Cinque grandi navi – una triremi e quattro biremi – bruciavano ancora, mettendo a grave rischio il porto dove Cartagine celebrava la vittoria. Nessuno aveva organizzato i festeggiamenti. Erano scoppiati in modo spontaneo. Tutti in città sembravano avere avuto la stessa idea in contemporanea.
Gli abitanti erano in gran parte cittadini romani, ma prima ancora erano cartaginesi.
E Cartagine aveva trionfato su Roma per la prima volta da oltre sei secoli e mezzo.
Le chiese erano gremite. Locande e osterie già stipate prima ancora del tramonto. A ogni angolo di strada, oratori improvvisati tenevano discorsi trascinanti, se non sempre coerenti. Si formò una fiaccolata, e per errore le torce appiccarono il fuoco a una mezza dozzina di edifici. Il minimo battibecco politico degenerava in rissa, tanto che alla fine restarono sul selciato oltre seicento feriti. E gran parte dei dibattiti cominciava, proseguiva e terminava come quello in corso nell’osteria «La Cornucopia», all’incrocio tra il foro e la via dei calzolai.
«Gliel’abbiamo fatta vedere!» ruggì un calderaio. «Ora possono tornarsene a Roma a dire che cos’è Cartagine.»
«Purché poi non tornino indietro» osservò un sarto.
«Se lo fanno li batteremo di nuovo, quei maledetti cani eretici e rognosi!»
«Sia chiaro, non voglio difenderli in alcun modo» disse il segretario di un avvocato. «Però non bisogna dimenticare che li aveva mandati l’imperatore, o meglio sua madre, l’imperatrice Placidia… e questo rende la situazione piuttosto rischiosa, non vi pare?»
«La guerra è sempre un rischio» ribatté il cameriere, servendo una nuova caraffa di vino. «È uno dei motivi per cui faccio il mio mestiere, e non quello del soldato.»
«È siriano, ma non ha torto» concesse il calderaio, in tono magnanimo. «La guerra è pericolosa. E oggi l’imperatrice Placidia ha sperimentato sulla sua pelle. Le è costata una dozzina di navi e diecimila delle sue truppe scelte.»
«Avevo sentito dodici.»
«Idiota! L’attacco in massa ai moli? L’assalto alle fortificazioni del porto? E tutti gli annegati e gli evacuati dalle navi in fiamme? Dovevano essere almeno quindicimila, se non addirittura venti.»
«Ben le sta!» commentò il calderaio. «Una donna non dovrebbe impicciarsi di politica.»
«Resta il fatto che la situazione è precaria» disse il sarto. «Non ci si guadagna mai a opporsi a Roma… o almeno non troppo» si affrettò ad aggiungere. «Guardate cos’è accaduto al conte Gildone. Per dodici anni ha spadroneggiato sull’Africa, facendo il bello e il cattivo tempo e scontentando tutti, tranne alcuni di quei maledetti donatisti e altri furfanti. E noi, cosa potevamo farci? Niente! Quando però ha fatto arrabbiare l’imperatrice, a lei è bastato un soffio, e il potente Gildone è stato spazzato via.»
«Ed era ora» si accalorò il calderaio. «Nessuno era al sicuro sotto il regno di quel porco, e in particolare chiunque portasse la sottana.»
«Se posso precisare» si inserì il segretario dell’avvocato «al tempo di Gildone, l’imperatrice era appena una ragazza. Sul trono imperiale c’era suo fratello, Onorio.»
«Che differenza fa? Quelli sono tutti uguali: imperatori, imperatrici e imperatrici madri. Non fanno che esigere tasse su tasse.»
«Io dico soltanto che è comunque rischioso opporsi» insistette il sarto. «E poi non c’è stato solo Gildone. Pensate al conte Eracliano. Anche lui cercò di resistere, e dov’è adesso?»
«Già» commentò il calderaio, sogghignando. «Gildone spazzato via, Eracliano pure, e saremmo spacciati anche noi se ci provassimo. Ma non il conte Bonifacio!»
«Hai ragione!» gridò qualcuno da un altro tavolo. «È un grand’uomo, il miglior governante che abbiamo mai avuto. È un peccato che non sia nato a Cartagine. Sarebbe degno di chiamarsi cartaginese.»
«Ascoltami bene, eroe dell’ago e del filo» proseguì il calderaio. «Da giovane io ho visto la guerra, e so di cosa parlo. Il conte Bonifacio è uno dei militari più esperti dell’Impero. Questa volta Roma ha commesso un errore. Non combatte un caporione ladruncolo come Gildone, o un soldato cortigiano come Eracliano. I romani sono stati abbastanza stupidi da attaccare il loro miglior generale, e questo è il risultato.»
«Sì, e perché hanno attaccato?» aggiunse il calzolaio, inasprito. «Perché lui si era rifiutato di imporre altre tasse agli africani per riempire le avide pance romane. Ecco perché. E aveva ragione lui.»
«Certo che ha ragione!» urlò il calderaio. «È un uomo grande e giusto, e mantiene le promesse.»
«Secondo me ci ha esposto comunque a un rischio» ribadì il sarto, ringalluzzito dal sesto calice di vino. «E so che anche molti altri la pensano come me.»
«Miserabili vigliacchi, vendereste le vostre madri a Roma se solo l’imperatore vi guardasse di traverso.»
«Chiedi subito scusa, iena pulciosa che non sei altro!»
«Che cos’hai detto?»
«Scaldarsi non serve, amici» cercò di placarli il segretario. «Bisogna dire le cose come stanno. E il conte Bonifacio ha preso una posizione molto discutibile dal punto di vista legale. Senz’altro sarà come lo descrivete, e persino meglio, ma resistere alle forze armate dell’imperatrice fa di lui un ribelle, e…»
«Come osi chiamarlo ribelle, schiavo smunto di un truffatore!»
«Come ti permetti, iena?»
«Ehi, non picchiarlo… ecco, l’hai fatto sanguinare, bestia! Ora ti sfondo il cranio.»
«Beccati questa! E questa! Così impari a dare del ribelle al conte Bonifacio…»
«Ora che siamo tra noi, parliamoci chiaro» disse il conte Bonifacio, con perfetta calma. «Qui siamo tutti ribelli.»
La parola fatale smorzò ogni conversazione nella saletta chiusa da pesanti tendaggi viola. Da fuori filtravano musiche, risate e schiamazzi. Nella sala da banchetto, la festa della vittoria era a pieno regime.
Bonifacio aveva partecipato ai festeggiamenti per un’ora, poi si era ritirato nella sala viola, dov’era sua abitudine cenare con la contessa e una ristretta cerchia di amici. A quarant’anni, era un uomo alto e muscoloso, con le spalle larghe, un viso attraente e un sorriso accattivante. Si diceva che i suoi nemici ne temessero il fascino quanto il valore militare. Quest’ultimo gli permetteva di vincere le battaglie, ma con il primo conquistava il cuore di qualsiasi avversario… e delle avversarie, in particolare.
Sei ore prima era salito a bordo di una triremi imperiale, a spada impugnata, e aveva ucciso il capitano dopo un brevissimo duello, una farsa durata appena una manciata di secondi. Il capitano non poteva certo tenere testa a uno dei migliori spadaccini del regno. Tuttavia era stata un’imprudenza per il comandante supremo ingaggiare uno scontro di persona. Bonifacio si ripeteva sempre di non farlo più, e poi ci ricascava. Comunque adesso era tutto finito. Si era ristorato con un bagno, si era fatto arricciare i capelli e aveva indossato la tunica color porpora con le frange dorate, oltre a quattro anelli con rubino di valore inestimabile.
Passò in rassegna gli ospiti con lo sguardo, sondandone le reazioni a quella frase provocatoria.
Il legato Decimo – militare dell’esercito regolare, con il cervello di un animale bene addestrato – non aveva battuto ciglio.
Il legato Settimio, soldato di cavalleria, sorrideva come un ebete.
Gregorio, il suo segretario personale, aggrottò la fronte.
Il prefetto Marone lo guardava tranquillo, irradiando sicurezza.
La contessa si strinse appena nelle spalle. I suoi occhi grigio-ardesia sembravano inespressivi. Il legato Settimio aveva composto una poesia per lodare quegli occhi, oltre alla carnagione candida come il latte, ai capelli rosso fuoco e a parecchie altre delle sue attrattive. A lei non l’aveva mostrata. Le donne germaniche non erano note per l’afflato lirico, e Settimio ci teneva alla pelle.
«Ribelli» ripeté Bonifacio, in tono quasi spensierato. «Tutti noi… tranne, naturalmente, il venerabile primate di Numidia.» Rivolse un inchino all’ospite, un uomo di oltre settant’anni, con i capelli d’argento e occhi attenti, che vestiva un semplice abito scuro.
«Non c’è altro modo» disse il legato Decimo, brusco. «Non per voi, comunque, conte. E quell’avvertimento ne era la prova. La lettera era di pugno di Ezio?»
«Sì. E scritta nel suo stile personale e inequivocabile. Lo conoscete anche voi: è capace di grande eloquenza, se necessario, ma se ha davvero qualcosa da dire è magnificamente conciso e diretto. “A Bonifacio, comes d’Africa, i miei omaggi. Alcuni ritengono che un grande potere sia sempre eccessivo, e sanno farsi ascoltare dall’imperatrice. Se veniste richiamato in patria, qualunque sia la scusa ufficiale, sappiate che vogliono la vostra testa. Restate in Africa, e dimostratevi potente quanto loro. Bruciate questa lettera.” Firmato: Ezio. Piuttosto chiaro, no?»
«Direi proprio di sì» grugnì Decimo. «Il buon Ezio ha fatto la cosa giusta. Lo ripeto spesso: le persone perbene sono sempre soldati. O membri della Chiesa, naturalmente» si affrettò ad aggiungere.
Il primate di Numidia sorrise. «Nostro Signore disse di aver trovato più fede nel centurione di Cafarnao che in tutto Israele» osservò, pacato. «E anche il primo gentile a convertirsi era un soldato.»
«Sono in grande debito con il mio vecchio amico Ezio» riprese Bonifacio. «Io e lui saremmo gli unici in grado di tenere insieme questo Impero decrepito e scricchiolante… se solo ce lo permettessero. Ma loro se ne guardano bene. Dunque sono un ribelle.»
«Lo furono in molti prima di diventare imperatori» dichiarò il prefetto Marone, lasciandosi prendere dall’entusiasmo.
La sala ammutolì. Tutti fissarono Bonifacio, che si agitò appena sulla sedia. La contessa sorrideva, ma il volto rugoso del primate tradiva una profonda preoccupazione.
«Ci sono precedenti, dunque» replicò il conte, ritrovando la disinvoltura. «D’altra parte, cosa non è già accaduto in questi tempi burrascosi? O anche solo nei miei quarantun anni di vita? Quando sono nato, Massimo calò in Italia, costringendo l’imperatrice madre Giustina e suo figlio Valentiniano alla fuga, e a implorare l’aiuto del grande Teodosio, che rispose all’appello piombando sul posto, uccidendo Massimo e reinsediando Valentiniano. Pochi anni dopo, Valentiniano fu ucciso dal suo primo generale, che pose Eugenio a capo dell’Impero di Occidente. A quel tempo i barbari sapevano ancora stare al loro posto, e il generale Arbogaste non osò vestire la porpora in prima persona. Poi però Teodosio eliminò anche lui e il suo burattino, Eugenio, e ne prese il posto, riunendo il regno sotto il proprio scettro. Ma non durò a lungo. Alla sua morte, l’Impero tornò diviso, con l’ascesa al trono di Onorio, sotto la tutela di Stilicone. I nostri amici goti gli diedero del filo da torcere, ma lui riuscì a contenerli. Finché fu a sua volta assassinato, sgomberando la strada per… Alarico. Al tempo io mi trovavo in Gallia, ma ricordo ancora cosa provai – come chiunque altro al mondo – a una notizia che per dodici secoli era parsa impossibile: i barbari a Roma! Pensammo fosse giunta la fine del mondo. Invece Onorio morì, e da Costantinopoli arrivarono la giovane Placidia con il figlio – l’attuale imperatrice madre e l’imperatore Valentiniano III. E tutto questo in appena quarantun anni. Il tempo di una vita. Solo il cielo può sapere cos’altro mi toccherà vedere prima di morire. Io stesso non avrei mai pensato di diventare un ribelle, ve lo garantisco. Ma quali alternative avevo? Proprio come previsto nell’avvertimento di Ezio, avevo ricevuto l’ordine di ...