Lo chiamavano Alpe Madre
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Lo chiamavano Alpe Madre

  1. 336 pagine
  2. Italian
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Lo chiamavano Alpe Madre

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Informazioni sul libro

Dopo il primo incontro con il Monte Grappa, quando era un ragazzino, Angelo è rimasto folgorato dalla meraviglia del paesaggio e dai molti segreti custoditi tra le cime. Ora che è cresciuto, il rifugio di quella prima estate è diventato casa sua e della moglie Carlotta.
È autunno inoltrato e la stagione dei turisti è ormai alle spalle quando si presenta da loro un visitatore vestito in felpa, bermuda e sandali: l'abbigliamento meno adatto per salire fin lì. Si chiama Joshua, studia Storia ed è arrivato dall'Austria per cercare di risolvere il mistero di tre oggetti conservati dentro una cassetta di sicurezza: un documento con il sigillo asburgico, la foto della Madonnina del Grappa e un acquerello con una strana frase appuntata. Per Angelo è impossibile non lasciarsi coinvolgere. La scoperta che altri dipinti simili sono sparsi per le baite della montagna dà inizio a una ricerca porta a porta, rifugio per rifugio. Tra osti leggendari, malgari, "recuperanti" e personaggi poco raccomandabili che hanno perso il rispetto per se stessi e per la comunità di cui fanno parte, lui e Joshua finiranno per riesumare una vicenda di più di cento anni prima, avvenuta tra Vienna e il Grappa. Una storia legata a doppio filo con un amore contrastato e un mistero che risale alla Prima guerra mondiale.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2022
ISBN
9788831807012

Prima parte

1

Il tempo ci scorre dinanzi cinico come la “Brenta”, che scende dai laghi di Caldonazzo e Levico, attraversa le città e, ignorando tutti e tutto, si getta nella laguna veneta.
Anzi, è la vita stessa a comportarsi esattamente come il grande fiume, che a volte è così dolce e lento da sembrare immobile, ma quando arriva la “Brentana”, la temibile e improvvisa piena, torna a essere irruento e passionale.
Un’altra estate in montagna avrebbe lasciato presto il posto all’autunno. Le mucche in alpeggio brucavano l’erba verde ai piedi dell’Asolone, osservando da lontano gli ultimi turisti svogliati che abbandonavano le località di villeggiatura. Lo stesso rito si compiva uguale anno dopo anno mentre loro, le pasciute mucche del Grappa, assistevano serene e rilassate alla processione pigra di automobili e camper verso la pianura.
Angelo Nardi si preparava a terminare la stagione estiva della sua baita ai piedi del monte Asolone, come ormai faceva da un decennio.
Lui, “il padovano del Grappa”, mentre al tramonto osservava la Val d’Oro prendere lentamente i colori che la rendevano degna di quel nome, ripensava spesso a come fosse passato in fretta il tempo.
La prima volta era salito qui da ragazzino, trascinato dai genitori. Allora, disperato per quello che sembrava delinearsi come un interminabile e inutile mese lontano da internet, dagli amici e da Carlotta, la ragazza dei suoi sogni, non avrebbe mai immaginato cosa sarebbe accaduto in futuro. Non avrebbe mai immaginato che l’incontro fortuito con il Grappa e la sua gente, insieme al vecchio diario dell’ardito Antonio Zicchi, gli avrebbero cambiato la vita.
Dopo il diploma aveva rilevato l’attività di Gabriele, il vecchio gestore della baita, aveva salutato Padova e si era trasferito a vivere in montagna senza più rimpiangere la sua scelta. Anzi, aveva poi continuato a ritenerla una delle opportunità più preziose e magiche che gli fossero state concesse. Tuttavia gli capitava spesso di avvertire nello stomaco una sensazione di incompiuto, uno strano disagio, come quando chiudi l’uscio di casa e sei convinto di aver dimenticato qualcosa. Il mistero del caporale Antonio Zicchi era stato risolto e lo spirito del tenente Guglielmin aveva trovato la pace eterna, eppure Angelo sentiva che la sua missione di “cercatore”, come lo aveva definito il vecchio Piero Todesco, un montanaro della zona, non era ancora terminata.
Capitava spesso che Carlotta, che intanto era diventata la sua compagna di vita e aveva abbandonato insieme a lui la città per il Grappa, lo trovasse così, da solo, immerso nei suoi pensieri con la pipa tra le mani.
Angelo quella pipa non la fumava mai, la reggeva spenta, fermo a contemplare verso la pianura quasi in attesa di qualcosa che non arrivava.
«Angelo, entra. Dài, ormai fa freddo, ci stiamo avvicinando all’autunno.»
Quando lo richiamava così dolcemente, Angelo tornava subito in sé, come se riemergesse da un viaggio nel tempo e nello spazio. Quindi sorrideva ed entrava malinconico in casa.
In quelle serate solitarie mille domande gli affollavano la mente, ma non c’era più nessuno in grado di guidarlo verso le risposte come un tempo aveva fatto proprio il vecchio Piero.
Piero Todesco si era spento il giorno dei Magi di tre anni prima. Angelo lo aveva visto proprio in settimana, al rientro dal giro per fare provviste in pianura. Scendeva ogni quindici giorni, con poca voglia, alla guida del suo furgone scassato, percorrendo la Cadorna, la lunga e stretta serpentina costruita durante la guerra. Rientrava il più velocemente possibile nel suo mondo, così diverso da quello di pianura, e ogni volta faceva tappa dall’anziano amico.
«Cercatore… cosa si dice a valle?»
Iniziava sempre così, Piero, era il suo modo di salutarlo. A volte Angelo aveva anche dubitato che Piero ricordasse il suo nome di battesimo, perché lo chiamava sempre e solo con quel soprannome affibbiatogli al primo incontro.
«Le solite, Piero… la gente parla di politica, di soldi, di lavoro che manca, di crisi.»
«E di belle cose non parla mai nessuno?»
Angelo ci aveva pensato un momento e poi aveva detto: «Effettivamente no, non ne parla mai nessuno».
«Ecco, vedi? Come possiamo sperare che le cose cambino se siamo noi i primi a non volerle cambiare?» aveva continuato l’uomo. «Sai, giovane, una volta quassù c’era un malgaro che non faceva altro che lamentarsi. Diceva di essere sempre senza soldi, che le sue vacche erano più piccole e brutte delle altre, che facevano poco latte, che il suo formaggio non era per niente buono. Perfino l’erba dei suoi pascoli, secondo lui, non era verde come quella degli altri. Non faceva nulla per cambiare, brontolava e basta. Sai come finì?»
Angelo si era limitato a scuotere la testa, invitandolo a proseguire.
«Quando il vecchio andò al creatore, il figlio, che lui aveva sempre ritenuto un incapace, scoprì che il padre non mandava mai le mucche al pascolo. Convinto che l’erba fosse cattiva, le nutriva comperando a caro prezzo dagli altri contadini il fieno per la stagione invernale. Così facendo spendeva male tutti i suoi soldi. Le mucche mangiavano malvolentieri e il latte era poco e di cattiva qualità. Di conseguenza anche il formaggio era meno stuzzicante rispetto al Morlacco della zona. Il figlio non fece lo stesso errore. Lasciò brucare l’erba alle vacche; effettivamente sembrava meno verde rispetto a quella dei vicini, ma non si fermò all’apparenza, perché le bestie ne andavano ghiotte. Quella che il padre considerava semplice erba secca era in realtà una specie molto rara e particolarmente adatta al pascolo: la cosiddetta “erba dell’elefante”. Scoprì inoltre che le sue vacche erano diverse dalle altre perché appartenenti a una razza quasi estinta, la Burlina: i capi erano di norma più piccoli, ma capaci di produrre un latte particolarmente prelibato. Nel giro di qualche tempo il formaggio fatto con il loro latte divenne così famoso che in molti partivano dalle città solo per venire in montagna a prenderlo. E così il giovane malgaro, dopo anni di fallimenti del padre, si arricchì.»
Piero aveva poi preso una pausa, quasi per riflettere lui stesso sul valore dell’aneddoto appena raccontato.
«Capisci, ragazzo mio? Se continuiamo a lamentarci di qualsiasi cosa, senza provare a trovare una soluzione o a dare fiducia agli altri, non andremo mai avanti. Siamo così ottusi che non riusciamo a vedere nemmeno il tesoro che abbiamo sul campo davanti alla malga.»
Questa fu l’ultima storia che il vecchio saggio della montagna gli regalò.
Qualche giorno dopo, Angelo era stato svegliato di soprassalto nel cuore della notte dal verso di una civetta. Si era affacciato dal balcone e l’aveva vista, nel buio, appollaiata sul grande abete rosso: gli occhi grandi e luminosi lo osservavano immobili. Piero gli aveva sempre detto che non temeva nessun animale del bosco, perché aveva fatto amicizia con ognuno di loro. Solo la civetta lo aveva rifiutato. Ma era riuscito a inventare una storia anche su questo.
«“Io porto la morte” mi disse un tempo la civetta. “Non posso far amicizia con te: nel momento del trapasso potrei non essere capace di onorare il mio dovere di messaggera con un amico.”»
La civetta ora era là che lo osservava: quale peggior presagio! Angelo aveva indossato gli scarponi senza calze, ignorando Carlotta che, preoccupata, cercava di capire cosa stesse accadendo, e istintivamente si era lanciato giù per la montagna.
Era buio pesto. Ad accompagnarlo c’erano solo l’impercettibile rumore della neve calpestata e l’affanno della corsa. Quando finalmente era uscito dal bosco, giungendo sulla strada, il presagio aveva preso forma. Le luci della casa di Piero erano accese e il lampeggiante blu dell’ambulanza colorava la neve a intervalli regolari. Angelo aveva fatto in tempo a vederlo un’ultima volta steso sulla lettiga: il pallore del sonno eterno non gli aveva tolto la serenità di chi, già in passato, aveva conosciuto da vicino la morte e non la temeva, anzi la attendeva tranquillamente.
Il giorno della cerimonia funebre, la chiesa del piccolo paese ai piedi della montagna era stracolma di persone: amici, conoscenti e anche nemici. Sì, perché ai funerali si incontrano tutti. Quelli che ti hanno amato e quelli che ti hanno odiato. Prima che la terra ricoprisse per sempre la cassa di rovere, Angelo vi aveva gettato sopra un bocciolo di rosa bianca, un altro lo aveva tenuto per sé.
Un ultimo simbolico gesto di condivisione.

2

Vienna, 3 aprile 1914

La primavera di Vienna è uno spettacolo unico al mondo, parola di Eugen Rubin. La prossima sarà la Domenica delle Palme e finalmente la forza della natura ha vinto il rigido inverno viennese. Adoro il caldo abbraccio del sole che scioglie le ultime nevi ammucchiate ai bordi della grande piazza. Posso finalmente spalancare le finestre dell’Hofburg e dare aria ai saloni delle camere imperiali. Il nostro amato imperatore gode nel sentire il rumore famigliare delle carrozze sul selciato. Tornano a muoversi agili dopo le nevicate dei mesi scorsi, con i cocchieri intabarrati che schivano le pozze d’acqua stagnante per evitare di indispettire i passanti.
Questa è la mia Vienna, la grande capitale dell’impero.
Sono un uomo fortunato, vivo in una città magnifica e assolvo con orgoglio l’incarico di cameriere personale al servizio dell’imperatore. Certo, il mio non è un lavoro semplice: sua maestà ha una vita particolarmente impegnativa, inoltre sono sempre molto richiesto nei saloni da tè. Nessuno perde l’occasione di chiedermi indiscrezioni sull’imperatore quando mi vede. A volte penso di avere a che fare con un gruppo di impertinenti comari invece che con la migliore gioventù dell’impero. Il mio dovere, però, è mantenere il più assoluto riserbo, e lo assolvo senza eccezioni.
Franz Joseph si alza tutte le mattine prima dell’alba e si corica molto presto. Consuma pranzi frugali, odia la mondanità e lavora, lavora sempre instancabilmente oltre le sue forze. Ormai l’età si fa sentire anche per il grande imperatore. Per me quest’uomo è stato quasi un padre, anzi molto più di un padre. Rigido nei suoi secchi comandi, ma amorevole nei miei confronti. Ogni mattino, al risveglio, prima ancora di calare i piedi nelle babbucce, si accerta della mia salute: «Come stai oggi, Eugen?».
E non lo fa per forma, glielo si legge nel volto.
Anche oggi, in questa magnifica giornata di sole, l’imperatore è al lavoro, seduto alla scrivania di mogano. La piccola luce che aiuta la sua debole vista è l’unica illuminazione a elettricità di tutta la residenza. Franz Joseph è terrorizzato da questa forma di modernità, la teme come il fuoco che la genera.
Sembrava una giornata serena, finché, senza preavviso, è arrivato Ferdinand, il nipote di sua maestà imperiale. Mia madre è stata la sua tutrice. Quando nacqui io, Ferdinand, che non era più un bambino, mi considerò come un fratello minore. Da fanciullo, mi fu sempre accanto, mi insegnò a pescare e ad andare a caccia. È incredibile quanto ora le nostre vite siano divise! Dopo la strana morte di Rudolf, il figlio di sua maestà destinato al trono, Ferdinand è diventato il nuovo erede. Da allora è cambiato completamente.
«Buongiorno, Eugen, vorrei conferire con lo zio. Per cortesia, mi annuncia?»
Per cortesia, mi annuncia? Bastano poche parole per capire quanto Ferdinand sia diverso rispetto a quando mi insegnava a sparare ai cervi.
“Fratello mio, sei un’altra persona e non mi piaci.” Vorrei dirlo, ma mi devo limitare a pensarlo, lui un giorno siederà sul trono, io sono e rimarrò il cameriere di corte.
«Imperatore, l’arciduca Franz Ferdinand chiede udienza.»
«Ferdinand? Cosa vuole? Non era previsto stamani.» L’arciduca è così irruento che non attende di essere introdotto e in due passi è già al centro della stanza.
«Maestà, zio, sono venuto a chiedervi di porre rimedio a una situazione intollerabile.»
L’anziano regnante si scosta gli occhiali dalla punta del naso, spegne la luce dello scrittoio e osserva il nipote, poi mi guarda, prima di rivolgere di nuovo l’attenzione a Ferdinand.
«Dunque dimmi, cosa mai ti affligge al punto tale da arrivare così agitato al mio cospetto?»
«Si tratta di Sophie, zio.»
Quel nome è uno dei pochi in grado di far alterare l’imperatore. Sophie Chotek, la moglie di Franz Ferdinand, bella, alta e slanc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Lo chiamavano Alpe Madre
  4. Prima parte
  5. Seconda parte
  6. Epilogo
  7. Ringraziamenti
  8. Copyright