Le due guerre
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Le due guerre

Guerra fascista e guerra partigiana

  1. 216 pagine
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Le due guerre

Guerra fascista e guerra partigiana

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«Sono un testimone del secondo conflitto mondiale. O meglio, sono un testimone delle "due guerre" del secondo conflitto mondiale: della guerra fascista e della guerra partigiana».
Cosí, nell' Introduzione, Nuto Revelli anticipa il contenuto del suo libro. Due guerre: quella in cui il popolo italiano è stato trascinato dalla follia nazifascista sul Fronte occidentale, su quello greco-albanese e infine sul Fronte russo; e quella guerra partigiana, che ha significato il riscatto di un'intera nazione dopo due decenni di dittatura.
Un libro tra storia e memoria: storia ricostruita «dal basso», dalla parte degli umili, come ci ha abituato l'autore della Guerra dei poveri e del Mondo dei vinti; e memoria personale, tanto piú coinvolgente in quanto vita vissuta - e sofferta - dal suo narratore. Un libro di storia - rivolto ai giovani, che hanno il diritto di sapere, e ai meno giovani, che hanno il dovere di ricordare -, che ripercorre le vicende italiane dal 1922 al dopo-Liberazione.
«Perché ho voluto rivivere il mio fascismo, la mia guerra fascista, la mia guerra partigiana? Perché credo nei giovani. Perché voglio che i giovani sappiano».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858417980
Argomento
History
Categoria
World History

Capitolo ottavo

La guerra partigiana nel Cuneese. La IV banda
e il rastrellamento dell’aprile 1944. La Brigata
«Carlo Rosselli» e il rastrellamento dell’agosto
1944. La Brigata «Carlo Rosselli» in Francia

A metà marzo 1944 dalla banda «Italia Libera» nasce un’altra banda, la IV, quella di cui divento comandante. E ci trasferiamo nel Vallone dell’Arma.
Il Vallone dell’Arma è sulla sinistra orografica della Valle Stura. Si stacca da Demonte, che è a quota 780 metri e sale via via fino a Bandia, in alta montagna, a quota 2400. Un vallone laterale, abbastanza stretto, con una vegetazione di faggi sul versante sinistro salendo verso Bandia e quasi completamente brullo lungo il versante di destra. Con la montagna che diventa aspra e spoglia man mano che si sale, che si prende quota. Le borgate, le frazioni, la presenza della gente in questo vallone: il Fedio, la borgata piú bassa a 2-3 chilometri da Demonte; oltre il Fedio c’è San Maurizio, Trinità, San Giacomo e, infine, su in alta quota, la villetta del Viridio (una casa di caccia isolata, proprio sotto il monte Viridio).
La popolazione – parlo del 1944 – del Fedio, di San Maurizio, di Trinità è abbastanza numerosa. Pochissimi gli abitanti a San Giacomo, la borgata piú alta: 3 famiglie in tutto.
Cosí disponiamo i distaccamenti e schieriamo la nostra formazione nel Vallone dell’Arma.
Al Fedio l’avvistamento con Marco, uno dei miei ufficiali. A Trinità il distaccamento di Ivano; a San Giacomo il distaccamento «comando» con Alberto; alla villetta del Viridio il distaccamento di Nino. La forza numerica della IV banda è di un centinaio di uomini.
Riusciamo a realizzare un collegamento telefonico che unisce il comando di San Giacomo con tutti i distaccamenti, utilizzando materiale delle linee telefoniche militari. La IV banda è ben armata con mitragliatori, mitragliatrici, mortai: il merito è di Alberto Bianco che, quando abbiamo lasciato Paralup, ha arraffato armi agli altri che sono rimasti. Abbiamo pochi mitra Beretta e pochi Sten. Non abbiamo mai avuto lanci da parte degli Alleati e quindi non è che abbiamo molte armi individuali di questo tipo. Molti, invece, i fucili «91» e i moschetti «38».
Sono un privilegiato: ho un Thompson, un’arma individuale sicura e ambita. Ce n’erano pochissimi in giro ed erano arrivati in provincia di Cuneo dalla Francia, attraverso la 4ª Armata: armi americane che provenivano dall’Africa Settentrionale. Il Thompson era un’arma rara a tal punto che rappresentava un po’ il bastone del comando: quando si vedeva un partigiano che aveva in dotazione un Thompson, si diceva «quello è certamente un comandante».
Come a Paralup, anche nel Vallone dell’Arma non facciamo requisizioni. Tutto quanto ci occorre lo acquistiamo. Una delle nostre regole è di rispettare la gente che ci ospita: rispettarla e proteggerla dai fascisti, dai tedeschi, dai banditi, dai delinquenti comuni. Quindi molta disciplina non formale, ma sostanziale. E chi sbaglia paga. Ricordo che il 18 marzo, il giorno in cui la IV banda arrivò nel Vallone dell’Arma, incontrai il parroco di Trinità, don Barale, che mi disse: «Non vi comporterete mica come il gruppo che c’era qui prima di voi? Quelli giocavano al tiro a segno, e come bersaglio avevano scelto la campana della chiesa della parrocchia». Ho risposto che non eravamo come quelli di prima, che noi eravamo dei «najoni», piú severi, piú rigorosi.
Anche la forma, anche l’esteriorità ha la sua importanza: niente abbigliamenti stravaganti, alla bravaccia, di cui d’altra parte nessuno avverte la necessità. I partigiani erano vestiti con gli abiti di casa, con delle giacchette e dei pantaloni leggeri leggeri. C’era il problema delle scarpe, perché molti erano arrivati in montagna con scarpe non adatte. Ho già ricordato uno dei miei, Pinot, che dal- l’Astigiano era arrivato con gli zoccoli ai piedi. Era un ragazzo di 17 anni. Aveva sentito dire che c’erano i partigiani. Era venuto su da noi. L’abbiamo interrogato, come interrogavamo tutti quelli che si presentavano per essere arruolati. Ha confessato che era venuto in montagna perché aveva fame e sperava di mangiar bene. Ma aveva sbagliato indirizzo, perché mangiavamo in modo infame. Avevamo vent’anni e mangiavamo dei minestroni, delle verdure cotte con pezzetti di carne. Avevamo un cuoco, Janot1, morto poi a Sant’Albano Stura, che era un cuoco improvvisato. L’avevo detto a Pinot2: «Sei venuto qui per mangiare bene. Ma lungo la strada era pieno di presidî fascisti: lí avresti mangiato bene». E lui mi ha risposto: «Ma io con quelli non volevo andare».
Il comando di settore (comandante militare Ezio Aceto, commissario politico Livio Bianco) ha la sua sede in San Giacomo, accanto al comando della IV banda.
Molta della nostra attività è rivolta all’inquadramento militare della formazione. La maggior parte dei partigiani non aveva nessuna esperienza di vita militare, non aveva mai sparato un colpo di fucile. Bisognava quindi prepararli. Sempre in questo periodo acquisiamo nuove armi e munizioni e, in previsione di un rastrellamento (eventualità che è sempre nell’aria) ci dedichiamo con molto impegno allo studio di una tattica e di un «ordine di operazioni» che tengano conto delle nostre forze (se volete, della nostra debolezza) e del terreno, dell’ambiente che ci circonda. Studiamo come si può affrontare un rastrellamento.
Ezio, il mio comandante di settore, ha acquisito una certa esperienza nei combattimenti di Boves e giustamente insiste perché lo schieramento di difesa non sia rigido, non sia trasversale alla valle. Ha un concetto ben chiaro in testa: non fare sistemazioni trasversali alla vallata, come delle dighe, che sono facilmente superabili dal nemico, ma inventare qualcosa di diverso. Ezio ha di queste intuizioni. Ma ha piú la mentalità del «colpista» che del comandante di uomini. Il colpista è colui che fa il «colpo», l’azione, e poi sparisce, ripiega. Il «colpista» è un personaggio importante nella guerra partigiana. Si pensi a quanto è avvenuto nelle città, e all’importanza che hanno avuto i «colpisti» delle SAP (Squadre di Azione Patriottica) e dei GAP (Gruppi di Azione Patriottica)3. Ezio ha un passato di «colpista», soprattutto nei mesi del 1943 e con il gruppo dei bovesani.
Livio mi segue nel mio lavoro, mi concede la fiducia piú assoluta. Alberto, Ivano, Marco e Nino, i miei quattro comandanti di distaccamento, mi sono di grande aiuto, sono collaboratori validissimi.
Livio, il commissario politico, un po’ teme l’eccessiva militarizzazione della IV banda. Io insisto per militarizzare e Livio teme questa mia insistenza, ma si rende conto che alcune leggi della guerra tradizionale sono valide anche nella guerra partigiana. Io mi dedico con passione all’inquadramento, all’addestramento, alla preparazione militare degli uomini. Ogni distaccamento non deve considerarsi un reparto autonomo che di fronte al nemico spara e poi ripiega scegliendo la soluzione creduta migliore. Ogni distaccamento ha una sua autonomia, ma relativa. Deve rispettare certe regole del gioco concordate preventivamente. Niente frantumazione della banda, ma rispetto di un ordine di operazioni che coordina le azioni di fuoco e di movimento di ogni squadra, di ogni distaccamento.
Non sono i fascisti che ci preoccupano. I fascisti – lo grido ben forte, perché li ho visti con i miei occhi – non sono dei combattenti. I fascisti li temiamo e li odiamo, sottolineo «li odiamo», perché arrivano sempre dopo le operazioni di guerra, arrivano sempre dopo i rastrellamenti, al seguito dei tedeschi. I fascisti sono feroci nelle rappresaglie contro la popolazione, contro gli inermi. I fascisti della «Muti»4 di Borgo San Dalmazzo li temiamo perché sono dei torturatori, crudeli, spietati, che terrorizzano la popolazione, incolpandola di connivenza, di essere amica dei partigiani. Ne hanno combinate di tutti i colori, torturando i congiunti dei partigiani o i supposti congiunti, portandoli nei loro comandi, bastonandoli a sangue per farli parlare.
Rientrava proprio nel loro compito, quello di terrorizzare la popolazione. Anche i tedeschi ci tenevano a questo «lavoro sporco», perché terrorizzando speravano di far diventare nemica la popolazione nei nostri confronti. Questo era il gioco. Noi partigiani potevamo vivere se la popolazione ci era amica: incrudendo, rendendo difficili i rapporti tra noi e la popolazione, facevano il loro gioco.
Sono i tedeschi che ci preoccupano come combattenti, i fascisti no. Sono i tedeschi che ci preoccupano perché, nei rastrellamenti in grande stile, impiegano dei reparti particolarmente addestrati per la lotta antipartigiana. Fanno arrivare reparti dal Veneto, da altre zone, reparti di Alpenjäger, di truppe di montagna, gente esperta, gente che sa combattere in montagna.
Io cerco in tutti i modi di smitizzare «l’invincibilità» del soldato tedesco, che c’era nei nostri uomini. Non avevano mai combattuto. Tolto un esiguo gruppo – quelli di San Matteo – avevano mai visto i tedeschi in combattimento. Dico sempre ai miei uomini: «anche i tedeschi sono di carne e ossa. E scapperanno se sapremo adottare una tattica giusta, se sapremo sparare senza incertezze». Questo dicevo riguardo la mia esperienza in Russia: «ne ho visti correre... Quando erano in pericolo ridiventavano uomini, non piú macchine come credevano di essere. Quel che conta è che esista una solidarietà di banda, per cui ognuno di noi riesca a dare il meglio di se stesso. Chi si chiude nell’egoismo, chi si preoccupa della propria pelle e basta, tradisce gli altri, tradisce i suoi compagni».
Un altro concetto che cercavo di far entrare in testa agli uomini era che il valore di un reparto, di una banda, non si misura con le perdite che subisce, ma con le perdite che riesce a infliggere al nemico. Appartiene al vecchio esercito la tesi di comodo secondo la quale «molti morti» equivalgono a «molto onore». No. Noi di quel tipo di onore non sappiamo che farcene. Infliggiamo molte perdite al nemico e cerchiamo di evitarne delle nostre: questo è il concetto base che cercavo di far entrare nella testa dei nostri partigiani. Non avevo dimenticato i massacri del Fronte russo, quel 1° settembre dei Battaglioni Vestone e Valchiese, e consideravo la vita di ogni uomo importante, preziosa: «la vita di ogni uomo vale la vita di tutta la banda».
Quindi niente pressapochismo, niente pessimismi o ottimismi eccessivi, niente avventure. Perché le avventure si pagano care. Ma un impegno tutto teso non alla perfezione, ma quasi... Livio in testa, Livio per primo, Livio era per le cose ben fatte. Niente che restasse nel vago: doveva essere tutto chiaro.
A mano a mano che si avvicinava l’inizio del rastrellamento, le discussioni con Ezio, comandante di settore, diventavano piú difficili, piú polemiche. Non condivido la sua sfiducia negli ufficiali e negli uomini della IV banda. E tento di fargli capire che le sue minacce preventive, ingiustificate, a vuoto, mettono in crisi la banda, disorientano gli uomini. Lui pensi al comando del II settore, e non interferisca con delle minacce, tipo Caporetto, alla Cadorna: «Il primo che scappa va fucilato»!
Ezio dà per scontato che non pochi dei partigiani non reggeranno alla prova di un rastrellamento e promette pene severissime. La sua è una sfida pericolosa, perché nel corso del rastrellamento tutti gli occhi saranno puntati proprio su di lui, senza pietà, pretendendo che osservi le regole del gioco, e sia di esempio. Infatti è andata proprio cosí. È successo proprio quello cui ho accennato adesso. Nessuno dei nostri è scappato, però tutti hanno guardato cosa faceva il comandante di settore: «noi ci siamo, e il comandante di settore?»
Ezio non manca di idee brillanti. Ha previsto una serie di interruzioni, di ponti che dovranno saltare in aria nel momento giusto, sia nel Vallone dell’Arma, che nella Valle Grana. Io dico: «Ezio è un ottimo “colpista”, è un ottimo “guastatore”, ma, ribadisco, ha poca esperienza di guerra, di guerra con gli uomini, e soprattutto non riesce a capire gli uomini».
A confermarci che il rastrellamento è ormai imminente sono le spie che catturiamo. Prima un fascista della «Muti», un giovane di vent’anni. È arrivato su e tentava di arruolarsi travestito da partigiano. Lo abbiamo scoperto subito. Poi una donna della Federazione fascista repubblicana di Cuneo, piú sprovveduta che pericolosa. È arrivata a Demonte, dove c’era un servizio di sorveglianza. È scesa dal trenino dove c’erano due dei nostri a vedere chi arrivava dalla pianura. Le hanno chiesto i documenti e lei non voleva darli. Poi ha detto che era venuta a comprare del burro e delle uova. I due partigiani hanno insistito che volevano i documenti. Aveva la borsetta in mano e finalmente l’ha aperta e aveva dentro una rivoltella e la tessera d’iscrizione al Fascio repubblicano. Un disastro, era una sprovveduta, tanto sprovveduta che non l’abbiamo fucilata.
Arriva da noi, a San Giacomo, anche la mascotte della «Muti» di Borgo San Dalmazzo, un ragazzino di 14 anni, goffo e canaglia. L’hanno catturato quelli di Rosa5, sul rettilineo di Roccasparvera. È arrivata una camionetta che andava a prelevare qualche padre di partigiano o di renitente, ma lí c’era un gruppetto dei nostri che gli ha sparato dentro. Hanno ammazzato l’autista e quello che era vicino al ragazzo, dietro, nella camionetta. I partigiani hanno visto il camioncino sbandare e hanno capito che avevano fatto fuori l’autista. Poi vedono uscire uno da dietro, piccolo, con quei bragoni della «Muti» fino alle caviglie, e hanno creduto che fosse un nano vestito da fascista. È sceso in mezzo alla strada e si è messo a fare pipí, per non farsela addosso dalla paura. Lo hanno preso e portato in montagna da noi. Lo abbiamo interrogato.
Noi non torcevamo un capello ai fascisti, alle spie: le fucilavamo. Loro, quando ci prendevano, ci impiccavano. Quindi né schiaffi, né pugni. Niente, rispetto assoluto.
Anche quella ragazza è stata rispettata, nessuno le ha messo un dito addosso: rispetto assoluto. Quando abbiamo dovuto perquisirla, abbiamo incaricato una contadina di San Giacomo, Maria, e le abbiamo detto: «se la porti in una stanza, la faccia svestire». Ma quella stupidotta – ogni tanto la incontro ancora per Cuneo – ha detto: «piuttosto ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Le due guerre
  3. Presentazione di Giorgio Rochat
  4. Introduzione
  5. Le due guerre
  6. I. Il fascismo: 1922-1939
  7. II. La guerra sul Fronte occidentale
  8. III. Il Fronte greco-albanese 1940-41 e l’Accademia militare di Modena
  9. IV. Il Corpo di Spedizione Italiano sul Fronte russo (CSIR). La preparazione del Corpo d’Armata Alpino
  10. V. L’8ª Armata (ARMIR): luglio 1942 – 16 gennaio 1943. Il Corpo d’Armata Alpino sul Fronte russo
  11. VI. La ritirata di Russia e la prigionia
  12. VII. Dal 25 luglio all’8 settembre 1943. Le prime bande partigiane
  13. VIII. La guerra partigiana nel Cuneese. La IV banda e il rastrellamento dell’aprile 1944. La Brigata «Carlo Rosselli» e il rastrellamento dell’agosto 1944. La Brigata «Carlo Rosselli» in Francia
  14. IX. La liberazione di Cuneo e il dopo-Liberazione
  15. Cartine
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Dello stesso autore
  19. Copyright