Filosofia felina
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Filosofia felina

I gatti e il significato dell'esistenza

  1. 208 pagine
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Filosofia felina

I gatti e il significato dell'esistenza

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Qual è il segreto di una vita felice? Come si comporta un uomo giusto? Come si fa ad amare gli altri, e a esserne amati? Come si riesce a sopportare la perenne instabilità di tutte le cose? Come sopravvivere alla inesorabile perdita di tutto ciò che ci è caro? Da Seneca a Spinoza, da Pascal a Schopenhauer, per secoli i filosofi hanno tentato di dare risposte alle grandi questioni dell'esistenza.
Ma se fossero i gatti, anziché i grandi pensatori, i migliori maestri di vita? Secondo il filosofo John Gray, i piccoli felini che da millenni vivono accanto a noi hanno molto da insegnarci: non conoscono l'ansia e l'angoscia di vivere; gestiscono con saggezza i complicati rapporti con i loro simili e con gli esseri umani; sanno affrontare con serenità e dignità la morte, propria e altrui. Il famoso gatto di Montaigne, invidiabile esempio di equanimità. Meo, un acciaccato veterano della guerra in Vietnam, con la sua incrollabile capacità di godersi tutto quello che il Destino gli offre. La gatta della scrittrice Colette, Saha, deliziosa e perfida osservatrice delle umane gelosie. Parlandoci con divertimento e passione delle qualità uniche e ineffabili di questi (e molti altri) "gatti esemplari", Gray ci insegna che la condizione umana si può anche osservare con occhi diversi da quelli degli uomini.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788831802314
1

I gatti e la filosofia

Una volta un filosofo mi assicurò di aver convinto il suo gatto a diventare vegano. Credendo che scherzasse, gli chiesi come avesse portato a termine l’impresa. Gli aveva dato bocconcini vegetali al sapore di topo? Gli aveva presentato suoi simili che già praticavano il veganismo, perché gli fornissero un modello di comportamento? Oppure ne aveva discusso con lui e lo aveva persuaso del fatto che mangiare carne è sbagliato? Il mio interlocutore non la prese sul ridere. Pensava davvero, mi resi conto, che il micio avesse optato per una dieta priva di carne. Così posi fine al nostro dialogo con una domanda: l’animale era libero di uscire? Sì, mi disse lui. Questo risolveva il mistero. Evidentemente si procurava da mangiare facendo visita ad altre abitazioni, o andando a caccia. Se aveva portato a casa qualche carcassa – pratica alla quale i gatti con un’etica poco sviluppata sono purtroppo assai inclini – il filosofo aveva fatto in modo di non notarla.
Non è difficile immaginare che idea si fosse fatto del suo insegnante umano il micio coinvolto in quell’esperimento di educazione morale. Presto, alla perplessità per il suo comportamento sarebbe seguita l’indifferenza: i gatti, concretissimi, di rado fanno qualcosa che non abbia uno scopo preciso o non offra loro un godimento immediato. Messi di fronte alla follia dell’uomo, si limitano a passare oltre.
Che il filosofo si fosse convinto di aver persuaso il suo micio ad adottare una dieta vegana dimostrava soltanto quanto sciocchi possano essere i filosofi. Sarebbe stato ben più saggio cercare di apprendere qualche insegnamento dall’animale, anziché tentare di impartirgliene. Gli uomini non possono diventare gatti; eppure, se mettessero da parte il convincimento di essere creature superiori, forse riuscirebbero a intuire in che modo quei felini riescono a vivere così bene senza interrogarsi ansiosamente sul come farlo.
I gatti non hanno bisogno della filosofia. Obbedendo alla propria natura, si reputano paghi di ciò che la vita offre loro. Negli uomini, al contrario, l’insoddisfazione pare una costante. Con esiti prevedibilmente tragici e farseschi, l’animale uomo si sforza sempre di essere qualcosa che non è. I gatti no. Gran parte della vita umana è una lotta per la felicità; tra i gatti, al contrario, la felicità è lo stato naturale cui fare ritorno una volta eliminate le minacce concrete al proprio benessere. Forse è soprattutto per questo che li amiamo: ottengono per diritto di nascita ciò che noi, il più delle volte, non riusciamo a raggiungere.
La filosofia nasce dall’ansia e i gatti non ne soffrono, a meno che non siano minacciati o non si ritrovino in un luogo sconosciuto. Per gli uomini, il mondo intero è minaccioso e bizzarro. Le religioni non sono che tentativi di adattare all’uomo un universo inumano. Spesso i filosofi hanno rigettato simili convinzioni, considerandole di molto inferiori alle proprie speculazioni metafisiche, ma religione e filosofia rispondono alla stessa esigenza.1 Entrambe cercano di allontanare l’inquietudine persistente che si accompagna alla condizione umana.
I sempliciotti diranno che se i gatti non praticano la filosofia è perché mancano della capacità di pensiero astratto. Ma si potrebbe immaginare una specie felina che possieda questa capacità e tuttavia conservi la serenità con cui i gatti stanno al mondo. Se mai creature di questo tipo si interessassero di filosofia, sarebbe solo per trarne diletto, come da un filone della letteratura fantastica. Anziché considerarla un rimedio all’ansia, questi filosofi felini vi si dedicherebbero come a un gioco.
Lungi dall’essere un segno della loro inferiorità, l’assenza di pensiero astratto è indice della libertà mentale dei gatti. Il pensare in termini astratti sfocia spesso in una fede superstiziosa nel linguaggio. Gran parte della storia della filosofia è puro culto di fantasie linguistiche. Ma i gatti non sono governati dalle parole: si affidano a ciò che possono toccare, odorare e vedere.
La filosofia testimonia della fragilità della mente umana. Gli uomini si lanciano in elucubrazioni filosofiche per la stessa ragione per cui pregano: hanno plasmato un senso per le proprie vite, ma sanno che è fragile e vivono nel terrore che si sgretoli. E la morte ne segna la definitiva disgregazione, ponendo fine a tutte le storie che si sono raccontati. Perciò immaginano di passare a una vita che trascende il corpo, in un mondo fuori dal tempo nel quale la vicenda umana continui.
Per buona parte della sua storia, la filosofia è stata ricerca di verità volte a dimostrare che la mortalità è un’illusione. La dottrina platonica delle idee – forme immutabili che esistono in un regno eterno – era in sostanza una visione mistica che metteva i valori umani al sicuro dalla morte. Siccome non pensano alla morte – pur dando l’impressione di sapere piuttosto bene quando è giunto il loro tempo – i gatti non hanno alcun bisogno di simili invenzioni. Se anche potessero comprenderla, la filosofia non avrebbe nulla da insegnar loro.
Alcuni filosofi hanno capito che è possibile imparare qualcosa dai gatti. Di Arthur Schopenhauer, filosofo tedesco del diciannovesimo secolo (era nato nel 1788), è noto l’amore per i cani e sappiamo che trascorse gli ultimi anni di vita sempre in compagnia di un barboncino, che chiamava Butz, Brahma o Atma. Ma ebbe anche almeno un amico felino. Morto per insufficienza cardiaca nel 1860, Schopenhauer fu trovato a casa sua, sul divano, accanto a un gatto senza nome.
Schopenhauer ricorse ai propri animali da compagnia per sostenere la tesi secondo cui il concetto di individualità è illusorio. Gli uomini non possono fare a meno di pensare ai singoli gatti, e a se stessi, come individui distinti, ma Schopenhauer riteneva che fosse un errore: gli uni e gli altri non sarebbero che realizzazioni particolari di un’idea platonica, un archetipo che si ripropone in infinite varianti. Quelli che sembrano individui sarebbero dunque un’incarnazione effimera di qualcosa di ben più profondo: l’eterna volontà di esistenza che, secondo lui, è l’unico dato davvero reale.
Schopenhauer espose questa visione nell’opera Il mondo come volontà e rappresentazione:
So bene che se sostenessi seriamente che il gatto, che proprio adesso sta giocando in cortile, è ancora lo stesso che trecento anni fa faceva lì quei salti e quei giochetti, sarei ritenuto un folle; ma so anche che sarebbe ben più folle credere che il gatto di oggi sia interamente ed essenzialmente un altro rispetto a quello di trecento anni fa. […] In un certo senso infatti […] è perfettamente vero che in ogni individuo troviamo sempre un nuovo essere. Tale conclusione non è vera invece in un altro senso, e cioè in quello che la realtà spetta soltanto alle forme eterne delle cose, alle Idee; un principio questo che era parso talmente evidente a Platone, da diventare il pensiero fondamentale […].2
L’idea schopenhaueriana dei gatti come ombre fuggevoli di un Eterno Felino ha un certo fascino. Eppure, quando penso ai mici che ho conosciuto, non sono le loro caratteristiche comuni a venirmi in mente per prime, bensì le reciproche differenze. Alcuni gatti sono meditativi e tranquilli, altri sono dei gran giocherelloni; alcuni sono prudenti, altri avventurosi fino alla temerarietà; alcuni sono silenziosi e pacifici, altri chiassosi e assertivi. Ognuno di loro ha i propri gusti, i propri vezzi e la propria individualità. Certo, hanno una natura profonda che li distingue dalle altre creature, compresi gli esseri umani; tale natura, e ciò che da essa possiamo imparare, costituisce proprio l’argomento di questo libro. Tuttavia, chi ha vissuto con dei gatti non potrà mai considerarli incarnazioni intercambiabili di un unico modello: ciascuno di loro è un’entità unica e ha una sua individualità, più spiccata di quella di molti uomini.
D’altra parte, Schopenhauer vedeva gli animali in modo assai più benevolo rispetto ad altri filosofi importanti. Stando ad alcuni resoconti, René Descartes (1596-1650) scaraventò un gatto fuori dalla finestra per dimostrare che solo l’uomo aveva consapevolezza soggettiva. Gli acuti miagolii di terrore della bestiola, concluse, erano una reazione meccanica. Eseguì esperimenti anche sui cani: ne frustò uno mentre faceva suonare un violino, per vedere se in seguito la melodia di quello strumento avrebbe spaventato l’animale. Andò proprio così.
Descartes è celebre per aver coniato la formula: «Penso dunque sono». Il senso della frase era che gli esseri umani sono in sostanza delle menti, dotate solo per accidente di organismi fisici. Pretendeva di aver basato il proprio impianto filosofico sul dubbio metodico, ma scordò di dubitare dell’ortodossia cristiana che negava un’anima agli animali e ribadì quel dogma nella sua visione razionalistica. Era convinto di aver dimostrato, attraverso i suoi esperimenti, che gli animali – uomini a parte – erano macchine insensibili; in realtà, essi dimostravano solo che gli uomini possono essere più sconsiderati di ogni altro animale.
La coscienza di sé può sbocciare in molti esseri viventi. Se una linea evolutiva ha condotto all’uomo, un’altra ha portato al polpo. In entrambi i casi non c’è stato nulla di preordinato: la selezione naturale non procede verso forme di vita sempre più autoconsapevoli. La coscienza appare per caso, e va e viene anche negli organismi che la possiedono.3 I transumanisti del ventunesimo secolo ritengono che il processo evolutivo condurrà alla nascita di una mente globale dotata di autocoscienza; una visione che ha precedenti nella teosofia, nell’occultismo e nello spiritualismo del diciannovesimo secolo.4 Niente di tutto ciò trova un qualsiasi fondamento nella teoria di Darwin. Può darsi che la coscienza umana sia un colpo di fortuna irripetibile.5
Potrebbe sembrare una conclusione deprimente. Ma perché mai l’autoconsapevolezza dovrebbe essere il più importante dei valori? In realtà è sopravvalutata: un mondo sospeso fra luci e ombre, nel quale appaiono a tratti creature parzialmente autoconsapevoli, è un luogo ben più interessante da abitare di uno che si crogiola nell’immutabile fulgore del proprio riflesso.
Quando si ripiega su se stessa, la coscienza è di ostacolo a una vita felice. La consapevolezza di sé ha frammentato la mente umana, nel tentativo incessante di costringere le esperienze dolorose in un cantuccio che risulti inaccessibile alla coscienza. E il dolore represso si incancrenisce in domande sul senso dell’esistenza. Al contrario, la mente felina è una e indivisa: il dolore viene subìto e dimenticato, poi torna la gioia di vivere. I gatti non hanno bisogno di analizzare la propria vita, perché non dubitano che valga la pena di essere vissuta. L’autocoscienza umana ha prodotto quella perpetua insoddisfazione che la filosofia ha cercato invano di curare.

Un antifilosofo che amava i gatti: Michel de Montaigne

Una miglior comprensione dei gatti, e dei limiti della filosofia, fu mostrata da Michel de Montaigne (1533-1592), che scrisse: «Quando mi diverto con la mia gatta, chi sa se essa non passi il suo tempo con me più di quanto non faccia io con lei»?6
Montaigne è spesso incluso tra i fondatori dell’umanesimo moderno, una corrente di pensiero che si propone di lasciarsi alle spalle ogni idea di Dio. In realtà, il suo scetticismo nei confronti dell’umanità era pari almeno a quello provato nei confronti di Dio. «La più disastrata e fragile di tutte le creature è l’uomo,» scrisse «ma anche la più orgogliosa.»7 Passando in rassegna le ricette filosofiche del passato, non ne trovò nessuna in grado di superare l’istintiva sapienza animale sul modo migliore di approcciarsi alla vita. «Per questa stessa ragione, esse [le creature animali] possono considerarci bestie, quali noi le consideriamo.»8 Secondo Montaigne, il possesso di una tale comprensione innata dell’esistenza rendeva gli altri animali superiori all’uomo. In ciò, egli si discostava dal credo cristiano e dalle principali tradizioni filosofiche occidentali.
Essere scettici al tempo di Montaigne era rischioso. Come altri Paesi europei, in quel periodo la Francia era squassata da guerre di religione, e Montaigne ne fu coinvolto direttamente quando, seguendo le orme del padre, divenne sindaco di Bordeaux. Ma anche quando si ritirò dal mondo per dedicarsi ai suoi studi, dopo il 1570, continuò a fare da mediatore tra cattolici e protestanti in armi. Il suo albero genealogico comprendeva alcuni marrani – ebrei provenienti dalla penisola iberica, che a causa delle persecuzioni dell’inquisizione spagnola erano stati costretti a convertirsi al cristianesimo – ed è dunque possibile che, nel difendere la Chiesa cattolica con i suoi scritti, intendesse tutelarsi contro le repressioni subite da quegli antenati. D’altra parte, Montaigne appartiene a quella schiatta di pensatori toccati dalla fede perché dubitavano della ragione.
La dottrina dello scetticismo, nata nell’antica Grecia, fu riscoperta in Europa nel quindicesimo secolo. Montaigne fu influenzato dalla sua corrente più radicale, il pirronismo, che deve il proprio nome al filosofo Pirrone di Elide (360-270 a.C.). Pirrone aveva seguito l’esercito di Alessandro Magno fino in India, dove si ritiene che avesse studiato con alcuni gimnosofisti (i cosiddetti «sapienti nudi») o yogi. Fu con tutta probabilità da questi saggi che Pirrone trasse l’idea secondo cui lo scopo della filosofia è il raggiungimento dell’atarassia, un termine che sta a indicare uno stato di assoluta imperturbabilità, e che forse fu proprio lui il primo a utilizzare. Grazie alla sospensione del giudizio, al rifiuto di credere o non credere in qualcosa, il filosofo scettico poteva rimanere al riparo dal turbamento interiore.
Montaigne fece propri molti insegnamenti del pirronismo. Sulle travi della torre in cui si ritirò negli ultimi anni di vita campeggiavano citazioni del medico-filosofo Sesto Empirico (circa 160 – circa 210 d.C.), seguace di Pirrone e autore dell’opera Schizzi pirroniani, in cui compendiava così l’atteggiamento scettico:
Principio causale dello Scetticismo diciamo essere la speranza di conseguire l’imperturbabilità. Infatti alcuni fra gli uomini, dotati di una natura alta e nobile, turbati per la disuguaglianza che avvertivano nelle cose, e non sapendo a quali di esse dovessero di preferenza accordare il loro assenso, si volsero a cercare in che consistesse la verità e la falsità delle cose, per raggiungere mediante questa decisione, la imperturbabilità. Inoltre principio fondamentale dello Scetticismo è, sopra tutto, questo: a ogni ragione si oppone una ragione di ugual valore. Con ciò, infatti, crediamo di riuscire a non stabilire nessun dogma.9
Tuttavia Montaigne dubitava che la filosofia, persino quella di stampo pirroniano, fosse in grado di affrancare la mente umana dal turbamento. E in molti dei suoi saggi – termine che coniò egli stesso, nella forma francese essais, per indicare opere di carattere interpretativo, e il cui significato originario è «esperimenti» o «tentativi» – sfruttò il pirronismo per dare sostegno alla fede.
Secondo Pirrone, niente è conoscibile. Per citare le parole di Montaigne: «La peste dell’uomo è la convinzione di sapere».10 Ai propri discepoli, Pirrone insegnava a vivere facendo assegnamento sulla natura anziché su argomentazioni o princìpi. Ma allora, se la ragione è impotente, perché non accettare i misteri della religione?
Le tre principali scuole filosofiche del mondo antico europeo – stoicismo, epicureismo e scetticismo – miravano tutte al raggiungimento dell’imperturbabilità. La filosofia era un calmante, che se assunto con regolarità avrebbe prodotto l’atarassia. Scopo del filosofare era dunque raggiungere la pace. Montaigne non nutriva simili speranze: «C’è un generale consenso tra tutti i filosofi di tutte le scuole sul fatto che il sommo bene consiste nella tranquillità dell’anima e del corpo. Ma dove la troviamo? […] Di nostro non abbiamo altro che vento e fumo».11
Più scettico del più radicale dei pirronisti, Montaigne non credeva che il filosofeggiare potesse curare l’inquietudine umana: la sua utilità principale era togliere alle persone il vizio della filosofia. Al pari di Ludwig Wittgenstein (18...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Filosofia felina
  4. 1. I gatti e la filosofia
  5. 2. Perché i gatti non si sforzano di essere felici
  6. 3. Etica felina
  7. 4. Amore umano e amore felino
  8. 5. Il tempo, la morte e l’anima felina
  9. 6. I gatti e il senso della vita
  10. Ringraziamenti
  11. Note
  12. Copyright