Jazz!
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Come comporre una discoteca di base

  1. 320 pagine
  2. Italian
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Come comporre una discoteca di base

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Quali dischi sono assolutamente indispensabili per capire quale meravigliosa esperienza sia il jazz?
Attraverso l'analisi dei singoli dischi Carlo Boccadoro offre una serie di consigli per orientarsi in questo variegato universo e allo stesso tempo ne delinea una sua particolare «storia» che va dal dixieland di New Orleans sino al jazz contemporaneo, suddivisa in categorie strumentali: i pianisti, i cantanti, i solisti di tromba, di sax, le grandi orchestre... Pagina dopo pagina sfilano sotto i nostri occhi i capolavori del jazz e le loro registrazioni discografiche esemplari in un percorso stimolante e ricco di sorprese dove non mancano aneddoti curiosi che riusciranno ad affascinare anche gli esperti in materia.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858415290
Argomento
Art
Categoria
Art General

Sax e clarinetto

Pepper Adams (1930-1986)

10 To 4 At The 5 Spot (Cd Riverside OJC 031-2)

Il sax baritono ha avuto pochissimi solisti di rilievo, si possono contare sulle dita di una mano. Il timbro gutturale e scuro dello strumento era certo meno attraente rispetto alle possibilità solistiche offerte da sax alto e tenore e il fatto che fosse anche uno strumento ingombrante non ha certo contribuito alla sua popolarità presso i musicisti (Adams ha dichiarato ironicamente che si è avvicinato al sax baritono perché era quello che costava meno); eppure le sue possibilità musicali non hanno nulla da invidiare ai suoi fratelli piú celebrati e ognuno dei quattro grandi solisti di sax baritono (Pepper Adams, Harry Carney, Gerry Mulligan e Serge Chaloff) possedeva una personalità differente che lo strumento ha assecondato con notevole duttilità. Tra i quattro Adams è il piú aggressivo e ritmicamente prepotente, con una notevole potenza di suono ben diversa dai sofisticati arabeschi di Mulligan o dai cantabili di Carney. Dalle cavità piú profonde del sax Adams estraeva taglienti diamanti bop che venivano scaraventati sul pubblico senza preamboli. Ascoltando ogni suo disco si sa in anticipo che l’esecuzione sarà diretta, energeticamente lucida, sia in situazioni d’assieme (Adams ha lavorato, tra gli altri, con Stan Kenton, Thad Jones e Maynard Ferguson) che come solista. Questo live al Five Spot Cafè del 1958 (registrato in una sola serata, dalle dieci di sera alle quattro del mattino) presenta il collaudatissimo team tra Adams e il trombettista Donald Byrd, con cui ha avuto una lunga collaborazione. Con una sezione ritmica al titanio formata da Doug Watkins (contrabbasso), Elvin Jones (batteria) e Bobby Timmons (pianoforte) è subito chiaro dove andrà a parare il discorso musicale: hard bop a muso duro, che fa esplodere energia già nel primo ’Tis dove la corrente elettrica che proviene dalle frasi a spigoli di Adams si riverbera negli interventi degli altri solisti, anche se come al solito Byrd si rifiuta di essere troppo tagliente. The Long Two/Four alterna momenti a tempo di marcia (dove Adams cita anche il tema de Il ponte sul fiume Kwai) con irruenti passaggi della batteria di Jones che sprizzano scintille. Le due ballads, You’re My Thrill e Yourna sono pagine di colore scuro, gravide di tensione trattenuta, con Adams che utilizza uno scabro cantabile assai espressivo, dai riflessi violacei.

Julian «Cannonball» Adderley (1928-1975)

In San Francisco (Cd Riverside OJC 035)

Nonostante l’atteggiamento snobistico che molta critica musicale gli ha riservato quando era in vita, il tempo ha ormai dimostrato quello che legioni di ascoltatori sapevano già da un pezzo: Cannonball Adderley è uno dei maggiori musicisti che la musica afroamericana abbia mai avuto. Il clamoroso successo popolare che insospettiva i rappresentanti della carta stampata era dovuto a una sapientissima miscela di jazz, gospel e soul dall’immediata comunicativa. È impossibile non farsi entusiasmare fin dal primo ascolto di fronte alla bravura strumentale di Cannonball, perfettamente versato nel linguaggio bop ma con un suono ricco di mordente che non sarebbe spiaciuto a Ray Charles e James Brown. Fantasia apparentemente senza limiti, tecnica fuori discussione, energia a palate cui corrisponde un gruppo affiatatissimo di musicisti che spingono sull’accelleratore portando la musica a bollore dopo pochi minuti. Questo disco dal vivo a San Francisco contiene brani lunghi e appassionanti come This Here, Spontaneous Combustion e You Got It! che faranno scatenare il vostro impianto hi-fi grazie al potentissimo basso di Sam Jones cui la batteria di Louis Hayes fornisce un carico di fuochi artificiali. Lo stile pianistico funky di Bobby Timmons non ha un attimo di cedimento e il sassofono di Cannonball, a cui si aggiunge il fratello Nat alla cornetta, regala un saggio maiuscolo di improvvisazione con soli intensi e fantasiosi; una leggenda vuole che seduto ai tavolini del concerto di San Francisco quella sera del 18 ottobre 1959 ci fosse anche il grande compositore Dmitrij Šostakovič, sincero amante del jazz; sono certo che con un concerto di questa potenza Cannonball sia riuscito a far sorridere persino l’austero autore di Babi Yar.
Sono molti i dischi di Cannonball che meritano l’acquisto: Somethin’ Else (che lo vede insieme a Miles Davis e Art Blakey), Portrait of Cannonball, What Is This Thing Called Soul, Live At The Lighthouse, Country Preacher, Inside Straight, Mercy, Mercy, Mercy (dove potrete ascoltare Joe Zawinul in versione pre-Weather Report); andate sul sicuro con questi dischi, imparerete anche voi ad amare la personalità di un artista per il quale la comunicazione con chi lo ascoltava era esigenza primaria anche se questo non lo ha mai portato ad annacquare il proprio stile con concessioni alle classifiche.

Albert Ayler (1936-1970)

Live In Greenwich Village: The Complete Impulse Recordings (2 Cd Impulse! 12732-2)

Se dovessimo creare un equivalente pittorico della musica di Albert Ayler bisognerebbe incrociare l’energia cinetica e la violenza espressiva di Jackson Pollock con i segni arcaici, quasi relitti di civiltà antiche e sconosciute, di Cy Twombly e Jean Dubuffet. La stessa forza gestuale, non mediata da alcun accademismo o scuola particolare, si ritrova nell’opera di questo grandissimo musicista che ha spinto il vocabolario del free jazz a livelli di aggressione fonica devastante come nessuno è stato in grado di fare prima (o dopo) di lui.
L’esperienza bebop non faceva parte del suo tirocinio musicale, che deve invece molto allo stile delle prime band di New Orleans, specie nell’uso esagerato del vibrato, e dei gruppi R&B e Blues con cui Ayler si è fatto le ossa (in particolare quello di Little Walter). Il virtuosismo tecnico non aveva alcuna importanza per Ayler, concentrato su uno stile personale in cui le successioni di altezze passavano in secondo piano rispetto ai parametri di suono e ritmo. «Non bisogna concentrarsi sulle note, – disse a Nat Hentoff, – ma sul sound».
Come Ornette Coleman, anche Ayler scartò le sofisticate progressioni armoniche in voga nel jazz di allora per restituire il centro d’interesse alla melodia, sia pur stravolta e tormentata. Il suo lirismo a linee distorte, cui si accompagnano estreme fluttuazioni di tempo che non danno mai all’ascoltatore alcun tipo di sicurezza ritmica, riesce a creare (assieme all’istintiva tromba del fratello Donald) figurazioni musicali che sviluppano una tensione musicale quasi insostenibile. La sua opera ha influenzato persino John Coltrane (che era presente al concerto registrato al Vanguard) e fu presa a modello da pressoché tutti i musicisti della New Thing, nessuno dei quali ha però raggiunto le vette di dolorosa intensità presenti in dischi come Spirits Rejoice e Ghosts, registrati per l’etichetta ESP. Lo shock che la musica di Ayler crea in chi si accosta a essa per la prima volta può essere molto forte, tuttavia sono certo che con impegno e pazienza, ascoltando molte volte, la stupenda poesia racchiusa in questi dischi possa aprirsi a chiunque voglia darle fiducia; il miglior modo per farlo è attraverso questo bellissimo disco dal vivo, dove Ayler dona tutto se stesso con generoso abbandono in pagine indimenticabili come Truth Is Marching In e Holy Ghost.

Leandro «Gato» Barbieri (1934)

Chapter Three: Viva Emiliano Zapata (Cd Impulse!/GRP 11112)

Gli ascoltatori che conoscono il nome di Gato Barbieri unicamente grazie alla colonna sonora da lui composta per Ultimo Tango a Parigi o per la sua apparizione in Modena di Antonello Venditti si sono persi il meglio della produzione di questo poderoso musicista argentino, definito da alcuni come il John Coltrane latino a causa della bruciante passione riversata nel suo modo di suonare. In contatto diretto con la propria anima, senza freni, il sassofono di Gato è un marchio a fuoco impresso sul corpo del jazz che distilla il meglio dell’esperienza free maturata in Italia assieme a Don Cherry aggiungendovi suggestioni e nostalgie della propria patria attraverso riferimenti a canti popolari e icone culturali del Sudamerica. Grande amico/rivale di Astor Piazzolla, ha imparato da lui come esporre senza pudore i propri sentimenti incanalandoli in strutture compositive inattaccabili, rivestendole con un lirismo sempre in tensione e un timbro leonino che sprizza energia a ogni passaggio grazie a una particolare forza nell’emissione. Le maestose frasi del sax di Barbieri portano scritto nel proprio Dna sincerità e onestà intellettuale, avvolgendo nel loro calore espressivo tutti i musicisti che collaborano con lui. Per apprezzare a fondo questo artista dovete assolutamente ascoltare l’album dal vivo El Pampero e la serie di album realizzati da Gato per la Impulse. I primi, Chapter One / Latino America e Chapter Two / Hasta Siempre sono ora stati riuniti in un doppio Cd imperdibile mentre è stato ristampato da poco il suo capolavoro, Chapter Three / Viva Emiliano Zapata (1974), meravigliosa sintesi di tutte le precedenti esperienze musicali. L’iniziale Milonga Triste crea un clima di malinconia struggente che non sarebbe dispiaciuto a Manuel Puig, ma ogni tristezza viene subito cancellata dall’irresistibile verve ritmica di Lluvia Azul, che in un tripudio di percussioni spinge la temperatura al massimo. Ogni pezzo è bellissimo, intenso, unico proprio come il lirismo di Gato che riscatta anche un brano banalotto come What A Difference A Day Makes con un arrangiamento di bolero lento adagiato su uno sfondo di trombe con sordina. Quando la sezione ritmica riparte a mille per Viva Emiliano Zapata su un riff circolare di sapore cubano le frasi del sax raggiungono un’intensità quasi delirante, in un’atmosfera di autentica festa popolare.

Sidney Bechet (1897-1959)

Shake It And Break It (Cd Naxos 8.120699)

Chi associa Sidney Bechet unicamente alla popolare melodia di Petit Fleur, dolciastro successo commerciale del sassofonista, si dimentica della fondamentale importanza che questo musicista ha avuto all’interno della storia jazzistica sviluppando il ruolo dello strumento solista in contemporanea a Louis Armstrong, cui lo legano molte caratteristiche stilistiche. Dopo aver iniziato con il clarinetto Bechet decise di passare al sax soprano, distinguendosi subito per il particolare vibrato stretto e il modo d’attacco delle note grintoso e personalissimo. Assolutamente inedita per l’epoca era la sua capacità di improvvisare sviluppando armonicamente i temi, utilizzando le melodie originali unicamente come base per spericolate improvvisazioni che esploravano in modo ardito le varie possibilità degli accordi, cui venivano sovrapposte tecniche diverse come glissandi, trilli e portamenti. Difficile farsi largo tra il numeroso materiale ristampato su Cd di Bechet con cui molte case discografiche hanno inondato il mercato. Il primo periodo è documentato in diversi volumi dalla Classics, ma preferisco di gran lunga le uscite della Naxos, che ha pazientemente restituito il suono originale a queste registrazioni dandoci una fedeltà d’ascolto piuttosto buona. I sensazionali uptempo di What A Dream, One O’ Clock Jump e Jungle Blues sono un ottimo biglietto da visita per Bechet, che divora letteralmente gli assoli con una grinta da sbalordire, regalandoci brillanti esecuzioni che lo pongono fra i migliori solisti di ogni tempo. Delizioso il cantabile di Indian Summer, di tesa espressività, mentre il sax di Bechet in Wild Man Blues non ha nulla da invidiare alla mitica registrazione che del brano fece Louis Armstrong. La selezione di brani va dalle atmosfere New Orleans di Nobody Knows The Way e Coal Black Shine alla cover della Ain’t Misbehavin’ di Fats Waller, senza dimenticare i licenziosi doppi sensi della versione vocale di I Want Some Seafood, Mama. Dopo un breve periodo di pausa Bechet registrò diverse tracce per la neonata Blue Note, centrando il bersaglio con una versione di Summertime che divenne un grande successo nei jukebox dell’epoca (potete ascoltarla nella compilation Jazz Classics: Volume 1). Molto belle anche le session con Sidney DeParis, Jimmy Archey e Walter Page raccolte nel Cd The Fabulous Sidney Bechet.

Anthony Braxton (1945)

News From The ’70s (Cd Felmay/New Tone 217507005-2)

Secondo il sito Internet della Bbc esistono oltre 400 composizioni di Anthony Braxton; egli ha al suo attivo oltre 70 dischi come leader ed è apparso in altri 50 come ospite. Questo artista immensamente prolifico si muove a tutto campo tra improvvisazione e composizione, passando da dischi interamente realizzati in solitudine (il celebre For Alto del 1968) a vaste opere musicali che coinvolgono anche danza, scenografie complesse e riferimenti ad astrologia e numerologia spesso oscuri come i diagrammi che fanno da titolo a molte sue composizioni. La sua figura è tuttora una delle piú controverse nel mondo del jazz, dopo Ornette Coleman non si era piú visto un musicista in grado di dividere le platee come Braxton. Bisogna essere grati a Francesco Martinelli, che ha scelto alcune delle migliori performance concertistiche del sassofonista andando a casa sua per recuperare registrazioni inedite conservate in cantina (ma di buona qualità audio) e compilando questo ottimo Cd che va considerato come un’introduzione ideale ai molteplici lati della complessa personalità di Braxton. L’uso di diversi strumenti (sassofono, clarinetto, flauto e molti altri) dimostra l’influenza che la scuola dell’Aacm di Chicago ha avuto su di lui, liberandolo anche dal peso di strutture tradizionali nelle improvvisazioni.Tuttavia Braxton, nonostante la radicalità del suo pensiero compositivo, ha sempre citato come musicisti importanti per lui nomi apparentemente lontanissimi dal suo stile: Marsh, Desmond, Coltrane, dimostrando sempre un grande amore per la storia del jazz culminato nella registrazione dei due volumi di In The Tradition, che lo vedono rivisitare standards come Lush Life, Ornithology e What’s New?.
Impossibile da classificare, lo stile di Braxton è come un immenso fiume che trascina al suo interno di tutto, dal free di Ayler e dell’ultimo Coltrane a passaggi strumentali che rimandano ai lavori di Stockhausen, Zimmerman e Boulez. In questo News From The ’70s Braxton alterna brani da solo, in duo e quartetto potendo contare sull’apporto creativo di musicisti strepitosi come Dave Holland, Kenny Wheeler e Barry Altschul. Le atmosfere sono certo difficili, di forte tensione ma a differenza di molti imitatori (anche italiani) di Braxton non si ha mai l’impressione di perdere tempo e ripetuti ascolti portano dividendi musicali cospicui.

Michael Brecker (1949)

Wide Angles (Cd Verve 7614288)

Il suono del sax di Michael Brecker è apparso in centinaia di registrazioni, dal pop piú commerciale alle incisioni con Horace Silver per approdare alle robuste cavalcate funk con la band fondata insieme a suo fratello Randy negli anni ’80. Dotato di una preparazione tecnica mostruosa, Brecker è uno dei sassofonisti piú imitati nel business musicale, ed è in grado di fare qualsiasi cosa abbia in mente grazie alla sua abilità. Peccato che tutta questa cornucopia tecnica si realizzi spesso in registrazioni immacolate ma noiosissime, come i suo album solisti Michael Brecker, Now You See It... Now You Don’t e Don’t Try This At Home. Ovviamente i suoi album vedono riunita la crema dei migliori musicisti jazz contemporanei da Pat Metheny a Herbie Hancock, da Charlie Haden a Jack DeJohnette, ma il risultato non cambia: si assiste a una gelida esibizione di passaggi sassofonistici in acciaio temperato all’interno di un paesaggio musicale facile da ammirare ma arduo da amare. Anche come compositore Brecker conosce il fatto suo, anche se l’amore per le cervellotiche circonvoluzioni melodiche rende tutti i suoi temi abbastanza simili tra loro; nonostante le modulazioni raffinate e indubbiamente scaltre, gli arrangiamenti sempre calibrati al millesimo e l’energia che Brecker immette in ogni suo intervento, la sensazione del teorema ben svolto (o poco piú) è difficile da cancellare. Sarebbe bello sentirlo sbagliare ogni tanto; magari un’indecisione di emissione, qualche dito che scivola fuori posto sulle chiavi, un’incertezza di tempo, invece no: è tutto giusto, la musica non fa una piega e gli sbadigli sono in agguato.
Perlomeno Wide Angles si avvale della collaborazione di un arrangiatore squisito come Gil Goldstein che tesse intorno al sax di Brecker orchestrazioni eleganti e timbricamente ricchissime grazie a un cast di strumentisti molto nutrito tra fiati e archi.
Tutti i brani sono di Br...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Jazz!
  3. Premessa
  4. Jazz!
  5. Pianoforte
  6. Contrabbasso
  7. Batteria
  8. Chitarra
  9. Sax e clarinetto
  10. Tromba
  11. Trombone
  12. Organo
  13. Cantanti
  14. Percussione
  15. Big band, arrangiatori, compositori
  16. Strumenti vari
  17. Gruppi misti
  18. Elenco dei nomi
  19. Il libro
  20. L’autore
  21. Dello stesso autore
  22. Copyright