1. Non potrebbero essere piú diversi. Li accomuna soltanto il fatto di essere i soli sopravvissuti al naufragio di tutti gli altri regni del Medioevo. Il che, naturalmente, non è affatto poco. L’Europa antica è affondata sotto i colpi di due guerre mondiali e il peso di moltissimi milioni di morti (eppure si sono fatti leggerissimi, volatili, impalpabili nelle coscienze di molti milioni di europei contemporanei, come le ceneri passate per i camini), ma i regni d’Inghilterra e di Spagna sono di fronte ai nostri occhi.
Li accomuna anche un’altra caratteristica, il fatto di essere nati nel secolo XI. Meglio: di essere stati inventati, cosí come li conosciamo, nel secolo XI. Di piú: il fatto di essere stati inventati praticamente nello stesso paio di decenni. Non furono le sole invenzioni di quell’epoca, naturalmente, ma sono quelle sopravvissute, insieme all’altra, la Chiesa Cattolica Romana. È una banalità, ma vale la pena ricordarlo: si tratta delle invenzioni istituzionali e statuali di piú lungo periodo nella storia europea – certo, nulla ancora rispetto al regno di Francia, che è durato un po’ piú di tredici secoli, se aggiungiamo al conto gli anni di Luigi XVIII, Carlo X e Luigi Filippo: ma i re di Francia si sono già trasformati, alla lettera, in pezzi di museo (il ritratto del signor Louis-Charles Maigret, 1793, deriverebbe direttamente dai cuori regi di Saint-Denis e Val-de-Grâce acquistati durante le aste di nazionalizzazione, triturati, macerati, tradotti in liquido brunastro usato per gli effetti di velatura)1, i re d’Inghilterra e i re di Spagna siedono ancora, in carne e ossa, nei loro palazzi di Londra (anche se la dimora londinese ha conservato il nome del suo primo proprietario, il duca di Buckingham) e Madrid (anche se il re vive alla Zarzuela piuttosto che al Palacio de Oriente). Comunque, sono lí, si chiamano Elizabeth II di Sassonia-Coburgo e Felipe VI di Borbone. Non hanno piú nulla a che vedere con chi ha inventato i loro regni, Guglielmo duca di Normandia «il Conquistatore» e Alfonso VI di Castiglia e León «l’imperatore delle due religioni», ma sono i loro successori. Nessuno in Europa, a parte Sua Santità papa Francesco, può dire altrettanto. Le dinastie sono passate, i troni sono rimasti. Si sono a volte cercati nella storia, per esempio con Arturo ed Enrico Tudor e Caterina d’Aragona, con Filippo II ed Elisabetta I, un solo matrimonio e non dei piú felici, ma le loro storie si sono intersecate spesso. La loro storia è parte costitutiva, se non vogliamo dire istitutiva, della storia europea, i loro fili sono saldamente agganciati al telaio che ha fabbricato il nostro tessuto comune. Con buona pace della isolitudine britannica e della centralità renana. Ma torniamo al Medioevo. Alle loro origini.
Il calderone delle streghe di Macbeth2.
2. Double, double toil and trouble; Fire burn and cauldron bubble… Dal calderone esce per prima la figura di Guglielmo, duca di Normandia. La Terra degli uomini del Nord era costituita in ducato fin dall’inizio del secolo X, nel 911 Rollone e i suoi si erano collettivamente convertiti al cristianesimo e – si dice – avevano placato la legittima irritazione delle loro precedenti divinità immolando cento prigionieri cristiani: dalla qual cosa gli storici dei secoli XIX e XX hanno dedotto una ereditaria e cromosomica tendenza al pragmatismo dei Normanni e/o Vichinghi dovunque vennero a trovarsi: sarà un caso? no, non lo è: gli studiosi britannici hanno voluto vedere quel pragmatismo alle origini del proprio pragmatismo contemporaneo. (Ovviamente pragmatismo potrebbe essere chiamato anche spregiudicatezza, o perfino opportunismo, ma questo, si sa, è appannaggio solo dei corrotti e decadenti popoli meridionali del vecchio Mediterraneo e dell’Oriente piú o meno Medio, come ebbe occcasione di sostenere un defunto e molto cattolico senatore della – suo malgrado – Repubblica Italiana…) Comunque con tutto questo Rollone e i suoi Normanni non c’entrano («può andare tutto bene – o quasi – ma non si disturbi la storia»)3. Gli uomini del Nord avevano progressivamente inquadrato un’area che aveva confini tanto precisamente definiti da segni orografici quanto ampiamente vaghi per via della storia precedente di quei territori: un’area, come tante altre in Europa, insieme incerta e precisa, passibile di frequenti variazioni e di cui neppure a metà del secolo XII si poteva, o voleva, dare una definizione chiara4. Comunque, nascevano come vassalli dei re di Francia e restarono tali. Da lí, anche una voragine di problemi che inghiottirono un numero incalcolabile di vite umane e si trascinarono fino ai tempi di Enrico VIII Tudor. Negli anni Trenta del secolo XI il duca Roberto di Normandia presta il servizio feudale a Enrico I di Francia, figlio di Roberto il Pio, contro i ribelli: ha un figlio bastardo, Guglielmo, che diventerà duca di Normandia e nel 1066 re d’Inghilterra: il Conquistatore.
L’isola era già stata ripetutamente battuta dalle incursioni dei Vichinghi di Scandinavia e Danimarca; nel 1016 finí per essere conquistata per la prima volta dagli uomini del Nord, Danesi in questo caso, il cui re Canuto il Grande fu il fondatore di un grande regno che includeva la Norvegia. Etelredo, l’anglosassone re d’Inghilterra, morí in guerra. Aveva sposato una normanna, Emma di Normandia, e la regina vedova divenne la sposa di Canuto, che si era convertito o almeno aveva accettato il battesimo. La giovane regina vedova fu soprattutto una regina madre: garantí la successione nel regno proprio a un figlio di Etelredo, Edoardo il Confessore, su cui vegliò fino al 1052. Edoardo regnò per circa trent’anni, ma nel 1066 dovette congedarsi dal mondo. Ed ecco i problemi: sua moglie Edith, che discendeva dai re degli Svedesi, aveva un fratello, Harold; Guglielmo di Normandia, per quanto illegittimo, poteva chiamare prozia Emma, in quanto figlia del duca Riccardo I che aveva generato Riccardo II padre di suo padre Roberto I. Tutto si svolse molto rapidamente in quel 1066: Guglielmo rivendicò il regno, sbarcò in Inghilterra; il 14 ottobre nel Sussex meridionale, proprio sulla costa, la battaglia decisiva. La famosa giornata di Hastings. Harold aspettava i Normanni proprio lí, appena sbarcati. Non l’aveva turbato per nulla il famoso diciottesimo passaggio della cometa di Halley, che «splendente nel cielo, con la coda distesa, | agli Angli annuncia la strage fatale» come cantò fra il 1067 e il 1068 il vescovo di Amiens Guido. Guido apparteneva a una delle famiglie tipiche del quadrante nord-occidentale della Francia, era imparentato un po’ con tutti, con i conti di Boulogne, di Ponthieu, con i duchi di Normandia5; il suo carme eroico La battaglia di Hastings (Carmen de Hastingae proelio) è una assai verbosa (835 versi) ma molto informata e interessante esercitazione di lode per il re vincitore; e, alla fin dei conti, meno noiosa di quanto si possa temere conoscendo il genere letterario e avendo presente la cifra stilistica dei vescovi scrittori… Anzi, per alcuni tratti è molto vivace e sincopata: ad esempio l’occupazione di Dover dice tutto in soli otto versi:
ricevute le chiavi, il re entrò nelle mura del castello
e ordinò agli Angli di evacuare le case.
Vi introdusse coloro per opera dei quali aveva sottomesso il regno
e mandò ciascuno al proprio alloggio.
Subito il terrore invase i dintorni del castello,
riempiendo città e borghi, e anche le fortezze,
e la città piú nobile di tutte, chiamata Canterbury,
mandò i suoi legati e per prima portò i suoi tributi6.
Per non parlare del fatto che la sua rappresentazione della battaglia non ha nulla da invidiare al celebre racconto di Waterloo fatto da Victor Hugo nei Misérables: qui l’assalto della guardia napoleonica al quadrato degli iron soldiers di Wellington che erano appena indietreggiati senza perdere la formazione nonostante il bombardamento dell’artiglieria, lí gli attacchi dei cavalieri normanni agli anglosassoni appiedati che non si erano smossi neppure sotto la pioggia di quadrelle – o magari i racconti si assomigliano solo perché è abbastanza naturale che una carica di cavalleria (galoppo, trotto o piccolo trotto che sia) arrivi estenuata se deve salire su per un rilievo in cima al quale c’è un muro compatto e profondo di uomini in attesa7. Fatti salvi, naturalmente, gli esiti delle battaglie.
Guglielmo vince, Harold cade sul campo (anche se la cosa non è affatto certa, cioè non lo sarà per ancora un secolo e mezzo: Guido d’Amiens è solo un tassello di un puzzle in cui le fonti si contraddicono a vicenda e polemizzano tra loro a distanza, e nel 1206 nell’abbazia di Waltham si negò che lí si fosse ritirato dopo la sconfitta, lí fosse vissuto e morto, e lí fosse sepolto come aveva scritto Guglielmo di Malmesbury: semmai era fuggito e morto in Galles!)8, il normanno cambia «il nome di conte con il nome di re», viene incoronato cingendo una corona nuova di zecca e piena di gemme diverse che simboleggiano tutte le virtú possibili e necessarie, viene unto e consacrato «re, all’uso dei re»: se ne incarica Eldredo, arcivescovo di York, che insieme a quello di Canterbury ha accompagnato il re all’incoronazione, ma Guido di Amiens non ne fa i nomi9. E c’è un motivo.
Canterbury è un’invenzione dei Normanni. Ovviamente preesisteva a loro come la morte preesisteva ai cluniacensi, ma è solo a partire dal regno di Guglielmo che la sua chiesa pretenderà il primato su tutte le chiese inglesi e ingaggerà una lunga lotta con York; nel 1070, a conquista ormai conclusa e in un regno ormai «normalizzato», ne diventerà arcivescovo Lanfranco, abate di Saint-Étienne a Caen, di origine italica e che aveva già servito Guglielmo ottenendo da papa Nicola II la dispensa per il suo matrimonio irregolare10. E Lanfranco sarà il successore di Stingando, che era riuscito a inimicarsi il nuovo re per i suoi collegamenti con le rivolte nell’Anglia orientale, cosí come era riuscito a provocare l’irritazione di papa Alessandro II per aver accettato il pallio da Benedetto X: uno dei motivi per cui nel 1066 Alessandro si era affrettato a mandare a Guglielmo il Conquistatore lo stendardo di san Pietro; la conquista sarebbe stata bene accetta alla Sede Apostolica.
Difatti la Sede Apostolica avrà nei confronti di Guglielmo un atteggiamento di grande benevolenza. Il re d’Inghilterra non si asterrà affatto dall’investitura né dalla simonia, ma sarà sempre trattato con grande attenzione; Gregorio VII lo considererà sempre un suo interlocutore privilegiato. L’8 maggio 1080 gli manderà una specie di lettera-manifesto.
Come [Dio] ha disposto, per far comparire dinanzi agli occhi della carne nei diversi momenti la bellezza del mondo, il sole e la luna come lumi di gran lunga piú eminenti rispetto a tutti gli altri, cosí, affinché la creatura che la sua bontà aveva creato in questo mondo a sua propria immagine non fosse tratta in pericoli di errore e di morte, ha provveduto che fosse retta, secondo diversi uffici, dalla dignità apostolica e da quella regia.
Le implicazioni, come si sa, erano molteplici. In ogni caso erano i re, piuttosto, a essere chiamati sole, e questo non era mancato a Guglielmo; Ugo d’Amiens, ancora lui, non solo l’aveva detto pari a Davide, piú sapiente di Salomone, piú valente e generoso di Carlo Magno, ma «piú bello del sole»… Comunque, nessuno rispose a Gregorio VII: il rapporto di Ildebrando (che, si è sostenuto, aveva appoggiato la causa di Guglielmo nel 1066) con il re d’Inghilterra fu sostanzialmente a senso unico11.
Cluny, dopo il 1077, ebbe maggior fortuna… ma torneremo sui mirabili doni fatti a Ugo di Semur. Nella nuova organizzazione del regno le chiese furono in genere governate da uomini provenienti dalla Normandia e in vario modo legati con i gruppi dirigenti normanni se non appartenenti alla stessa famiglia del duca re (già, perché seppure fosse un re, Guglielmo continuava a essere un duca, e di conseguenza un vassallo del re ...