La terapia dell'oblio
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La terapia dell'oblio

Contro gli eccessi della memoria

  1. 304 pagine
  2. Italian
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La terapia dell'oblio

Contro gli eccessi della memoria

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Balzac scriveva che "i ricordi rendono la vita più bella, dimenticare la rende più sopportabile"; Borges nel racconto La biblioteca di Babele lascia che i suoi personaggi individuino nell'oblio "una forma di memoria"; già Dante alla fine del Purgatorio vuole che il fiume Lete permetta alle anime dirette al Paradiso di lavarsi dei propri peccati, rimuovendo così la memoria delle cose cattive del passato. La letteratura ha sfiorato o trattato con cura il tema dell'oblio, e oggi è necessaria una somministrazione sapiente di dimenticanza anche in ambito storico e politico. Per mettere in luce i danni da "eccesso di memoria", Paolo Mieli, con la chiarezza del grande divulgatore e l'accuratezza dello storico, prende in esame decine di eventi ed episodi del nostro passato, dalla storia antica al Medioevo fino ai nostri giorni: dal ruolo - mal compreso e peggio ricordato - di Caracalla imperatore di Roma a Carlo Magno, da Bisanzio "oscurata" da Costantinopoli alla Napoli rivoluzionaria di fine Settecento. Tra amnesie sospette e memorie riluttanti, queste pagine restituiscono peso anche a temi a noi più cari e vicini, quasi quotidiani, come le origini della mafia, l'eredità del fascismo italiano e del nazismo tedesco, indagando il non detto che segna il racconto della Resistenza e spingendosi a commentare il discorso pubblico del nostro presente, tra virus, pandemie, ipotesi cospirazioniste. Una terapia, quella a base di oblio, che Mieli identifica come necessaria, dato che "gli storici avrebbero dovuto far argine in qualche modo al dilagare della memoria". Perché "quando si hanno idee forti sul presente, è pressoché inevitabile che quelle idee si impongano sulle interpretazioni del passato." Eppure, dobbiamo fare di tutto per evitarlo.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788831801782
Argomento
History
Categoria
World History
II

LA MEMORIA RILUTTANTE

Espellere, rimuovere, a volte di fatto cancellare. Sono verbi affini, e affine è stata l’opera che si è compiuta su alcune pagine della Storia remota e recente: da episodi militari richiamati alla mente di malavoglia, come la battaglia di El Alamein, vicende intellettuali delicate e spesso al limite dell’ambiguità ideologica, vedi il caso di Concetto Marchesi e del suo rapporto col fascismo, prima, e con la militanza organica al Partito comunista poi. Mussolini è un bacino enorme, per l’Italia, di riluttanze della memoria, anche la Resistenza porta con sé voci, nomi e momenti su cui la storiografia per troppo tempo ha scelto, compiutamente, di sorvolare. Su tutti, forse, sono gli ebrei italiani ad aver fatto i conti con una memoria difficile da gestire, con una identità che spesso sono stati costretti a riscoprire.

La battaglia occultata di El Alamein

La nostra memoria nazionale, come certi fiumi, alterna ondate di piena a stagioni di secca. E infatti gli italiani hanno sempre raccontato a se stessi, dopo aver perso la guerra, che ci fu una battaglia, quella di El Alamein (1942) contro gli inglesi, in cui «mancò la fortuna, non il valore» (come recita il testo del cippo marmoreo che nel 1955 fu collocato nel sacrario militare della località egiziana). In effetti i nostri connazionali, tra i quali si distinse il maggiore Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo (che conosceva il terreno per averlo già perlustrato nove anni prima), si batterono con onore, come venne loro riconosciuto da tutti, inglesi compresi. Però, nota Andrea Santangelo in La battaglia di El Alamein, di libri specifici sull’argomento nel nostro Paese non ne sono stati scritti o tradotti moltissimi. A parte una «nutrita memorialistica dei reduci», di «scientifico» c’è assai poco. Si possono citare, nell’arco di qualche decennio, La battaglia di El Alamein di Michael Carver, I generali del deserto. I signori della guerra d’Africa di Correlli D. Barnett, Le volpi del deserto di Paul Carell, Rommel in Africa settentrionale. Settembre 1940-novembre 1942 di Alessandro Massignani e Jack Greene. A questi si aggiungono i tre volumi Le operazioni in Africa settentrionale di Mario Montanari pubblicati dall’Ufficio Storico dello Stato maggiore dell’Esercito e pochissimi altri. Forse, ipotizza Santangelo, questa relativa scarsità di studi è riconducibile a «un certo disinteresse della ricerca accademica sulla storia delle battaglie», che si accompagna ad un «inveterato sospetto che la storia militare sia un luogo oscuro e tristo, popolato solo da guerrafondai».
Eppure Winston Churchill e Bernard Montgomery hanno sempre sostenuto che la battaglia di El Alamein (23 ottobre-3 novembre 1842) sia stata decisiva nel far cambiare le sorti della guerra, così come lo furono le pressoché coeve battaglie di Midway (4-7 giugno 1942) e di Stalingrado (17 luglio 1942-2 febbraio 1943). Peccato che in questo riconoscimento avessero dimenticato (o rimosso) la «prima» battaglia di El Alamein, quella condotta da Claude Auchinleck, altrettanto decisiva di quella di ottobre in cui al comando degli inglesi ci fu l’«osannato futuro primo visconte Montgomery di Alamein» (tale fu il titolo nobiliare concesso nel 1946 al maresciallo in onore della sua vittoria nel deserto). Perché questa rimozione dei fatti d’arme nordafricani di inizio luglio 1942?
In un articolo per il Defence Studies Department del King’s College di Londra, lo storico militare Niall Barr ha puntato l’indice contro le modalità con cui la storiografia e la memoria condivisa britannica hanno totalmente espulso la prima battaglia di El Alamein. Trascurando il fatto che quel combattimento, tra l’1 e il 3 luglio del 1942, fu decisivo nell’impedire all’esercito di Rommel la conquista dell’Egitto. Barr se la prendeva con le parole del generale Charles Richardson («non è mai esistita» una battaglia chiamata «la prima di El Alamein») sostenendo che tale occultamento dei meriti di Auchinleck era, a ogni evidenza, riconducibile a Montgomery. Il quale pretendeva fosse ricordato soltanto ciò che andava a gloria sua e, al massimo, di Churchill.
Churchill aveva avuto l’intuizione di attaccare in Nord Africa, nonostante i suoi gli facessero osservare che in Libia c’erano 182.000 militari italiani e 24.500 libici, mentre in Egitto le forze britanniche non arrivavano a 60.000 uomini. Gli italiani si sentivano padroni del campo, tant’è che esisteva dal ’38 un piano d’attacco, predisposto dal governatore Italo Balbo, per giungere ad Alessandria «di sorpresa» travolgendo gli inglesi. Il piano, definito da Santangelo «quantomeno utopico», aveva come punto debole la scarsa conoscenza del terreno su cui si sarebbero dovute svolgere le operazioni. Quando Balbo morì – il suo aereo fu abbattuto per errore dalla nostra contraerei nel giugno del ’40, pochi giorni dopo l’entrata dell’Italia in guerra – il maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, che lo sostituì, accantonò il piano e, a dispetto delle insistenze di Mussolini che premeva perché si muovesse in fretta e desse vita in Africa a una «guerra parallela» a quella europea, si mise a studiare altre ipotesi. Prese tempo anche il corrispettivo di Graziani sul fronte inglese, il generale Archibald Wavell, grande studioso di storia militare, poco apprezzato da Churchill che di lui non aveva una grande considerazione (lo definì «niente più di un buon colonnello»).
Wavell e Graziani, scrive Santangelo, si cimentarono in una gara di «procrastinazione dell’offensiva», vinta dall’inglese dal momento che Graziani «per evitare di essere silurato dovette necessariamente partire all’attacco». Il 18 agosto 1940 Mussolini ordinò a Graziani di agire, scrivendogli che lui stesso si assumeva la «piena responsabilità personale» della decisione. Graziani attese ancora una ventina di giorni e mandò il generale Mario Berti all’attacco di Sidi el-Barrani. L’azione militare, a dispetto della nostra superiorità numerica, fu caotica. A tratti comica. Così come la successiva in direzione di Marsa Matrouh. Il 28 ottobre Mussolini decise di attaccare la Grecia e da quel momento prestò minori attenzioni al teatro libico. Sicché gli italiani per qualche tempo poterono starsene «tranquilli nelle loro buche nel deserto». Fino al 9 dicembre, quando furono sorpresi nel sonno dai tiri dell’artiglieria nemica. Subito i nostri connazionali «andarono nel panico» e con l’offensiva britannica guidata dal generale Richard O’Connor caddero le roccaforti italiane della Cirenaica: Bardia, Tobruk e Derna. Fu, secondo Santangelo, una dimostrazione dell’«insipienza dei vertici militari italiani». I quali persero centoventimila uomini tra i quali ventidue generali, un ammiraglio e l’intero bordello da campo per gli ufficiali. Subito Mussolini sostituì Graziani con il generale Italo Gariboldi e chiese ai tedeschi di mandare in nostro soccorso l’Afrikakorps sotto il comando di Erwin Rommel. Così finì la «guerra parallela»: da quel momento gli italiani furono anche in Africa agli ordini di Hitler. Nel giro di qualche settimana Rommel fermò l’avanzata nemica, entrò a Bengasi (aprile 1941), riuscì persino a catturare i generali O’Connor e Neame. Anche i bersaglieri italiani agli ordini del colonnello Ugo Montemurro fecero prigionieri due generali nella presa di El Mechili. Stavolta toccò a Wavell di essere sostituito dall’assai capace Claude Auchinleck, richiamato apposta dall’India (luglio 1941). Churchill non provava nemmeno a dissimulare la collera provocatagli da Rommel. Mussolini riprese animo e annunciò l’intenzione di sfilare in parata sotto le piramidi. Rommel lo sconsigliò e iniziò a giocare una metaforica partita a scacchi con Auchinleck. A dire il vero, fu quest’ultimo a prendere l’iniziativa. E la partita raggiunse il culmine con la prima battaglia di El Alamein.
Una battaglia che si mise subito male per le truppe dell’Asse: «non conoscevano la zona», scrive Santangelo, «e il movimento notturno in area desertica era quanto di più complicato potesse esserci per un esercito». Per di più il settanta per cento delle artiglierie italiane erano modelli che risalivano alla Prima guerra mondiale. Stesso discorso valeva per fucili e moschetti. Molto apprezzata fu invece la pistola semiautomatica Beretta M34: ai tedeschi piaceva che non si inceppasse mai e gli Alleati la consideravano un’«ambita preda bellica». Il combattimento finì per così dire in parità. Ma la parità – lo si sarebbe capito in seguito – era tutta a vantaggio degli inglesi. Così il generale Cecil Ernest Lucas Phillips in El Alamein provò a spiegare quanto fu terribile quello scontro: «Alla fine del mese entrambe le parti erano esauste, dopo essersi ridotte vicendevolmente a un punto morto […] Le distese sabbiose e le alture rocciose erano disseminate di veicoli fracassati, neri grovigli di rottami irriconoscibili, armi infrante, lembi di vestiti e frammenti di materiale, relitti di carri armati con le pareti interne incrostate di carne umana o le torrette aperte da cui sporgevano i torsi carbonizzati degli equipaggi». Churchill però non capisce che non si tratta di una sconfitta: il 27 luglio sostituisce Auchinleck con William Gott e poi con Bernard Montgomery.
Ed eccoci al momento della verità con i due generali uno di fronte all’altro: Rommel, nato nel 1891, aveva dato prova di sé nel 1917 a Caporetto, allorché alla testa di un battaglione di montagna del Württemberg si era infilato nello schieramento italiano facendolo collassare (con ciò meritando la più alta onorificenza militare tedesca); Montgomery, nato quattro anni prima di Rommel, nel 1887, venne immediatamente percepito dai suoi come molto autorevole. «Pochi lo conoscevano», racconta Lucas Phillips, «si sapeva soltanto che quando faceva lezione o teneva una conferenza in Inghilterra venivano esposti cartelli con la scritta “Vietato fumare, vietato tossire”». In breve tempo, riferisce ancora Lucas Phillips, impresse nei soldati inglesi «un’assoluta certezza di vittoria» e trasformò «un assembramento di nuclei senza coesione» in un’«efficiente macchina da guerra». Quando fu nominato comandante dell’VIII armata, le sue prime parole furono: «È triste che un soldato con una grande storia alle spalle riesca a raggiungere le vette del comando e poi debba soffrire una tale disfatta da rovinargli per sempre la carriera». Il generale Hastings Ismay, che era vicino a lui, lo esortò a star su con il morale, ma lui gli replicò: «Io mi riferivo a Rommel!». Il quale Rommel non fu da meno quanto a certezza della vittoria. Convocò Paolo Caccia Dominioni e gli disse: «Se sono ben informato, lei è ingegnere e conosce bene il Nilo per avervi passato molti anni. Quindi, quando arriveremo al Nilo, lei si occuperà del forzamento e prenderà sin d’ora accordi con il mio comandante del genio, colonnello Hecker». Sin d’ora. Ma le cose andarono diversamente da quel che Rommel aveva previsto.
Furono undici giorni di combattimenti furiosi che sfiancarono entrambi gli schieramenti. Nel pomeriggio del 2 novembre 1942 Rommel decise per una parziale ritirata. Era una scelta saggia. Inviò telegrammi a Roma e a Berlino «per informare i rispettivi governi delle criticità della situazione». Mandò inoltre un emissario personale (il suo ufficiale d’ordinanza, il capitano Alfred-Ingemar Berndt) al quartier generale di Hitler perché sperava che, essendo Berndt un conoscente personale del Führer, venisse ascoltato più di quanto lo sarebbe stato il capo di Stato maggiore. Ma, ironizza Santangelo, Montgomery trovò in Hitler e Mussolini due provvidenziali «alleati». Hitler ordinò a Rommel di «continuare a resistere», di «non cedere di un sol passo»; non avrebbe avuto nessuna alternativa: o la vittoria o la morte. Dello stesso tenore furono le parole, ancora più ingenue, di Mussolini. Rommel fu così costretto a dare un contrordine ai suoi, che già si accingevano a ripiegare per riprendere fiato. Nessuno aveva però la forza di tornare indietro. In più il contrordine di Rommel affossò definitivamente il morale delle truppe. In particolare quelle italiane. Montgomery capì quel che era successo e passò al contrattacco. Il primo a essere travolto fu il XXI corpo italiano. Poi venne il resto. La notizia della sconfitta di El Alamein si diffuse in un lampo nelle retrovie italo-tedesche «creando panico e isteria». Montgomery poté annunciare una «vittoria completa e assoluta». Il suo superiore, Harold Alexander, telegrafò a Churchill di «far suonare le campane a distesa». Hitler passò a concentrarsi su Stalingrado, dove i suoi gli annunciavano un’imminente vittoria. Anche qui ingannandolo. Mussolini capì che avrebbe dovuto rinunciare per sempre alla parata sotto le piramidi.
Quanto a Caccia Dominioni, singolare figura di militare, ingegnere, intellettuale poliglotta, fu decorato per l’impresa di El Alamein con una medaglia d’argento. Poi, tornato in Italia, prese parte alla Resistenza, fu catturato due volte, una dai repubblichini, la seconda dai tedeschi. Riuscì a fuggire e fu nominato capo di Stato maggiore del Corpo lombardo dei volontari per la libertà conquistando, come riconoscimento, una medaglia di bronzo. Finita la guerra, dedicò molti anni al recupero delle salme dei caduti dell’autunno ’42 e all’edificazione del Sacrario italiano, in cui avrebbero trovato sepoltura quasi cinquemila salme. Stavolta ottenne dall’Italia repubblicana una medaglia d’oro. Sull’impresa nordafricana scrisse poi un libro, Alamein 1933-1962, non fazioso e pregevole anche sotto il profilo letterario. Non tutti, verrebbe da dire, erano disposti a dimenticare.

Carlo Magno e l’elefante scomparso

Nell’estate dell’802 Carlo Magno, «padre» dell’Europa (un’Europa da cui erano però esclusi l’impero bizantino, la Spagna musulmana e il mondo barbarico al di là dai confini del regno franco) ricevette in dono un elefante. Al grande animale fu dato il nome Abul Abbas. Lo inviò ad Aquisgrana il califfo di Baghdad Harun al-Rashid. La particolarità di questo accadimento è che – come mette in rilievo il medievista Giuseppe Albertoni nel libro L’elefante di Carlo Magno – quel regalo l’imperatore lo aveva esplicitamente richiesto. La prima biografia di Carlo Magno, la Vita Karoli, scritta da Eginardo – tra le principali personalità di corte nell’830 (circa), cioè sedici anni dopo la morte dell’imperatore – specifica che si trattò appunto di una «richiesta». Esplicita. Altri sovrani avevano e avrebbero avuto accanto a sé un elefante, ma nessuno di loro lo aveva mai «richiesto». Dettaglio non irrilevante, sostiene Albertoni, perché la volontà di Carlo Magno di avere con sé quell’animale va intesa come frutto di un «desiderio politico».
Probabilmente nell’802 nessuno dei sudditi di Carlo Magno aveva mai visto un elefante. Anche se quell’animale già da secoli era conosciuto per esser stato portato nel nostro continente da Pirro re dell’Epiro (280 a.C.), da Annibale (218 a.C) e da Gneo Pompeo, che addirittura ne fece parte integrante dell’esercito romano. Era inoltre noto per essere stato minuziosamente descritto da Aristotele nella Storia degli animali e da Plinio il vecchio nella Storia naturale. Dei «giganti» con la proboscide avevano parlato diffusamente anche Tito Livio e, secoli dopo, Paolo Diacono. Plinio in particolare aveva aperto con l’elefante la sezione della propria opera dedicata agli animali terrestri, ricordandone le «virtù» che ne facevano la bestia «più vicina alla sensibilità dell’uomo». Gli elefanti, scriveva Plinio rifacendosi ad Aristotele, «comprendono il linguaggio del luogo in cui sono nati e obbediscono ai comandi, sono capaci di ricordare gli esercizi che hanno imparato a eseguire, provano desiderio di amore e di gloria; inoltre, insieme di virtù rare anche nell’uomo, hanno onestà, prudenza, senso di giustizia, perfino rispetto religioso nei confronti degli astri, venerano il sole e la luna». Tutti lo consideravano «un animale che adora i re» e la dimostrazione stava nel fatto che piegasse le ginocchia, quasi si genuflettesse al cospetto del padrone. Poi con l’affermazione del cristianesimo già in età romana imperiale l’interesse per il mondo animale «si aprì a una nuova dimensione simbolica». E come spesso accadeva nella zoologia sacra cristiana, l’elefante fu un animale dalla «simbologia ambivalente»: poteva rappresentare «la purezza di Adamo ed Eva», ma anche «la loro caduta e trasformazione negli archetipi dei peccatori». Michel Pastoureau nei Bestiari del Medioevo ha messo in luce come i sovrani medievali ricorressero a una simbologia zoologica per definire se stessi e le loro politiche. E Albertoni sottolinea come fosse abitudine degli intellettuali carolingi proprio il «parlare attraverso un linguaggio simbolico». È probabile che Carlo volesse quell’animale come parte importante, la più importante, di uno zoo regio che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere una sorta di «riproduzione del paradiso terrestre». Paradiso terrestre in cui Abul Abbas avrebbe rappresentato Adamo.
Quando Carlo Magno nel 797 decise di inviare dei suoi ambasciatori da Harun al-Rashid per chiedergli un elefante compì quello che Albertoni definisce «un atto sicuramente unico all’epoca». Questa unicità riguardava l’oggetto della richiesta e, in parte, la volontà di chiedere un dono a un altro sovrano. Lo scambio di regali era sì un elemento centrale della diplomazia altomedievale. Ma le regole del gioco, come ha scritto la storica inglese Janet Nelson in Le relazioni internazionali nell’alto medioevo, non erano «vere regole prescrittive». Erano soprattutto delle pratiche sociali «che avevano un loro codice, degli usi, dei simboli, che dovevano essere conosciuti per evitare fraintendimenti o crisi non volute». Ma che talvolta potevano essere «piegate alle necessità o alle volontà politiche». Il dono diplomatico era soprattutto «connettivo», perché creava una rete tra i soggetti che ne venivano coinvolti, come ha messo in luce l’antropologo francese Marcel Mauss in Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche. Eppure tale connettività non era necessariamente pacifica. Talvolta dava luogo, magari volutamente, a delle tensioni. Come nel caso del «dono di ricambio» inviato attorno al 787 da Carlo Magno a papa Adriano I, il quale, su sua richiesta, aveva mandato al re franco mosaici e marmi prelevati a Ravenna. Carlo a sua volta spedì al pontefice due cavalli, uno dei quali morì lungo il tragitto. Il papa se ne adirò. Non tanto per la morte del cavallo, quanto perché gli parve che due ronzini fossero poca cosa a fronte di marmi e mosaici. Secondo Janet Nelson si trattò di uno «sgarbo calcolato», fatto in un momento nel quale le richieste di papa Adriano al re «si stavano facendo troppo pressanti» e Carlo voleva recapitare un segnale ostile. Nel nostro caso, invece, l’invio di Abul Abbas ebbe un significato politico di grande rilievo.
Verso la fine dell’VIII secolo, gli inviati di Carlo Magno arrivarono a Baghdad, il mondo musulmano era nella fase di assestamento seguita alla crisi politica che aveva avuto il suo apice tra il 744 e il 750 in conseguenza dell’assassinio (661) di Ali ibn Abi Talib, cugino e genero di Maometto. Fu la crisi che portò allo scoperto gli sciiti, ovvero la «fazione di Ali». Contro di loro si schierarono gli Abbasidi, il cui capostipite era stato uno zio paterno del Profeta e il cui leader era in quegli anni Abul Abbas (non è necessario far notare che quel nome fu poi dato all’elefante per Carlo Magno). Abul Abbas ebbe un ruolo nell’avviare la dinastia califfale abbaside simile a quello che negli stessi anni aveva avuto per i franchi il padre di Carlo, Pipino, quando prese il potere deponendo Childerico III, l’ultimo re della dinastia merovingia.
Torniamo ora all’estate dell’802. Il 20 luglio si presentò all’imperatore, dopo un lungo viaggio, l’ebreo Isacco, che portava con sé alcuni doni inviati dal califfo di Baghdad Harun al-Rashid, «re dei persiani». Tra questi doni c’era, appunto, Abul Abbas. Anche in questo caso il momento storico era assai complesso. Nell’autunno precedente Carlo Magno era rientrato da Roma dove, il 25 dicembre 800, era stato incoronato imperatore. Era cioè «il primo anno nel quale il sovrano franco aveva iniziato a operare ad Aquisgrana con il nuovo titolo imperiale» che si affiancava a quello di re dei franchi, acquisito nel 768 alla morte del padre Pipino, e di re dei longobardi, ottenuto nel 774. L’elefante era giunto a Porto Venere, nel golfo di La Spezia, nell’ottobre dell’801, portato da Isacco. Il ruolo di quest’ultimo, scrive Albertoni, «non deve stupire poiché visse in una fase storica nella quale gli ebrei svolgevano un ruolo di fornitori della corte carolingia ed erano sottoposti a una particolare tutela». Fu «in questo contesto di relativa tolleranza che operò Isacco, verosimilmente un mercante che conosceva l’arabo e, quindi, poteva agire come mediatore e traduttore». Assieme a lui erano partiti alla volta di Baghdad altri due inviati di Carlo Magno, Lantfrido e Sigismondo. Il viaggio per andare a prendere l’animale era stato lungo, circa quattro anni. I tre erano partiti da Treviso per attraversare l’Adriatico, giungere a Gerusalemme e di lì alla città del califfo. Nel corso della spedizione i due compagni di viaggio di Isacco morirono e l’ebreo rimase solo a portare a compimento la missione. Al ritorno, scartò la rotta adriatica percorsa all’andata, giunse a Porto Venere salpando da Tu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La terapia dell’oblio
  4. Ricorda di dimenticare
  5. I – Curiose amnesie
  6. II – La memoria riluttante
  7. III – Dimenticanze sospette
  8. IV – In tempo di pandemia
  9. Auschwitz, dimenticare per ricominciare a vivere
  10. Bibliografia
  11. Copyright