Cibo supersonico
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Cibo supersonico

La nostra storia, le nostre ricette

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Cibo supersonico

La nostra storia, le nostre ricette

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Informazioni sul libro

A come Amazzonia.
I come India.
Z come Zucchero.
Ma anche Banana Pancakes, Hygge, Relax, Non-cacio e pepe e tanto altro. Cibo Supersonico è un libro-mondo dentro cui perdersi e seguire strade inattese, nel quale Francesca e Chiara, un pezzetto alla volta, raccontano tantissime cose: la loro storia, dal primo incontro a oggi; la loro battaglia per la comunità LGBTQ+; la malattia di Francesca, che nel 2016 ha affrontato un tumore al seno; l'impegno per un mondo più sostenibile.
Naturalmente, condividendo la loro storia, Chiara e Francesca ci aprono anche le porte della loro cucina, perché il collante che unisce e interseca tutti questi temi così apparentemente diversi e distanti tra loro è proprio il cibo. E così ci svelano per la prima volta oltre venti ricette - rigorosamente vegetali - tra le più richieste dalla loro community social e dalle persone che in questi anni le hanno volute a casa come chef a domicilio.
Cibo Supersonico, arricchito da tante bellissime illustrazioni e da una preziosa selezione fotografica di alcune ricette, è un libro d'amore ma anche un libro ricco di parole importanti e che tocca tantissime tematiche attuali: la sostenibilità, il corpo femminile, la malattia, la sessualità e il genere, affinché nessuna di queste rimanga un tabù.
Come scrivono Chiara e Francesca nell'introduzione, "un libro per tutt e che può rappresentare tutt, che contiene gli ingredienti principali della nostra storia, ma anche quelli per ricreare le vostre ricette più amate".

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2022
ISBN
9788831807067

L

10

LA CASA SULL’ALBERO

FRANCESCA

Festeggeremo la fine della chemio
Fianco a fianco su quel palco
E starai bene sai e finirà anche il buio
Tante cose cambieranno
E rimarranno i segni ma sembrerai
Più bella, il tuo sorriso ha vinto
E le paure quelle, quelle qualche volta
Quelle ancora torneranno.
La fine della chemio, SICK TAMBURO
3 agosto 2016 - 3 agosto 2017
Si pensa che in 365 giorni possano succedere milioni di cose, che le situazioni possano cambiare in fretta, che ci sia tutto il tempo per rimediare agli errori o per fare promesse da mantenere in futuro. A me invece non è andata proprio così.
Io in 365 giorni esatti ho dovuto soltanto fare spazio a ventidue infusioni di chemioterapia.
Ma quel tempo, a dire il vero, è volato rapidamente lasciandomi il grande dono della profondità.
Ho passato ogni singolo momento a impegnarmi, a “fare caso” ai gesti che stavo compiendo e ripensavo alle vicissitudini che mi avevano portato fin lì, a vivere proprio ciò che stavo vivendo. Ho persino fatto un bilancio, a un certo punto: avevo un cancro, ma anche l’amore della mia vita.
Avevo la mia famiglia lontana, ma ne avevo
trovata un’altra pronta a farmi
da SCUDO e da SUPPORTO.
Avevo perso il mio lavoro in cucina, ma stavo mostrando una creatività che fino ad allora non avevo mai avuto l’occasione di sviluppare e sperimentare.
Certo, non posso dire che la malattia sia un’esperienza che auguro a tutti, al contempo però non posso nemmeno quantificare la miriade di pensieri che ho avuto modo di approfondire in quel periodo in cui la mia vita è andata, apparentemente, in stand-by. O, almeno, questo è quello che sembrava da fuori: quando una persona si ammala, ce la figuriamo all’istante come immobile, bloccata, imprigionata in un corpo che non la supporta e non la rappresenta più. E in effetti è così, si mette davvero in atto un processo di liberazione. Ma ci chiediamo mai da che cosa? Da che cosa io mi devo liberare? Contro che cosa devo lottare? Contro il mio stesso corpo che mi sta chiedendo aiuto?
Ci ho pensato a lungo, inizialmente ho faticato a comprendere il messaggio di ciò che mi stava accadendo e ho dovuto scontrarmi spesso con l’inevitabile domanda: “Perché proprio a me?”.
Sfido chiunque ci sia passato a non esserselo chiesto. Una volta un’alchimista mi disse che nella nostra vita non arriva nulla che in quel momento non siamo in grado di sostenere. Che tutto accade quando abbiamo a disposizione i mezzi necessari per comprendere e agire. Ancora non so se questa affermazione sia vera oppure no, ma sicuramente ne ho fatto tesoro durante tutto questo tempo.
E ora che il mio percorso era finito mi meritavo di vedere il cielo da un’altra prospettiva, di dormire sollevata da terra, di stare sospesa all’interno di una grande culla: una quercia, che rappresenta per me l’utero della donna, il luogo dove ognuno di noi ha preso forma, la saggezza di Madre Natura e l’infinita resilienza.
Era luglio e il cielo era azzurrissimo, riuscivo a intravederlo dalla mia poltrona fare capolino tra i piccoli spazi che si creavano tra le tende scure che coprivano per gran parte i finestroni dell’ospedale. Accanto a me c’era una signora anziana, molto pallida, chiaramente intenta a scongiurare la nausea mangiando un panino al prosciutto e bevendo Coca-Cola. Alla mia sinistra un’altra donna si era addormentata mentre nel braccio entrava un liquido rosso che mi auguravo l’avrebbe liberata come aveva liberato me.
«Roberta, la prossima chemio posso farla al mattino? Te lo chiedo per favore… è la mia ultima chemio!» Roberta era un’infermiera dalla criniera riccia, sempre molto indaffarata, teneva una penna in una mano e nell’altra un’agenda fitta di appuntamenti da incastrare.
Era passato un anno dal mio ingresso nel reparto di oncologia e lei era quasi sempre presente. Tra noi si era creata una certa confidenza e mi rivolgeva spesso infiniti complimenti per la luce che emanavo, per la mia tenacia nel mettermi il rossetto e per i turbanti colorati che amavo indossare.
D’altro canto, ogni volta che potevo io le portavo in dono qualche mia creazione: taralli o cioccolato crudista. Ci siamo scambiate sempre dei bei sorrisi, con profondo rispetto reciproco. Quello che mi piaceva di lei era la totale assenza di pietismo nei confronti dei pazienti, ne era del tutto priva. Questo le permetteva di non elevarsi, ma di essere delicata e gentile nei confronti di chi, in quel momento, necessitava di supporto. Spesso mi faceva capire attraverso le sue battute che non mi voleva tra i piedi in ospedale, ma via lontano, a vivere la vita che una donna di trent’anni meritava.
«Dove devi andare stavolta?» Mi guardò velocemente mentre era china a scrivere sulla sua agenda, cercando di mascherare un sorriso. Era già capitato che le chiedessi variazioni sugli orari, in passato, perché volevo realizzare i miei piccoli eventi o perché Chiara aveva organizzato una vacanza, lontano da quella casa che mi proteggeva ma in cui passavo la maggior parte del mio tempo in solitudine.
«In una casa sull’albero, in Piemonte!» esclamai piena d’orgoglio, sembravo febbricitante: la mia emozione diventava incontenibile ogni volta che il mio pensiero volava lì.
Dormire in una quercia all’interno di un
bosco e completamente immersa nel silenzio
era uno dei miei SOGNI sin da bambina.
Che ci dovessi andare proprio il 3 agosto del 2017 fu un “caso”.
«Ma dove l’hai trovato questo posto?» chiese Roberta, alzandosi di scatto dalla sedia e correndo a rispondere al telefono. «In ogni caso sono felicissima per te, vedo di fare tutto il possibile allora per farti fare l’ultima chemio al mattino, okay alle 10.30? Come ti tratto bene, eh? … Pronto?»
Era il primo febbraio quando prenotai quella notte nella casa sull’albero, era il mio regalo di compleanno per Ciarina. Quando, parlando al telefono con la struttura, mi dissero che la prima disponibilità per ospitarci sarebbe stata il 3 agosto, mai avrei potuto immaginare che sarebbe coincisa con la fine delle mie cure.
La fine della CHEMIO, un giorno
da ricordare e da celebrare.
«Appena finisci chiamami che ti passo a prendere al volo e partiamo!» Gli occhi di Chiara brillavano di una luce che non riuscivo a distinguere dalla mia. La nostra felicità era un tutt’uno e io sapevo di averla scelta come compagna anche per questo motivo: era come se avesse vissuto ogni singola emozione di quei mesi nel mio corpo, come se mi amasse a tal punto da essere me. E in fondo io un po’ ho sempre creduto che quando due persone si amano forte, quando si amano per davvero, riescono quasi ad anticiparsi le parole, i gesti, a volte persino i sentimenti. Chiara aveva già caricato la valigia in macchina, forse non vedeva l’ora di mettere la parola “fine” a quel percorso che ci aveva tolto tanto, per donarci molto di più.
L’ultima infusione fu per me come un enjambement, un rito di passaggio: non conosco parole che possano spiegare la mia sensazione di quella giornata, a tratti mi sentivo come un corridore che stava per oltrepassare la linea d’arrivo, a tratti mi chiedevo se quella sarebbe stata davvero la conclusione del mio viaggio. Può realmente finire qualcosa di così intenso? Ciò che mi era successo mi aveva cambiato non solo nel corpo, ma anche nelle ossa, nel sangue, nel Dna.
Persino il mio odore era cambiato. Dopo un anno, la mia pelle aveva l’odore dei medicinali. Persino i miei vestiti puzzavano di chemioterapia. Mi chiedevo se se ne sarebbe mai andato via.
Mi chiedevo anche se Chiara se ne fosse accorta, ma la risposta era scontata. Eppure era sempre con me. Mi amava come nessun altro aveva mai fatto prima, nonostante il pesante bagaglio che, un anno prima, avevo d’improvviso trascinato nella sua vita.
«Amore, ho finito. Sono felice. Ti aspetto fuori.» Mandai questo messaggio e mi scesero le lacrime.
Trrr. Trrr. Trrr.
«Ti amo. Come ti senti? Cinque minuti e sono da te, la nostra quercia ci aspetta.»
Arrivammo in provincia di Cuneo nel tardo pomeriggio: la casa sull’albero ci apparve subito come un grande dono, un’esperienza di cui mai ci saremmo potute dimenticare. Tutto era silenzio, a eccezione del rumore delle foglie che alle folate di vento leggero rispondevano con i loro sussurri. Il verde delle fronde mi riportò alla pace interiore, quella che avevo ricercato a lungo durante tutto quell’anno incredibile. Per raggiungere l’ingresso dovevamo salire una trentina di scalini, anch’essi in legno, che portavano a una piattaforma sopraelevata dalla quale si poteva osservare il bosco. Lassù regnavano il suono delle api che ronzavano attratte dalla resina che colava dai tronchi e lo scricchiolio dei nostri passi che si dirigevano cauti verso la porticina da hobbit che ci avrebbe condotte dentro “la casa”.
«È meraviglioso qui. Non c’è posto in cui avrei potuto sentirmi più protetta. Doveva essere il tuo regalo di compleanno, ma sembra più un regalo fatto apposta per me.»
«È il più grande regalo che potessi ricevere, tutto ciò. Ho paura di pronunciare la parola “libertà” perché mi sembra troppo, ma è questo che desidero per te: la completa libertà di poter guardare la vita in prospettiva. Non solo all’oggi. Abbiamo tanto bisogno di sognare. E questo posto ci sta rendendo tutto molto semplice…» disse Chiara aprendo lentamente la porta e spingendomi verso l’interno. Ad accoglierci, il letto immerso nella luce soffusa che riusciva a passare attraverso i rami e le foglie che erano lì a fare da scudo alla prepotenza dell’estate. Sulla sinistra un’altra minuscola porticina permetteva di accedere al bagno: c’era tutto, dalla doccia al wc, al lavabo con i prodotti naturali e profumati da poter utilizzare per il corpo. Tutto profumava di legno e di antico.
Mi sdraiai sul letto, come esausta, sospirando e chiamando a me quella che di lì a qualche anno sarebbe diventata mia moglie.
Smanettai un attimo su Spotify perché desideravo ardentemente una colonna sonora per quel momento. Everything in its right place dei Radiohead.
La sera ci addormentammo presto e la notte trascorse serena e silenziosa, coccolate dall’energia di quella quercia maestosa; la luce e il calore del mattino non tardarono a svegliarmi: erano le 6.30 quando aprii gli occhi. Il cortisone solitamente non mi dava tregua, ma in quel caso ne fui felice: scesi dal letto e aprii la porta con il desiderio di condividere il mio risveglio con quello della natura e, appena misi il piede fuori dalla stanza – con Chiara che ancora stava dormendo alle mie spalle –, ne rimasi meravigliata. Sull’albero di fronte a me due piccoli scoiattoli si rincorrevano giocosi, come impegnati in una danza di corteggiamento senza sosta. Poco più in basso, tra i cespugli sotto la piattaforma in legno, vidi con la coda dell’occhio un veloce movimento e la mia attenzione fu catturata subito dal rumore di ramoscelli spezzati. C’era qualcuno laggiù. Stropicciai gli occhi e mi sforzai di mettere a fuoco, ma niente. La mia miopia non mi permetteva di andare oltre. Feci per rientrare per svegliare Chiara, ma il mio brusco movimento fece sì che l’inquilino del piano di sotto decidesse di spostarsi e di mostrarsi, finalmente, in tutta la sua maestosità. Era un cervo. Un esemplare magnifico che in pochi secondi attraversò la macchia e uscì dalla mia visuale. Sentii il mio cuore dapprima spaventato lasciarsi andare alla leggerezza della meraviglia: «Grazie per avermi portato fin qui, fino a oggi». Mi strinsi da sola in un abbraccio.
Parlavo a ME STESSA, al mio corpo
che aveva retto a tutte quelle prove,
e che seppur mutilato era ancora
forte, vigile, pronto a reagire.
In quel momento notai che sotto al tavolino accanto all’ingresso della casa c’era appoggiato un piccolo cesto, sembrava un paniere, e lì a fianco una tovaglia bianca e dei contenitori per le bevande. Mi avvicinai, certa che la sera prima non ci fosse nulla di tutto ciò. Trovai un piccolo foglietto appoggiato al cesto che recitava: «Buona colazione e buona giornata», e a seguire un elenco di preparazioni e di prodotti, tutto completamente vegan.
«Amore, svegliati… Vieni a vedere!»
«… mmh?»
«Alzati, c’è la colazione già pronta!»
«Di già?! Ma che ore sono?»
«Sono le sette. Vieni fuori, è bellissimo qui! Sto preparando la tavola…»
«Te l’ho già detto che ti amo?»
«Sì.»
«Ok, arrivo.»

SCONES DI PERE E GOCCE DI CIOCCOLATO

INGREDIENTI PER 15 PEZZI CIRCA

200 g di farina di tipo 1 o semi integrale 100 g di farina di nocciole o mandorle o pistacchi o noci 40 g di maizena 180 g di bevanda vegetale non zuccherata 40 g di olio di girasole 35 g di estratto di agave o di acero o 3 datteri Medjoul a tocchetti o 30 g di uvetta o qualsiasi dolcificante naturale a disposizione (facoltativo) ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. INTRODUZIONE
  4. A
  5. B
  6. C
  7. D
  8. E
  9. F
  10. G
  11. H
  12. I
  13. L
  14. Z
  15. ə
  16. INDICE DELLE RICETTE
  17. Inserto fotografico
  18. Copyright