Il traditore
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Il traditore

  1. 288 pagine
  2. Italian
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Il traditore

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Errore imperdonabile o fatalità. Questo è il dubbio che ossessiona l'agente dell'intelligence britannica Jake Winter, dopo l'esplosione che ha provocato decine di morti in una stazione ferroviaria. Dalle prime indagini sembra infatti che ad azionare l'ordigno sia stato proprio uno dei suoi uomini. Devastato dai sensi di colpa e con la carriera appesa a un filo, Jake è ormai convinto di non potersi riscattare, quando a sorpresa viene coinvolto in una nuova operazione: un altro attentato da sventare, una cellula terroristica da intercettare in fretta.
Il contatto sul quale Jake si gioca il tutto per tutto si chiama Rashid, un infiltrato nell'organizzazione criminale. Affidarsi a lui è la sola opzione, ma è anche un pericoloso salto nel buio. Del resto, puoi fidarti ancora di qualcuno, quando hai perso la fiducia in te stesso?

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788831801812

Marzo

1

Lunedì

«E i suoi sentimenti, al momento e dopo?»
Quel momento. Il momento in cui tutto tacque. Quelli che fin lì erano stati così impegnati a parlare nei telefoni, nei microfoni, nei walkie-talkie, in altre orecchie, a risolvere la questione, in operazioni qui lì e ovunque, veloci come il vento, veloci come nella più frenetica piazza borsistica, sposta la squadra in posizione quattro-nove-nove, trattieni i tuoi, manda l’elicottero, fai una panoramica, amplia la visuale, sbrigati, gente che si muove da qui a lì, poi altrove e ritorno in posizione, tutto quel rumore. Voci in uscita dalla calma intensa e rassicurante; quelle in entrata ridotte dal dispositivo elettronico a un esile parlottio, in sintonia con il tono sommesso della frenesia operativa. Disturbi elettrostatici. In onda. Quelle assurdità dette in sala operativa, mascherate di impacciata serietà e un tono da programma televisivo, che non aveva mai apprezzato, al contrario di altri. Tutto tacque. La vibrazione del pavimento e il rimbombo distante avevano dato la notizia principale. Gli schermi raccontavano ciò che lui già sapeva, in quel momento.
Il momento in cui capì che la sua vita era terminata. Del resto, avrebbe anche potuto essere così. Il punto, tuttavia, era che le loro vite erano terminate, letteralmente, con un atto conclusivo. Sessantatré. Aveva scoperto il loro numero soltanto più tardi; ci erano voluti un paio di giorni per fare i calcoli, per includere quelli che non erano sopravvissuti in ospedale e i dispersi, e contare le membra, ma sapeva già che era terribile. Persone. Non numeri. I numeri erano numeri; anestetizzavano la realtà. Lì si trattava di vite vere. Era quello il punto.
Ognuno di loro era ormai ridotto a deceduto o ferito, affinché i media potessero scegliere per ricavarne storie. Storie strazianti e personali, accompagnate da allegri scatti vacanzieri carpiti ai familiari o racimolati su Facebook che in qualche modo li svuotavano della loro intimità e ne rivendicavano la proprietà pubblica, proprietà di tutti – ma soprattutto di stampa, televisione e social media –; anime complesse reinventate e rivendute come superficiali simboli stucchevoli della nostra variegata mortalità. Come se in qualche modo fossero fatti per rassicurare e turbare al tempo stesso.
Per alcuni sopravvissuti era difficile stabilire se sarebbe stato meglio morire lì intorno, più o meno all’istante. Quale poteva essere la qualità della loro vita dopo, fisicamente e mentalmente? Per Jake il problema non si poneva. Mentre guardava gli schermi e si univa allo shock e allo sbigottimento collettivo avrebbe preferito di gran lunga scambiare la sua magra e tronfia esistenza con una delle loro – con tutte le loro – in un macabro baratto. Facile da dire. Facile da pensare.
Mentre fissava un punto indefinito della parete bianca dietro la testa dell’avvocato, infilò la mano destra nella tasca della giacca e tastò le chiavi, come se sentire il metallo familiare potesse riportarlo al presente.
Le vicine telecamere di sorveglianza nascoste erano rimaste attive per qualche attimo, prima che la loro sorte diventasse evidente, come polli la cui vita finisce senza che ne abbiano coscienza. Quelle più distanti avevano mostrato la polvere che cadeva e i detriti che avrebbero potuto conferire alla scena una grottesca grazia da balletto, se lui avesse avuto un po’ di fantasia. Ma non era fantasioso; non lo era mai stato, né lo era ora.
In seguito. Erano arrivate le immagini televisive, come sempre: la reazione a catena degli innumerevoli allarmi antifurto scattati attraverso la città che strillavano inutilmente; gente che correva, inciampava, catturata dalle fotocamere di cellulari tremanti di chi riconosceva un evento mediatico; mezzi di emergenza che acceleravano al centro della scena con apparente determinazione, le sirene che ululavano, le luci blu che bucavano la sera; poi il nastro di recinzione della polizia dietro cui i reporter si riducevano a ripetere più e più volte le banalità che erano state pronunciate a Nizza e Londra e Bruxelles e Barcellona e Berlino; la ressa di quei reporter e dei loro cameraman che sgomitavano per avere la visuale migliore e gareggiavano invano per ottenere l’ultima novità. A un tratto, tutto aveva ceduto il passo alla finzione. La terribile realtà era stata asservita ai telespettatori e agli utenti dei social media da cui si poteva spremere l’emozione.
Quel momento, il momento in cui il suo stomaco non era tanto squassato quanto svanito, mentre risucchiava la bile nel vuoto prima di proiettarla amara in bocca procurandogli un conato. Nella sala operativa c’era chi aveva vomitato nelle postazioni di lavoro, inacidendo la calma atmosfera fatta di luce soffusa e aria condizionata in cui gli ordini venivano dati con pacatezza e le operazioni registrate con cura.
Il senso di tutto si era polverizzato, fino al minimo frammento, e sapeva che non importava. Niente aveva importanza. Lui stesso non aveva importanza. La sua vita, l’amore, la carriera, le manie, la forza e la debolezza non avevano importanza.
Perché l’errore era stato suo. Perché senza saperlo quei sessantatré, e innumerevoli altri condannati a vivere, si erano affidati a lui. Gli avevano dato fiducia. Li aveva traditi e delusi.
Sfilò la mano dalla tasca. Non poteva vedere nessuno nella stanza tranne chi lo interrogava, gli altri legali e il presidente. Sapeva che le persone reali erano lì, oltre i pannelli sistemati con cura.
Si riduceva tutto, quasi matematicamente, al prima e al dopo. Prima era stato piuttosto allegro, quasi inesorabilmente ottimista. Intendiamoci, la sua memoria poteva benissimo essere confusa e distorta, come tutto il resto che aveva nella testa. Un commento in una sua valutazione, anni prima, lo aveva colpito: «Quello che gli manca in carisma, Jake Winter lo compensa di sicuro con l’entusiasmo e il ritmo di lavoro». Gli era sembrato offensivo, non aveva la sensazione che il suo acido supervisore stesse cercando di aiutarlo.
Era il prodotto di un’infanzia trascorsa per metà in un insediamento di quindici baracche nella Nuova Zelanda rurale e per l’altra metà in quella città che ormai chiamava casa. Figlio di un matrimonio misto tra una donna inglese e un uomo maori, sapeva di essere uno strano individuo per stare tra le sentinelle segrete di Sua Maestà. Ma in qualche modo si era fatto strada fin lì, sulla via del proprio fallimento.
La sua mente vagava e il tempo passava. Rimise la mano in tasca e trovò per l’ennesima volta il profilo familiare della chiave di casa. La usò per punzecchiarsi il palmo in cerca di perverso conforto, di sollievo dovuto all’intorpidimento. Si sforzò di tornare con la testa alla sala del municipio in cui si teneva l’inchiesta.
Incredulità. Ecco ciò che aveva provato. Insieme alla consapevolezza che sarebbe sempre finita in una stanza come quella, nonostante la spavalderia interiore.
Il silenzio durò qualche istante.
«Faccia con comodo» disse Mr Kerr, il legale delle vittime e dei loro familiari, increspando le labbra.
«Può ripetere la domanda, per favore?» chiese Jake Winter.
Mr Kerr lo guardò con irritazione. «Abbiamo stabilito che lei era nella sala operativa al momento dell’esplosione. Come si è sentito quando è successo?»
«Sentito?» disse.
«Sì. Sentito.»
I membri della commissione d’inchiesta, il presidente, la consulente legale, i rappresentanti legali del Servizio segreto e il suo avvocato lo fissarono, proprio come Mr Kerr. Le altre persone, i familiari e i sopravvissuti, non potevano vederlo dietro lo schermo. Ma nessuno sopravviveva a un evento del genere. Desiderava che lo vedessero. Voleva dire tutto, finalmente. Ma non era un uomo inaffidabile. Sarebbe stato coscienzioso come sempre.
«Mi sono sentito malissimo» disse infine. «Ovviamente mi sono sentito malissimo.»
«Ovviamente» disse Mr Kerr. E poi, dopo un attimo di riflessione: «Può spiegarsi meglio?».
«Non so. Come ci si può sentire in un momento del genere?»
«Ai fini dell’indagine non interessa come ci si debba sentire in un momento del genere, signore, ehm…»
Jake pensò che dovesse essere difficile per loro interrogare qualcuno che veniva indicato con un numero di testimone anziché un nome. Perché ripetere un nome poteva servire a riempire qualche breve momento mentre si metteva a punto la frase seguente.
«… ci interessa che cosa ha sentito lei, non qualcun altro.»
«Mi sono sentito andare in pezzi. Paralizzato. Al tempo stesso ho sentito che i miei sentimenti erano irrilevanti.»
«In che senso?»
«Non importava ciò che provavo. Quello che era successo era più importante. Annullava tutto il resto.»
«Si è sentito in colpa?»
Duncan Blakeley, il suo avvocato, si agitò. «Non capisco cosa si voglia ottenere con questo tipo di domande» disse. «È indubbio che il testimone abbia provato una serie di emozioni, in quel momento. Nessuna delle quali può essere rilevante per stabilire la realtà dei fatti.»
La consulente legale della commissione guardò il presidente e alzò le sopracciglia.
Il presidente disse: «Può anche essere soggettivo, ma dobbiamo tener presente che questa non è una corte di giustizia. Non siamo qui per assegnare singole colpe. Siamo qui per esaminare la sequenza degli eventi e rilevare che cosa, nel caso, avrebbe potuto essere fatto meglio. Quindi credo che questo tipo di domande siano legittime. Sempre che lei non voglia impedire al suo cliente di rispondere per evitare il rischio che si autoaccusi in procedimenti successivi».
Mr Blakeley scosse la testa.
«Mr Kerr, continui, prego.»
«Quindi» riprese Mr Kerr. «Senso di colpa?»
«Mi sono sentito… responsabile.»
«Lo si può immaginare. Responsabile. Le dispiacerebbe spiegare esattamente perché?»
«Mi sembra ovvio» rispose con voce spenta.
«Be’, per i miei clienti c’è ben poco di ovvio. Stanno cercando di dare un senso a quanto è successo, come la maggior parte di noi altri. Qualunque pensiero si degnerà di condividere con noi è benaccetto.»
«Mi dispiace. Mi sono sentito responsabile perché Abu Omar era un mio agente.»
«Abu Omar, il terrorista kamikaze.»
«Per quel che ne so, non è chiaro. Le analisi forensi non sono riuscite a stabilire con certezza se il dispositivo sia stato attivato da lui o da qualcun altro, se c’era un timer del quale non era a conoscenza o se sia scattato per errore. La forza dell’esplosione…»
«Va bene. Cerchiamo di essere puntigliosi. È importante essere puntigliosi. Il suo… agente… indossava uno zaino?»
«Sì.»
«Vada avanti.»
«Stavamo cercando di prevenire l’attentato che era stato pianificato. Abu Omar lavorava per noi.»
«In che misura “lavorava per voi”?»
«Come fonte confidenziale.»
«E come vi eravate conosciuti?»
Non faceva caldo in quella stanza?, pensò Jake Winter. No, l’aria condizionata funzionava, ma lui aveva caldo.
«Abu Omar era un cittadino inglese. È cresciuto qui e si è trasferito a Londra all’età di diciotto anni per studiar...

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  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il traditore
  4. Dicembre
  5. Marzo
  6. Nota dell’autore
  7. Copyright