Libro blu e Libro marrone
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Libro blu e Libro marrone

  1. 320 pagine
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Libro blu e Libro marrone

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I due testi di cui si compone questo volume sono tra le opere più rilevanti di Wittgenstein. Wittgenstein dettò il Libro blu ai suoi alunni a Cambridge, nel corso del 1933-1934, e ne fece ciclostilare delle copie. Dettò il Libro marrone ai suoi discepoli nel 1934-1935. Ne fece dattiloscrivere tre copie, che mostrò solo ad amici e discepoli. Se Wittgenstein avesse dato un nome a ciò che aveva dettato, lo avrebbe probabilmente chiamato Osservazioni filosofiche. Ma la prima parte aveva una copertina blu; la seconda, una copertina marrone; di qui i nomi di Blue Book e Brown Book. Questa edizione (che presenta, oltre al testo inglese dei quadreni, integrazioni e appunti della versione tedesca) consente di seguire l'attività di Wittgenstein docente e di avvicinarsi al suo pensiero in maniera più diretta. Delle Ricerche filosofiche questi due testi sono al contempo la premessa e l'abbozzo iniziale, e facilitano una più ricca percezione del "sistema" del secondo Wittgenstein.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858420102

Libro marrone

I.

Agostino, descrivendo come egli apprese il linguaggio, dice d’avere imparato a parlare apprendendo i nomi delle cose1. È chiaro che chi dica ciò ha in mente il modo nel quale un bambino apprende parole quali «uomo», «zucchero», «tavolo», etc., e non tanto parole quali «oggi», «non», «ma», «forse».
Supponi che uno descriva un gioco degli scacchi senza menzionare né l’esistenza, né le operazioni (la funzione) dei pedoni. La sua descrizione del gioco come fenomeno naturale sarà incompleta.2 Potremmo però anche dire che egli abbia descritto completamente un gioco piú semplice. In questo senso, possiamo dire corretta, per un linguaggio piú semplice che i nostri, la descrizione agostiniana dell’apprendimento del linguaggio. Immagina questo linguaggio: –
1). La funzione di esso è la comunicazione tra un muratore A ed il suo manovale B. B deve porgere ad A pietre per costruzione. Vi sono cubi, mattoni, lastre, travi, colonne. Questo linguaggio consta delle parole «cubo», «mattone», «lastra», «colonna». A pronuncia una di queste parole; B reagisce portando una pietra d’una certa forma. Immaginiamo una società ove questo sia l’unico sistema di linguaggio. Il bambino apprende questo linguaggio dagli adulti mediante l’addestramento all’uso di esso. Io uso la parola «addestramento» in modo strettamente analogo a quello in cui noi parliamo di addestramento degli animali a fare certe cose. Ciò si fa mediante l’esempio, il premio, la punizione, etc. Parte di questo addestramento è indicare una pietra per costruzione, dirigere su essa l’attenzione del bambino, e pronunciare una parola. Chiamerò questa procedura: insegnamento dimostrativo (mediante indicazioni) [«demonstrative»] delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, l’uno pronuncia le parole come ordini, l’altro agisce in conformità ad esse. Ma l’apprendimento e l’insegnamento di questo linguaggio conterranno questa procedura: il bambino, semplicemente, ‘denomina’ le cose, ossia pronuncia le parole del linguaggio quando l’insegnante índica le cose. E vi sarà un esercizio ancora piú semplice: il bambino ripete le parole che l’insegnante pronuncia.
(Nota. Obiezione: la parola «mattone», nel linguaggio 1), non ha il significato che essa ha nel nostro linguaggio. – Questo è vero se significa che, nel nostro linguaggio, vi sono usi della parola «mattone» differenti dai nostri usi di questa stessa parola nel linguaggio 1). Ma non usiamo noi talvolta la parola «mattone!» proprio in questo modo? O diremmo noi che essa, quando la usiamo, sia un enunciato ellittico, un’abbreviazione per: «Portami un mattone»? È giusto dire che, se noi diciamo «mattone!», noi intendiamo: «Portami un mattone»? Perché dovrei tradurre l’espressione «mattone!» nell’espressione: «Portami un mattone»? E, se esse sono sinonime, perché non dovrei dire: se egli dice «mattone!», egli intende «mattone!»…? Oppure: perché egli non dovrebbe essere capace d’intendere semplicemente «mattone!», se è capace d’intendere: «Portami un mattone» (a meno che si voglia asserire che, mentre dice a voce alta «mattone!», di fatto egli dica sempre nella sua mente, tra sé e sé: «Portami un mattone»)? Ma quale ragione avremmo noi d’asserire ciò? Supponi che qualcuno domandi: chi dà l’ordine: «Portami un mattone», deve intendere l’ordine stesso come tre parole? non lo può egli intendere come una parola composta sinonima della parola singola «mattone!»? Viene da rispondere: egli intende tutt’e tre le parole se, nel suo linguaggio, egli usa quell’enunciato in contrapposizione ad altri enunciati ove sono usate queste parole (come, ad esempio: «Porta via questi due mattoni»). Ma che cosa dire, se io domandassi: «Ma come viene contrapposto il suo enunciato a questi altri enunciati? Deve egli averli pensati simultaneamente, o poco prima, o poco dopo, o è sufficiente che egli li abbia appresi una volta, etc.?»? Quando ci siamo posti questa domanda, appare irrilevante quale di queste alternative sia vera. E noi propendiamo a dire che ciò che è realmente rilevante è solo che queste contrapposizioni esistano nel sistema di linguaggio che egli usa, e che non è affatto necessario che esse siano presenti nella sua mente quando egli pronuncia il suo enunciato. Ora, confronta questa conclusione con la nostra domanda originaria. Quando l’abbiamo formulata, ci sembrava di formulare una domanda sullo stato della mente o spirito [«mind»] di chi dice l’enunciato, mentre l’idea di significato, cui siamo giunti alla fine, non era quella d’uno stato della mente. Noi concepiamo il significato dei segni talvolta come stati della mente di chi li usa, talvolta come il ruolo (l’officio) che i segni assolvono in un determinato sistema di linguaggio. Il nesso tra queste due idee è che le esperienze mentali, che accompagnano l’uso d’un segno, sono indubbiamente causate dal nostro uso del segno in un particolare sistema di linguaggio. William James parla di sensazioni specifiche che accompagnano l’uso di parole quali «e», «se», «o»3. E indubbiamente almeno certi gesti sono spesso connessi con tali parole: un gesto che congiunge, con «e»; un gesto che respinge, con «non». E vi sono evidentemente sensazioni visive e muscolari connesse con questi gesti. D’altra parte, è abbastanza chiaro che queste sensazioni non accompagnano ogni uso delle parole «non» ed «e». Se, in qualche lingua, la parola «ma» significasse ciò che «non» significa in italiano, è chiaro che noi non confronteremmo i significati di queste due parole mediante il confronto delle sensazioni che esse producono. Domandiamoci quale mezzo noi abbiamo per scoprire le sensazioni che quelle parole producono in differenti persone e in differenti occasioni. Domandiamoci: «Quando io ho detto: ‘Dàmmi una mela e una pera, e vattene’, ho io avuto la stessa sensazione quando ho pronunciato le due parole ‘e’?». Ma noi non neghiamo che chi usa la parola «ma» come «non» in italiano avrà, in senso lato, sensazioni che accompagnano la parola «ma» simili alle sensazioni che gli italiani hanno quando usano «non». E la parola «ma» nelle due lingue sarà nel complesso accompagnata da differenti insiemi d’esperienze).
2). Consideriamo ora un’estensione del linguaggio I). Il manovale conosce a memoria la successione delle parole da uno a dieci. All’ordine: «Cinque lastre!», egli va dove si conservano le lastre, dice le parole da uno a cinque, prende una lastra per ogni parola, e porta le lastre al muratore. Qui ambedue le parti usano il linguaggio dicendo le parole. Imparare a memoria i numerali sarà uno degli aspetti essenziali dell’apprendimento di questo linguaggio. L’uso dei numerali sarà ancora insegnato dimostrativamente (mediante indicazioni). Ma ora la stessa parola (ad esempio, «tre») sarà insegnata indicando o lastre, o mattoni, o colonne, etc. E, d’altra parte, numerali differenti saranno insegnati indicando gruppi di pietre della stessa forma.
(Osservazione: abbiamo sottolineato l’importanza dell’imparare a memoria la successione dei numerali poiché, nell’apprendimento del linguaggio I), non v’era alcun aspetto paragonabile a questo. E ciò ci mostra che, introducendo i numerali, noi abbiamo introdotto nel nostro linguaggio un genere di strumento affatto differente. La differenza di genere è molto piú evidente quando consideriamo un esempio cosi semplice che quando consideriamo il nostro linguaggio comune, con innumerevoli generi di parole tutte piú o meno simili quando sono nel dizionario. –
Che cosa hanno in comune le spiegazioni dimostrative (mediante indicazioni) dei numerali con le spiegazioni dimostrative (mediante indicazioni) delle parole «lastra», «colonna», etc., se non un gesto e l’atto di pronunciare le parole? Il modo, nel quale tale gesto è usato nei due casi, è differente. Questa differenza è oscurata se si dice: «Nell’un caso, noi indichiamo una forma; nell’altro caso, un numero». La differenza appare chiara solo quando consideriamo un esempio completo (ossia, l’esempio d’un linguaggio completamente elaborato nei particolari)).
3). Introduciamo un nuovo strumento di comunicazione: – un nome proprio. Un nome proprio è dato ad un oggetto particolare (una particolare pietra per costruzione) indicandolo e pronunciando il nome. Se A dice il nome, B porta l’oggetto. L’insegnamento dimostrativo (mediante indicazioni) d’un nome proprio differisce dall’insegnamento dimostrativo (mediante indicazioni) nei casi 1) e 2).
(Osservazione: questa differenza, tuttavia, non risiede né nell’atto d’indicare e di pronunciare la parola, né in un atto mentale (l’intendere?) che accompagni la parola, ma nel ruolo (nell’officio) che la dimostrazione (l’indicare e il pronunciare) assolve in tutto l’addestramento e nell’uso che ne è fatto nella pratica della comunicazione mediante questo linguaggio. Si potrebbe pensare che la differenza possa descriversi dicendo che, nei differenti casi, noi indichiamo differenti generi d’oggetti. Ma supponi che io indichi con la mano una maglia blu. Quale differenza v’è tra l’indicarne il colore e l’indicarne la forma? – Noi propendiamo a dire che la differenza sia che noi intendiamo qualcosa di differente nei due casi. E l’ ‘intendere’ (1’ ‘intendimento’) dev’essere qui qualche sorta di processo che ha luogo mentre noi indichiamo. Ciò che particolarmente ci spinge verso questa concezione è che uno, alla domanda se egli abbia indicato il colore o la forma, può (almeno nella maggior parte dei casi) rispondere a questa domanda ed essere certo che la sua risposta sia corretta. Se, d’altra parte, noi cerchiamo due atti mentali, caratteristici quali l’intendere il colore e l’intendere la forma, etc., noi non siamo capaci di trovarne alcuno, o, almeno, non ne possiamo trovare uno che sempre debba accompagnare l’indicare il colore o, rispettivamente, l’indicare la forma. Noi abbiamo solo un’idea grossolana di ciò che significhi: concentrare l’attenzione sul colore in quanto contrapposto alla forma, o viceversa. La differenza, si potrebbe dire, risiede non nell’atto di dimostrazione, ma piuttosto in ciò che circonda quell’atto nell’uso del linguaggio, nel contesto dell’atto).
4). All’ordine: «Questa lastra!», B porta la lastra indicata da A. All’ordine: «Lastra, là!», B porta una lastra al luogo indicato. Viene la parola «là» insegnata dimostrativamente (mediante indicazioni)? Sí e no! Quando uno è addestrato all’uso della parola «là», l’insegnante, nell’addestrarlo, farà il gesto d’indicare e pronuncerà la parola «là». Ma diremmo noi che con ciò egli dia ad un luogo il nome «là»? Ricorda che il gesto d’indicare, in questo caso, fa parte della prassi della comunicazione stessa.
(Osservazione: si è suggerito che parole quali «là», «qui», «ora», «questo», siano i ‘veri nomi proprî’ in contrapposizione a quelli che, nella vita quotidiana, noi chiamiamo: nomi proprî che (nella concezione cui io mi riferisco) solo grossolanamente possono chiamarsi cosí. V’è una diffusa tendenza a considerare ciò che, nella vita quotidiana, è chiamato: nome proprio, solo una grossolana approssimazione di ciò che idealmente si potrebbe chiamare cosí. Confronta l’idea russelliana di ‘individuo’. Russell parla degli individui come dei costituenti ultimi della realtà, ma dice che è difficile dire, quali cose siano gli individui. L’idea è che spetti ad un’analisi ulteriore rivelare ciò. Noi, invece, abbiamo introdotto il concetto di nome proprio in un linguaggio ove esso era applicato a ciò che, nella vita quotidiana, noi chiamiamo: «oggetti», «cose» («pietre per costruzione»).
– «Che cosa significa la parola ‘esattezza’? È reale esattezza se tu devi venire a prendere il tè alle 4.30 ed arrivi quando un buon orologio batte le 4.30? O esattezza v’è solo se tu cominci ad aprire la porta allorché l’orologio comincia a battere le ore? Ma come definire questo momento, e come definire ‘cominciare ad aprire la porta’? Sarebbe corretto dire: ‘È difficile dire che cosa sia l’esattezza reale, poiché noi non conosciamo che delle grossolane approssimazioni’?»)
5). Domande e risposte: A domanda: «Quante lastre?», B le conta e risponde con il numerale.
Chiameremo: «giochi di linguaggio» o «giochi linguistici» i sistemi di comunicazione quali, ad esempio, 1), 2), 3), 4), 5). Essi sono piú o meno affini a ciò che, nel linguaggio comune, noi chiamiamo: giochi. Ai bambini s’insegna la loro madrelingua mediante tali giochi, che hanno il carattere divertente proprio dei giochi. Noi, tuttavia, consideriamo i giochi di linguaggio da noi descritti non come parti incomplete d’un linguaggio, ma come linguaggi in sé completi, come sistemi completi di comunicazione umana. Per non perdere di vista questa prospettiva è molto spesso utile immaginare che l’intiero sistema di comunicazione d’una tribú in uno stato sociale primitivo sia un linguaggio semplice di questa sorta. Pensa all’aritmetica primitiva di tali tribú.
Quando il ragazzo o l’adulto apprende dei linguaggi speciali tecnici (ad esempio: l’uso di grafici e diagrammi, la geometria descrittiva, il simbolismo chimico, etc)., egli apprende ulteriori giochi di linguaggio. (Osservazione: l’immagine che noi abbiamo del linguaggio dell’adulto è quella d’una massa nebulosa di linguaggio: la sua madrelingua, massa circondata da giochi di linguaggio discreti e piú o meno distinti: i linguaggi tecnici).
6). Chiedere il nome: noi introduciamo nuove forme di pietre per costruzione. B ne índica alcune e domanda: «Che cos’è questo?»; A risponde: «Questo è un …». Poi A pronuncia questa nuova parola (ad esempio, «arco»), e B porta la pietra. Alle parole: «Questo è …» insieme con il gesto d’indicare, daremo il nome: spiegazione ostensiva o definizione ostensiva. Nel caso 6) è stato spiegato un nome comune: il nome d’una forma. Ma noi possiamo analogamente domandare, quale sia il nome proprio d’un oggetto particolare, il nome d’un colore, d’un numerale, d’una direzione.
(Osservazione: il nostro uso di espressioni quali «nomi di numeri», «nomi di colori», «nomi di materiali», «nomi di nazioni», può provenire da due fonti differenti. La prima fonte è questa: noi potremmo immaginare che le funzioni dei nomi proprî, dei numerali, dei nomi di colori, etc., siano piú simili di quanto in realtà siano. Se facciamo cosí, ci viene da pensare che la funzione d’ogni parola sia piú o meno come la funzione d’un nome proprio di persona, o di nomi comuni quali «tavolo», «sedia», «porta», etc. La seconda fonte è questa: se noi vediamo come le funzioni di parole quali «tavolo», «sedia», etc. siano fondamentalmente differenti dalle funzioni dei nomi proprî, e come da ambedue questi insiemi di funzioni differiscano le funzioni, ad esempio, dei nomi di colori, noi non vediamo ragione alcuna di non parlare anche di nomi di numeri o di nomi di direzioni, non già per dire qualcosa come: «Numeri e direzioni sono solo differenti forme d’oggetti», ma piuttosto per sottolineare l’analogia che v’è nella mancanza d’analogia tra le funzioni di «sedia» e «Jack» da una parte, e «est» e «Jack» dall’altra).
7). B ha una tabella ove dei segni scritti sono affiancati ad immagini di oggetti (un tavolo, una sedia, una tazza da tè, etc).. A scrive uno dei segni, B lo cerca sulla tabella, passa, con gli occhî o con l’índice, dal segno scritto all’immagine corrispondente, e prende l’oggetto rappresentato dall’immagine.
Consideriamo ora i due differenti generi di segni che abbiamo introdotto. In primo luogo, distinguiamo tra enunciati e parole. Chiam...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Libro blu e Libro marrone
  3. Introduzione
  4. Premessa del curatore dell’edizione italiana, Amedeo G. Conte
  5. Prefazione del curatore dell’edizione inglese, Rush Rhees
  6. Libro blu e Libro marrone
  7. Libro blu
  8. Libro marrone
  9. Elenco dei nomi
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright