La parola amore uccide (Nero Rizzoli)
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La parola amore uccide (Nero Rizzoli)

  1. 352 pagine
  2. Italian
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La parola amore uccide (Nero Rizzoli)

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NERO RIZZOLI È LA BUSSOLA DEL NOIR FIRMATA RIZZOLI. L'agente scelto Tanino Barcellona è stato trasferito in Alto Adige da mesi, ma se gli avessero detto che a Bolzano si può crepare di caldo, non ci avrebbe creduto. A surriscaldare la provincia autonoma non è solo l'estate torrida, ma anche un'atmosfera d'odio che sembra sul punto di esplodere. In un centro d'accoglienza per immigrati infatti un ordigno uccide una volontaria. Del caso vengono incaricati Tanino e Karl Rottensteiner, il tormentato ispettore diventato ormai suo amico. Karl, tuttavia, è distratto da altro: la sua ex fiamma e primo dirigente della Mobile, Angelica Guidi, è coinvolta in un delitto che sembra affondare le radici nel passato. Per affrontare i due casi, ognuno di loro dovrà fare i conti con i propri fantasmi.
Nella cornice di una regione segnata da rigurgiti d'intolleranza e conflitti mai pacificati si snoda questa storia nera, in cui la miscela di questioni private e contraddizioni sociali è indissolubile.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2022
ISBN
9788831807005

1

La sincronia è perfetta. Il rumore dell’asse secco, i corpi si sollevano e s’inarcano. Due capriole e un avvitamento. L’entrata in acqua quasi non solleva spruzzi. Tre bambini a bordo vasca applaudono.
Daniela, stesa sul lettino, ha staccato lo sguardo dal libro per osservare le loro evoluzioni. Tre, cinque, sette e mezzo, dieci metri. Le tuffatrici della squadra americana sembrano instancabili. Metà della piscina olimpionica del Lido è dedicata al loro allenamento in vista delle gare internazionali.
Tanino Barcellona addenta il panino con soddisfazione. Il sole è una moneta d’oro, l’aria ha un vago odore di cloro e l’erba sotto i piedi è fresca. Si vergogna quasi ad ammetterlo, ma non si sta affatto male. Chi glielo doveva dire. L’inverno gli è sembrato infinito, la primavera è scivolata inosservata, se non fosse per l’esplosione di colore dei meleti in fiore, e l’estate è stata mite. Fino a ora. Lo hanno avvertito. Lo avrà sentito dire almeno una decina di volte solo nell’ultima settimana. Sembra quasi che si preoccupino di non fare brutta figura, di non deludere le aspettative di chi la considera sempre e comunque una città fredda, neanche fossero stipendiati dall’ufficio del turismo. C’è chi gli ha dipinto scenari apocalittici. Temperature infuocate. Calori degni del sesto cerchio dell’inferno dantesco. L’estate a Bolzano è rovente. Eppure siamo a ferragosto e la temperatura è ancora piacevole. Questi, il caldo vero non sanno nemmeno che cos’è. Comunque sia, a lui poco importa: tra tre giorni sarà in volo per Roma. Due ore di attesa per la coincidenza, Catania e poi a casa. A godersi il meritato riposo e il mare, che le montagne sono belle, ma non scherziamo. Gli dispiace un po’ non arrivare in tempo per la festa dell’Assunzione. Tornare a Messina nel periodo della processione della Vara è come andare al centro commerciale la vigilia di Natale. Gente ammassata, il boato dei tiratori vestiti di bianco aggrappati alle funi tese nello sforzo di muovere la macchina seicentesca, l’urlo «Viva Maria!» misto a bestemmie e imprecazioni di ogni genere sulle labbra di tutti i devoti, dal libero professionista al carcerato, strepiti, sgomitate, sudore. Sarebbe proprio quello che gli serve per ricaricare le batterie dopo mesi di algida socialdemocrazia sudtirolese. Forse.
Barbagli di luce lampeggiano azzurri sull’acqua. Urla di gioia provengono dallo scivolo che si avvita nella vasca accanto. La birra gelata va giù che è un piacere.
Le atlete hanno smesso di allenarsi. Daniela si alza. Posa il giallo norvegese sul lettino, si toglie gli occhiali da sole, si stiracchia. Gli propone di fare un tuffo e quando lui rifiuta lo prende in giro. «Cos’è? devi aspettare tre ore prima di fare il bagno, come i bambini?»
Lo sbalzo di temperatura è corroborante anche se, in fondo in fondo, il pensiero di essersi buttato in piscina subito dopo aver mangiato lo mette un po’ a disagio. Sa che sono tutte stronzate, ma quando te le ripetono per una vita, anche le stronzate diventano vere e lì, a tre metri sotto la superficie, sente una stretta allo stomaco. Si dà una spinta verso l’alto con un vago timor panico che gli solletica la nuca. Si aggrappa al bordo e tira fuori la testa. Daniela si avvicina e lo affianca. Gli sorride, poi si dà una spinta e prende il largo. Galleggia sopra la corsia centrale per un po’ prima di muovere le braccia e attraversare in largo l’olimpionica a dorso. È quasi mezzogiorno, ma lo stabilimento non è molto affollato. Per il momento.
Quando tornano ai lettini, Tanino prende il telefono dalla tasca dello zaino. In fondo dovrebbe essere reperibile, ma la giornata è troppo bella perché succeda qualcosa. La brezza trasporta il leppo delle patate fritte. Nessuna chiamata. Ci starebbe un gelato. O uno spritz, ma quello col Campari, che l’ultima volta che ne ha chiesto uno gli hanno propinato vino bianco e acqua gasata. È tentato di dare un’occhiata alle notizie, di controllare il meteo per indolenza, o di fare una partita al solitario, cazzeggiare su internet. Indugia col telefono in mano. Meglio metterlo via. Quella roba è peggio dell’eroina, dà dipendenza. Chiude la cerniera. Rimette lo zaino sotto il lettino.
«Vuoi qualcosa dal bar?»
La risposta di Daniela arriva nel momento esatto in cui il cellulare comincia a vibrare tra chiavi e portafoglio.

2

Il centro immigrati Dignitas occupa il piano terra e il primo piano di una palazzina poco sotto la funivia del Renon, una zona linda e pulita come ogni angolo della città, ma dall’aspetto più precario. Come se tutto quanto rischiasse di venire giù in pochi secondi se solo si facesse un gesto inconsulto o si imboccasse la traversa sbagliata.
Ci sono due volanti e un furgone fermi al cancello dal quale si accede al fazzoletto di giardino su cui si apre il portone dello stabile, tenuto spalancato da una mezza molletta infilata tra la soglia e il pavimento. Un po’ in disparte una mezza dozzina di africani parlottano a bassa voce in francese. Tanino li fissa per qualche istante, poi la sua attenzione ricade sulle targhette del citofono, che sono scritte a mano e incollate. Alcune sono scolorite. Altri piccoli indizi di precarietà che a Tanino ricordano il suo passato, la sua Sicilia, dove dettagli simili non li degnerebbe di un secondo sguardo, mentre qui gli suscitano una familiarità che lo tocca nel profondo. Un pensiero rapido che liquida scrollando appena il capo. Quante fesserie.
Il giovane in divisa che piantona l’ingresso gli rivolge un’espressione interrogativa, lui la fronteggia mostrando il tesserino. Non l’ha mai visto, dev’essere nuovo.
«Tanino Barcellona, questura di Bolzano.»
L’agente lo squadra con aria interrogativa e Tanino abbassa lo sguardo sulla sua tenuta estiva: pinocchietto blu slavato, infradito verde acido e camicia di lino bianca.
«Collega, mi hanno chiamato mentre stavo in piscina. Non mi sembrava il caso di passare da casa a cambiarmi.»
Il poliziotto si stringe nelle spalle: «Su c’è già un altro, della questura».
Tanino annuisce: «Lo raggiungo subito». C’era un altro reperibile e mi scassano le palle a me, ma questi come ragionano?
Attraversa un’ampia sala d’aspetto deserta e passa davanti a due stanzoni vuoti e comunicanti. Nota un tavolo da ping-pong azzurrino, prima d’imboccare le scale e sfilare davanti a un secondo agente che stavolta lo riconosce annuendo. Al primo piano ci sono gli uffici. Si dirige verso il piccolo assembramento davanti alla penultima stanza, in fondo al corridoio. Prima che possa entrare, deve farsi di lato per lasciar passare le tute bianche della Scientifica che reggono una body-bag piena. Dietro quelli che portano il corpo, un altro agente regge due sacchetti. Effetti personali o residui organici. Gli hanno detto che c’è stata un’esplosione e una donna è rimasta coinvolta, il che significa trovare una scena non proprio asettica. Un bel modo di passare il Ferragosto.
Quando finalmente può entrare, Tanino capisce perché l’hanno chiamato a supporto dell’altro collega di turno: si tratta del Faina. Ha le braccia incrociate e un colorito pallido. Non sfoggia il suo solito sorriso.
«Ciao Pavan, mi aggiorni?»
Tullio Pavan detto il Faina scuote la testa: «Al momento dell’esplosione la vittima era sola. Un vero miracolo considerando che qui c’è sempre un gran viavai. Ma era pausa pranzo, gli altri volontari non c’erano, e nemmeno i negri… sì insomma. La prima segnalazione è arrivata alla polizia municipale dai vicini che si lamentavano per il rumore, vedi tu. Questi fanno casino a tutte le ore, hanno detto. Pensavano fosse scoppiato un tubo dell’acqua, o qualcosa del genere. In effetti l’esplosione non è stata niente di che, poco più di un petardo, ma la tipa è stata presa in pieno. Mani e volto, poveretta».
«La tipa?»
«Gisela Kroess. Una delle volontarie fondatrici di questo posto.»
«Ma allora non era un tubo dell’acqua…»
«No. Le è scoppiato il computer in faccia. Lo dico sempre che sono pericolosi, quegli affari.»
«Non ti seguo, che significa?»
«Gli hanno piazzato una carica dietro la tastiera, a quanto diceva il collega della Scientifica.»
«Quindi è stata davvero una bomba?»
«E io che ho detto?»
«Tu hai detto che i computer sono aggeggi pericolosi.»
«Barcellona, stavo scherzando, dai.»
Il senso dell’umorismo di Tullio Pavan non lo capirà mai. Ammesso che ci sia qualcosa da capire. Alla scrivania, il computer non c’è più. Quel che ne restava lo avrà portato via la Scientifica. La poltroncina girevole invece è ancora rovesciata per terra. Tracce di bruciature e sangue rappreso sono evidenti sul muro alla destra della postazione di lavoro.
«Hai parlato con il responsabile di questo posto?»
Il Faina assume un’aria concentrata. «È arrivato poco fa, lo trovi nell’altra stanza, io stavo aspettando che finissero i rilievi…» Ansima un po’.
«Pavan, mica ti devi giustificare. Con me poi, figurati…» Per le “battute”, forse, sì che dovrebbe giustificarsi, ma vaglielo a spiegare.
Nell’ultima stanza c’è un omino che aspetta seduto su un divano di rattan, con le mani poggiate sulle ginocchia in posizione rigida e lo sguardo basso dietro un paio di occhiali dalla montatura di metallo un po’ antiquata. La camicia a righe bianche e rosa a maniche corte è chiazzata di sudore in vari punti, il jeans blu di una misura troppo grande sembra un indumento che gli ha comprato la madre. Si chiama Vanini Sergio e scatta all’impiedi non appena vede Barcellona, che si scusa per i suoi, di vestiti, e si presenta.
Quando Tanino gli fa cenno di sedersi di nuovo, quello parte senza aspettare di essere interpellato: «Saranno soddisfatti, adesso. Ora finalmente gli “amici dei negri” hanno avuto quello che si meritavano, ha visto?».
«Chi sarà soddisfatto, secondo lei?»
«Mi scusi dottore, come chi? Tutti! Alle volte mi sembra di dover abbattere i muri a testate qui. Non ce n’è uno che non mi sia contro. E non è solo una questione di colore politico, sa? La politica c’entra fino a un certo punto, anche se ha il suo peso questi vizi ormai ce li hanno a destra come a sinistra, se le riferisco cosa mi ha detto l’altro giorno un consigliere provinciale del partito di maggioranza, lasciamo perdere, guardi…»
Tanino attende che lo sfogo di Vanini si esaurisca, poi prova a cavarci fuori qualcosa di utile. «Quindi mi sta dicendo che avete ricevuto qualche minaccia, intimidazioni…»
«Qualche? Dottore…»
«Non sono dottore.»
«Mi scusi, commissario.»
«Solo agente scelto. È Ferragosto, e sono il massimo che può offrire la polizia di Stato. Ma andiamo avanti. Le minacce, mi diceva.»
«Dicevo, sì. Ne riceviamo in continuazione. Lettere intimidatorie anonime, commenti violenti su internet, insulti e offese ovunque, dai muri sotto casa mia ai profili Facebook e hai voglia a denunciare, tanto, mi perdoni eh, ma non avete mai fatto un cazzo. Ci doveva scappare il morto. Povera Gisela, la migliore, la più sincera e volenterosa di noi ha finito per pagare per tutti. Lo abbiamo fondato insieme questo posto, sa? Lo ha voluto fortemente, se non fosse stato per lei…»
«Mi hanno detto. Mi racconti di più su di lei. Era sposata?»
«No, viveva con la madre anziana, povera signora, non sopravvivrà, glielo dico io. Gisela era instancabile e aveva sempre tempo per tutti. Era intelligentissima, sa? Parlava cinque lingue benissimo: francese, inglese, spagnolo… Si dedicava anima e corpo agli altri. Troppo buona per questo mondo, forse.»
«Mi toglie una curiosità?» Tanino interrompe la litania di Vanini e gli si fa più vicino chinandosi sul divano, sormontandolo con la sua mole imponente. Lo guarda negli occhi, come fossero vecchi amici in vena di confidenze. Lui reagisce come si aspettava: si mette a disposizione, è uno che ha bisogno d’affetto.
«Se posso…»
«Parlando della signora Kroess, poco fa, lei ha usato una parola precisa. Ha detto che era la più “sincera”. Che intendeva dire? Qui non lo sono tutti?»
Vanini si spinge il ponte degli occhiali contro il centro della fronte e serra le labbra: «Oh, non mi fraintenda, qui sono tutti brave persone, ma sa, ormai mica ci sono solo volontari. Non ce la faremmo, il flusso da gestire è troppo grosso. E allora c’è anche gente che ci guadagna e… lo spirito è diverso, rispetto ai vecchi tempi. Ma non è certo questo il problema, diciamocelo.»
«E qual è il problema?»
«La natura umana è il problema. Che quando stai male, devi dare sempre la colpa agli altri, con preferenza a chi sta ancora peggio di te.»
In questura, non c’è quasi nessuno. Tanino e il Faina incrociano il commissario Freni che sta per lasciare la sala operativa. È vestito tutto di cotone bianco, scarpe comprese. L’abbronzatura e i baffetti neri risaltano contro gli indumenti candidi e strid...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La parola amore uccide
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34
  38. 35
  39. 36
  40. 37
  41. 38
  42. 39
  43. 40
  44. 41
  45. 42
  46. 43
  47. 44
  48. 45
  49. 46
  50. Copyright