suddividersi, e che non possono essere assorbiti od emessi parzialmente13.
Questi quanti di luce verranno chiamati fotoni.
Einstein spiegò che era possibile mettere alla prova la sua proposta studiando l’effetto fotoelettrico, cioè l’espulsione di elettroni e la conseguente generazione di una minuscola corrente elettrica provocate da una luce incidente su un metallo. Philipp Lenard aveva studiato approfonditamente questo effetto, e si era interrogato sul motivo per cui, se si aumenta l’intensità della luce, gli elettroni non vengono espulsi con energia crescente dal metallo, come ci si aspetterebbe. Ma nella descrizione einsteiniana, secondo la quale la luce è composta da fotoni dotati di energia determinata dalla legge di Planck, rendere la luce piú intensa non altera l’energia individuale dei fotoni; si limita a farne arrivare di piú. Ciò, a sua volta, aumenta il numero di elettroni espulsi ma non la loro energia. L’energia degli elettroni espulsi si può aumentare solo usando luce con lunghezza d’onda inferiore, corrispondente a fotoni con energia maggiore. La teoria di Einstein portò a previsioni che furono confermate sperimentalmente una decina d’anni dopo dall’americano Robert Millikan. Questo lavoro sull’effetto fotoelettrico è menzionato come motivazione primaria per il conferimento a Einstein del premio Nobel per la fisica nel 1921.
È impossibile immaginare un impatto maggiore di quello provocato dall’articolo di Einstein sulla «luce a quanti». Nessuno aveva mai messo in dubbio l’ide...