Il pallone di stoffa
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Il pallone di stoffa

Memorie di un nonagenario

  1. 544 pagine
  2. Italian
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Il pallone di stoffa

Memorie di un nonagenario

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Il 13 dicembre 2010 Walter Pedullà morì per arresto cardiaco; un minuto dopo, i medici del pronto soccorso rimisero il suo cuore in movimento grazie a un potente defibrillatore. Se Pedullà è sempre stato, per indole e poetica, un uomo della commedia più che della tragedia, superata quella soglia non c'era più alternativa: la sua vita ormai poteva raccontarla unicamente dalla prospettiva di chi ha imparato a ridere di tutto e di tutti perché non appartiene più a questo mondo e, senza smettere di amarlo, ha conquistato la distanza necessaria per smascherare le passioni e le illusioni (a cominciare dalle proprie). Dall'estrema povertà del Sud all'insegnamento universitario, dalla militanza socialista nelle campagne ai palazzi della politica romana, dall'impegno per ogni sperimentalismo letterario alla direzione delle massime istituzioni culturali del Paese, Walter Pedullà conduce i suoi lettori alla scoperta dell'Italia del secondo Novecento, cucendo assieme centinaia di aneddoti esemplari che gettano nuova luce sui maggiori protagonisti del secolo scorso. Non solo per ridere.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788831801881
Parte terza

LA MACCHINA MONDIALE

1

La televisione vista da vicino

«Pensaci, ma fai in fretta, ti va di entrare nel nuovo Consiglio d’Amministrazione della RAI? Avresti uno dei tre posti assegnati ai socialisti. Gli altri due, Paolo Grassi, sì proprio lui, il fondatore del “Piccolo” di Milano, ed Enzo Cheli, un giovane giurista e professore universitario di Siena, hanno poco fa accettato. Non hai molto tempo per rispondere, diciamo un’ora. La direzione del partito deve decidere prima di chiudere la riunione, che è già iniziata» mi disse al telefono di «Mondo Operaio», dove era al lavoro la redazione Sisinio Zito, un vecchio amico che era divenuto da poco senatore e che poi sarà per molti anni un pragmatico e intraprendente sindaco di Roccella Jonica.
Incalzarono i redattori della rivista: «E che aspetti a dire sì? Chiama subito e accetta, ammesso che il posto sia ancora a disposizione…». Doveva essere più importante di quanto pensassi. Accettai, ma senza entusiasmo. Un amministratore? Era la cosa più lontana dalle mie vocazioni e ancor più dalle mie ambizioni.
«I bilanci fanno pensare alla matematica, disciplina ermetica per me.» «Si impara, e poi non ti si chiede di diventare un ragioniere o un economista, presto capirai quanto basta, il fatto concreto è che la RAI è la massima industria culturale del Paese, passa tutto di là, d’ora in poi la politica si farà in TV.» Era un argomento efficace per convincere uno che si stava persuadendo da solo che politicamente la TV aveva un’incidenza maggiore delle arti che frequentava a tempo pieno: con la TV l’impegno culturale si trasforma prima e meglio in realtà sociale e civile. Così entrai a far parte di un organismo nel quale sarei rimasto ininterrottamente per circa diciassette anni, a partire dalla metà di dicembre del 1976. Fu un’esperienza molto eccitante, esuberante e combattiva. Non furono solo battaglie perse. Forse perciò ho resistito così a lungo.
«Siete ormai un esercito gli intellettuali pronti a sbarcare nelle istituzioni culturali, si combatte così oggi la guerra, è uno scontro di culture, è una grande battaglia delle idee quella appena iniziata.» Più concretamente era iniziato lo scontro di potere per dividersi l’Italia con le armi della TV: il PCI chiedeva di contare in misura direttamente proporzionale al favorevole risultato elettorale. Era giusto e lo ottenne: ovviamente non caste sed caute. Il compromesso storico era stato infatti benedetto dai gesuiti.
In verità non ero così estraneo alla televisione come volevo far credere per evitare il coinvolgimento in un’avventura di cui ignoravo gli obiettivi e ancor più la mia capacità a perseguirli con successo. Non sarei entrato in un mondo sconosciuto. Ne conoscevo almeno la parte superficiale, per così dire sovrastrutturale, cioè l’aspetto culturale, che è poi quello che della TV mi interessa di più.
Avevo curato programmi per le forze armate nel periodo in cui si faceva cultura illustrando L’infinito di Leopardi con l’immagine di una siepe sovrastata da un cielo senza nuvole. Ma avevo realizzato un profilo di Majakovskij apprezzato da Angelo Maria Ripellino, il geniale slavista che meno di me amava la Rivoluzione Russa, avendone visto nel soggiorno moscovita e praghese i soprusi in URSS e nelle “democrazie popolari”.
La RAI dall’interno la conobbi però da assistente alla cura del maggiore programma culturale della RAI, L’Approdo. Quando arrivai io, il settimanale di cultura, letteratura e arte, era diretto da stimati scrittori e critici (Antonio Barolini e Geno Pampaloni) vicini alla DC di Bernabei, che da direttore generale della RAI era così forte da potersi permettere l’iniezione di qualche socialista e di qualche comunista.
A quei tempi la televisione faceva vecchia cultura, ma di buona qualità “cinematografica”: il venerdì c’erano due milioni di persone a vedere il teatro della RAI e il sabato la riduzione televisiva di un classico della narrativa calamitava l’interesse degli italiani per un’ora subito e per l’intera settimana successiva in attesa della prossima puntata. Compresi che andava fatta un’altra cultura, ma non avrei saputo dire come. Invece Barolini e Pampaloni mi dettero un saggio di come si difende la nobile cultura di una volta, quella restia a dissacrare la vecchia società cattolica, e liberale. I cattolici liberali conservano il passato meglio di tutti, facendo l’occhiolino al presente moderatamente democratico.
Luciano Paolicchi mi introdusse nei misteri della RAI con un episodio luminoso. Una volta, essendone allora vicepresidente in quota socialista, al momento delle nomine si sentì proporre come dirigente della propria area politica un programmista milanese del quale non aveva mai sentito parlare come di un socialista. Si informò a Milano ed ebbe la conferma: quel signore era iscritto a una sezione del PSI, ma lo aveva fatto una settimana prima. Bernabei lo aveva nominato socialista per dargli un posto di dirigente che toccava al partito alleato. La moda ebbe successo anche in altri partiti, compreso il PCI. Se lo aveva fatto la DC, era un precedente da emulare.
La vita imita l’arte: Bernabei si comportò come il cardinale che, arrivato di notte in un convento, chiede di fare una cena robusta. I fraticelli impallidiscono: è venerdì, ma non hanno un solo pesce. Tocca al priore esporre il dramma al prelato. Il cardinale rimane a pensare deluso, anzi contrariato, finché la Provvidenza non scende a portargli la saggia soluzione. «Avete dell’agnello?» «Sì, quanto ne vuole.» «Infornatelo subito con le patate e portatemelo.» Appena lo ha davanti, il prelato solleva le due dita in atto di benedizione e dice: «Io ti battezzo carpa!». E giù a mangiare l’agnello proibito. Pure i comunisti battezzeranno dirigenti socialisti i propri compagni.
Bernabei ai suoi tempi sapeva fissare limiti elastici, ma fui vittima anch’io dell’oculata dittatura: avevo osato proporre temi e autori “trasgressivi” in cultura e politica (non solo la letteratura meridionalista, che notoriamente era anti DC quanto era stata antifascista) e in arte (il neosperimentalismo di Pasolini, o la neoavanguardia, ma non solo). Fui gentilmente invitato a non disturbare i timonieri. Come censori, i moderati sanno essere cordialmente autoritari. Di fatto fui esautorato: le mie proposte dovevo inoltrarle ai direttori descritte e motivate, senza diritto all’obiezione nel caso, il più frequente, di rifiuto.
Restai assistente, ma non potevo più partecipare alle riunioni direzionali: non mi si mise alla porta, eppure dovetti fermarmi dietro la porta dell’ufficio dove decidevano la linea del programma Barolini e Pampaloni, che erano miei amici ma non sino al punto da tollerare obiezioni che venivano da una cultura “alternativa”: più del socialismo lo sperimentalismo che riparte da zero. Erano gli anni Sessanta e io li volevo portare nella stanza.
Più che un Consiglio d’Amministrazione nel 1977 quello era un’accademia. Gli interventi lunghi quanto una lezione universitaria erano di eccellente livello intellettuale ed erano ascoltati dai dirigenti della RAI con chiara soddisfazione. Che era doppia. Prima: i discorsi erano così colti e facondi che era un piacere ascoltare tanti professori che si erano preparati per l’esame del giorno; seconda: con un simile approccio per la gestione del potere aziendale, non c’era nulla da temere.
Le nostre parole non sarebbero mai diventate cose? E invece quegli intellettuali inesperti e ingenui cambiarono la RAI. «La RAI è come la BBC» ci dissero qualche anno dopo con cortesia orientale i giapponesi della NHK.
L’epoca, che era pur sempre figlia negata e rinnegata della contestazione giovanile e studentesca, alimentava progetti fantastici cui non mancava nulla per sembrare tangibili. Se ne sarebbero nutrite le masse, cioè i contadini, gli operai, i piccoli impiegati e i pensionati: a loro era rivolta la televisione, il canale di comunicazione che quasi gratuitamente porta nella casa di tutti conoscenza e disponibilità al dialogo con le idee altrui. Era più di una rivoluzione politica, era mandata dal cielo, o almeno dall’etere, nome più gradito al nostro materialismo. Allungammo la mano sul sogno e questo non svanì.
Sognavano anche i democristiani di sinistra ma va detto subito che la DC mandò in Consiglio giuristi (Nicola Lipari e Roberto Zaccaria, sinistra DC, l’andreottiano Pietro Adonnino, il fanfaniano Balocchi), mentre PCI (sia pure sotto la guida di un dirigente politico nazionale, Luca Pavolini), PRI e PSI scelsero poeti come Paolo Volponi, scienziati come Giorgio Tecce, critici letterari come Elena Croce, uomini di teatro come Paolo Grassi e professori di letteratura come me. Comunque chi volò più in alto fu il primo dei miei tre Consigli: quello nominato nel Natale del ’76. La fantasia per tre anni fu sposa feconda del realismo.
Nacque là dentro l’informazione politica più libera della RAI: il giornalismo che non solo sceglieva fatti secondo gli interessi politici dei direttori ma dava anche sei versioni diverse dello stesso fatto o di un evento sfuggito a differente cultura: erano cioè osservati da punti di vista che corrispondevano alle mobili convinzioni di DC, PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI, il cosiddetto arco costituzionale. La freccia non centrò il bersaglio, ma vinse per somma di parzialità.
Naturalmente sei punti di vista non rappresentano la verità. È impossibile saperla dai giornali, che se non sono sempre di partito sono tutti più o meno di parte, ma sei telegiornali e quattro giornali radio fanno nascere il dubbio su cui maturano la propria più motivata opinione i cittadini. Insomma no all’unico telegiornale che media per occultare la notizia estrema o periferica da cui emerge il vero stato delle cose sociali. La cultura non teme ciò che arriva dai territori che confinano con quanto sta fuori del risaputo e controllato. Sì agli sconfinamenti, che naturalmente vengono proibiti da chi è arrivato da poco al potere.
Non ero l’unico meridionale, ma io solo ero un meridionalista, da socialista sono per l’alternativa al capitalismo e da uomo di lettere resto un fautore di quello sperimentalismo che mette tra parentesi idee appalesatesi imposture e diventa disponibile a confrontarsi col diavolo che sia latore di scandalose verità. Insomma oltre che allo sconfinamento della cultura e al massimo pluralismo politico ho creduto che fosse molto urgente intervenire sulla provincia italiana. Essendo il territorio che meglio resiste alle tentazioni della modernità andava raggiunto con una strategia peculiare.
Furono gettate le basi di un decentramento che ambiva a dare alla periferia quasi la stessa possibilità di fare quanto nei mass media faceva il centro. Era surreale pensarlo ma ci pensammo: tutte le sedi regionali come piccoli centri di produzione TV. Gli italiani oltre che consumatori sarebbero stati tutti produttori di TV. I TG regionali avrebbero attirato nelle sedi RAI le corrispondenze di centinaia di collaboratori pagati ad articolo: allenamento a una professione che aveva, accanto al piccolo ma gratificante sbocco locale, prospettive nazionali parallele a quelle delle altre attività. Sarebbe stato un salto antropologico: l’uomo nuovo era l’uomo televisivo della RAI riformata.
La strategia del PSI uscito dal Midas era l’alternativa socialista con cui tentava di non farsi stritolare dall’alleanza morotea fra PCI e democristiani di sinistra che sarebbero stati i veri trionfatori dei decenni successivi. Grassi, Cheli e io pensavamo che con l’arrivo dei comunisti sarebbe stato più realistico costringere la DC a venire a patti in ogni livello dell’azienda.
I democristiani scelsero come direttore generale un manager d’area che era un uomo fine, competente e moderno, ma Giuseppe Glisenti (già fondatore della sinistra DC con Dossetti, La Pira e Fanfani) dopo sei mesi gettò la spugna: non abbiamo capito cosa l’avesse spaventato tanto della RAI. Letteralmente scappò. Credeva che gli avessero affidato un’azienda culturale e scoprì che era un ministero. Fu il direttore generale più congeniale alla Riforma, ma la risposta fu muta e nitida: bando ai sogni, qui si fa politica, preferibilmente quella dei partiti al governo, che pretende fedeltà dall’azienda di cui pareggia i bilanci in rosso. Si chiamavano investimenti, ma erano budget da spendere senza paura di deficit. Viale Mazzini è stata sempre più vicina a Palazzo Chigi di quanto appaia sulla carta.
I comunisti, che avevano trovato la strategia con cui si arriva al governo restando all’opposizione, impararono a prendere cinque e a dichiarare quattro. Scelsero come presidente il socialista Grassi e affidarono la Seconda Rete al socialista Massimo Fichera e il TG2 ad Andrea Barbato, che anni dopo Claudio Martelli convertì al PCI pretendendo un’obbedienza politica che nel PSI prima non usava. Il partito che aveva vinto le elezioni del ’76 prendeva un socialista filocomunista e lo nominava dopo essersi garantito la fedeltà alla “linea culturale”, un eufemismo adottato per eliminare ogni riferimento alla politica. Bando agli equivoci: la cultura è politica. E la Cultura? Ce ne davamo pensiero noi “artisti” di un Consiglio che in effetti faceva cultura, mentre la politica la trattava il direttore generale con i responsabili dei partiti per i mass media.
Fu per me un bagno di realismo il colloquio con il direttore amministrativo: «Sono venuto a portarle una proposta di bilancio, se vuole gliela illustro, ma per farla breve qui si ipotizza un disavanzo di sessanta miliardi». «Ma il deficit reale, qual è?» domandai. «Sa, più alto è il rosso preventivato, più elevata è la richiesta di aumento del canone che si avanza al governo. Trenta è più vicino alla verità.» «Si può?» «Si può e si fa, rischi imprevedibili, ammortamenti anticipati, ferie non pagate, il preventivo è elastico. Tutto legale!» «È anche logico?» Non rispose: l’umorismo non lo sfiorava.
«Da quel che vedo venti miliardi di deficit li posso votare, ma se non c’è tempo per verificare mi asterrò.» In RAI l’astensione vale come voto contrario. Il direttore amministrativo si accontentò. E io ebbi conferma che la matematica è un’opinione. Ne sapevo meno di prima, ma cominciai a sospettare: i numeri sono degli impostori.
Fin qui ci arrivavo: i numeri nascondono cose reali e non vedevo risorse per il Sud e per i programmi culturali. «Come mai dalla Mamma RAI arriva così poco latte nel Sud?» mi sorpresi. «Si sa come sono i meridionali, sono lagnosi, non sanno fare altro» reagì il direttore amministrativo, che era anche il genero di Andreotti. Una volta per risposte simili i meridionali avrebbero incendiato il municipio. «Sa, laggiù pochi pagano il canone» si difese. E io: «Lo sa che in Calabria vedono il TG della Sicilia e che i ponti radio della mia regione sono quelli dismessi al Nord perché troppo vecchi e usurati? I soldi del Servizio Pubblico da cui riceviamo i miliardi del canone non comportano che anche il Sud possa dire la sua, possa vedersi com’è realmente, in televisione?». È questa la domanda cui in RAI nessuno sa rispondere.
Sentendo parlare di Servizio Pubblico pagato per produrre programmi che si ha il dovere di trasmettere, anche se non hanno l’asco...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il pallone di stoffa
  4. Introduzione. Per cominciare, la morte
  5. PARTE PRIMA. IL PAESE DEL MELODRAMMA
  6. PARTE SECONDA. NOS SUMUS ROMANI QUI ANTE FUIMUS CALABRI
  7. PARTE TERZA. LA MACCHINA MONDIALE
  8. PARTE QUARTA. TRA ILLUMINISMO E ILLUMINAZIONE
  9. Copyright