Le regole dell'acqua
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Le regole dell'acqua

Il nuoto e la vita

  1. 176 pagine
  2. Italian
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Le regole dell'acqua

Il nuoto e la vita

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"Il nuoto è stata la prima lingua che ho avuto a disposizione per interpretare la vita. L'acqua mi ha dato la possibilità di crescere, mi ha insegnato ad ascoltare il mio corpo, sentirlo scivolare e prendere velocità, muoversi in un mondo in cui la gravità è impercettibile, perché è l'acqua che comanda, che sia un mare, un lago, un fiume, una piscina." Ex promessa del nuoto giovanile, dopo una virata sbagliata la vita di Raoul Bova prende una direzione completamente diversa, quella cinematografica, a cominciare dal primo film dedicato ai fratelli Abbagnale a cui ne seguiranno molti altri. Eppure, quegli anni passati in piscina, le lunghe ore di allenamento, l'euforia delle prime vittorie, costituiscono un universo di riferimento che si rivelerà fondamentale anche per affrontare le sfide fuori dall'acqua. Inizia così il percorso di Raoul Bova per ritrovare tutte quelle regole apprese da bambino e riscoperte anche attraverso gli incontri con grandi campioni come Filippo Magnini, Massimiliano Rosolino, Emiliano Brembilla da lui coinvolti per vincere un record e realizzare la promessa fatta molti anni prima al padre. "Il mondo del nuoto è stato un serbatoio fantastico di lezioni di vita. Alcune le ho capite allora. Altre sono diventate più chiare col tempo" scrive l'autore. Il risultato è un libro commovente e sincero, la storia corale di una grande famiglia del Sud (anche se in casa era vietato parlare in dialetto), di un ragazzino che ce la mette tutta, di un padre e di un cronometro che improvvisamente ritorna nella vita del protagonista per rivelare che c'è sempre tempo per fare ancora una gara.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788831802031

Allenarsi alla resistenza

Confrontarmi con l’acqua mi ha permesso di conoscere meglio me stesso e il mio corpo, di scoprire quali fossero i miei limiti e le mie paure, di imparare ad accettare la sconfitta e a cercare la vittoria. L’acqua è diventata il mio elemento, mi sono sentito accolto e parte di qualcosa di molto più grande di me. Galleggiando con lo sguardo rivolto al cielo, in balìa della corrente, sono riuscito ad ascoltarmi, a sentire il ritmo del mio respiro.
L’acqua mi ha abituato alla fatica, all’impegno, alla rinuncia e al sacrificio: se nella vita può capitare di ottenere dei risultati anche senza meritarli, nello sport, quello onesto e vero, non succede mai. Vince la gara chi ha il tempo migliore, chi nuota più veloce degli altri. E per farlo bisogna allenarsi, tutti i giorni per un certo numero di ore. Non c’è scampo. Nessuna alternativa.
Io l’ho fatto per anni: il nuoto è stato per me come uno di quegli amori totali dell’adolescenza, acerbi ma intensissimi. Ha preteso molto, ma mi ha anche restituito tanto: il pugno in alto di mio padre che mi guarda dagli spalti ed esulta per la mia vittoria, la soddisfazione nello sguardo fiero di mia madre, ma soprattutto l’idea di avere uno scopo, un obiettivo. Nuotavo perché mi piaceva, perché in acqua stavo bene, ma anche perché a un certo punto il nuoto era diventato una specie di missione. Sognavo di diventare un campione, di entrare nelle forze armate da sportivo e di farne il mio “lavoro”, un lavoro che mi avrebbe consentito di ottenere l’indipendenza a cui a un certo punto cominciano ad aspirare tutti i ragazzi che vogliono emanciparsi e smettere di gravare sulle spalle della propria famiglia.
La vita però, si sa, spesso non segue i piani che abbiamo fatto. È imprevedibile, fatta di curve cieche, brusche frenate e improvvise ripartenze. E così è successo che ho cominciato a recitare. Mi sono ritrovato quasi per caso davanti a una macchina da presa e, al netto della tensione da principiante e dell’ansia da prestazione, mi è piaciuto moltissimo. Il nuoto, a quel punto, è diventato un impegno troppo ingombrante. Continuavo ad andare in piscina, ma arrivavo al blocchetto di partenza stanco e senza fiato, già scarico, perché gli allenamenti non erano più la mia priorità: stavo iniziando a vedermi sotto un’altra prospettiva. Calarmi nei panni di un personaggio mi dava una soddisfazione e una scarica di adrenalina che nuotare aveva smesso di procurarmi già da un po’.
Se da una parte in piscina arrancavo, dall’altra recitare mi aveva fatto tornare la voglia di far bene. Il set era diventato un podio.
A differenza di quanto negli ultimi tempi succedeva in vasca, davanti all’obiettivo della macchina da presa avevo cominciato a sentirmi a mio agio, accolto, come di fronte a un occhio che mi scrutava, ma con il quale potevo parlare, confessarmi, essere me stesso.
Forse è stato proprio grazie a questo entusiasmo che ho trovato la forza di appendere cuffia e occhialini al chiodo e, in un certo senso, di dire addio a tutta la mia infanzia, di cui il nuoto era stato un elemento fondamentale. Gli allenamenti e le prove avevano ritmi inconciliabili. È stato un momento durissimo, ma ho dovuto scegliere quale strada percorrere. Da una parte c’era la piscina, che negli ultimi tempi era teatro di grandi fatiche e pochissime soddisfazioni: lì c’era quello che pensavo di dover essere, c’erano le aspettative altrui, c’era l’obiettivo per il quale avevo investito ogni briciolo delle mie energie. Dall’altra c’era il set, sfavillante, nuovo, eccitante, che rappresentava quello che stavo scoprendo di voler diventare. La scelta è stata molto sofferta, ma in fondo altrettanto semplice. Dovevo solo seguire il mio cuore, che mi stava dicendo forte e chiaro cosa fare.
Ero e sono sempre stato, però, uno sportivo, e gli atleti si preparano per vincere. Si allenano per mesi, per anni, in vista di quei pochi minuti in cui si giocano il tutto per tutto. Il mondo della recitazione invece mi era completamente sconosciuto. Non avevo idea di cosa significasse fare l’attore, di come ci si preparasse a sostenere una parte, di cosa e quanto bisognasse studiare per essere credibili nei panni di qualcuno che non sei tu.
Non sapevo bene cosa fare. Poi, una sera, dopo cena, ancora una volta davanti a una partita di calcio in TV, con la disinvoltura di chi commenta le previsioni del tempo, mio padre mi disse: «Fa’ quello che hai sempre fatto, allenati».
Non ho capito subito a cosa si stesse riferendo. Non avevamo mai affrontato direttamente la questione, non riuscivo a dirgli che non me la sentivo di continuare a nuotare, avevo una paura tremenda di deluderlo, ma forse era venuto il momento di farlo. Fu una conversazione molto breve, fatta soprattutto di lunghi silenzi, che si concluse con uno dei nostri abbracci, saldi e decisi. Lui aveva capito da tempo che il nuoto non era la mia strada e stava aspettando che me ne accorgessi anch’io, ma sperava che tutti gli anni che avevo trascorso in vasca mi avessero insegnato come affrontare la vita.
I registi d’altronde sono come degli allenatori: devono riuscire a prendere per mano gli attori e accompagnarli nella recitazione, così come un coach fa con il suo atleta.
Stefano Reali aveva ragione. In piscina, prima ancora che a nuotare, avevo imparato ad affrontare le sfide. Ed era questo che dovevo fare anche in quel momento: intraprendere un nuovo percorso con lo spirito e il metodo di qualsiasi sportivo e prepararmi alla professione di attore come un atleta si sarebbe preparato a sostenere la più importante delle sue gare.
Quella da nuotatore ad attore è stata una rapida trasformazione, anche grazie al fatto che il primo ruolo da protagonista che mi è stato affidato è stato quello di un grande atleta, Giuliano Amitrano, ispirato a Giuseppe Abbagnale, gloria del canottaggio italiano insieme al fratello Carmine. Ricordo ancora il provino, la tensione e la lunga conversazione che seguì con Stefano Reali, il regista di quella serie. Stefano si era accorto della rabbia che avevo dentro, ci mettemmo a parlare e io raccontai che ero stato un nuotatore e che, a un certo punto, dopo una virata sbagliata, si era rotto qualcosa e avevo smesso di allenarmi con l’energia e la motivazione che mi avevano portato fin lì. Fu la mia storia a convincerlo a darmi la parte, forse perché pensava che sapendo cosa significa allenarsi alla fatica e al sacrificio sarei riuscito a rendere il suo personaggio più vero.
All’epoca (erano i primi anni Novanta) la vicenda sportiva dei fratelli Abbagnale, che avevano vinto due titoli olimpici e sette mondiali, si era appena conclusa. Avevo visto le loro gare in televisione, come sempre insieme a mio padre (spettatore di qualsiasi disciplina sportiva), e assistito al loro trionfo. Come dimenticare la telecronaca da infarto di Giampiero Galeazzi, che in occasione della finale del due con e dell’epica vittoria alle Olimpiadi di Seoul del 1988 aveva definito Giuseppe e Carmine «due stupendi cavalieri delle acque». Mi era piaciuta moltissimo quella definizione, perché era proprio così che li vedevo anche io, due eroi che planavano sulla superficie dell’acqua a tutta velocità con un’eleganza che mai avrebbe lasciato immaginare la fatica che c’era dietro.
Una fatica cieca, tra l’altro, perché nel due con si voga dando le spalle al traguardo, fidandosi dei ritmi che detta il timoniere, la vera bussola dei due vogatori. Lottare senza nemmeno avere davanti agli occhi il proprio obiettivo, senza sapere quanto manca per raggiungerlo, senza avere la soddisfazione di vederlo che si avvicina a ogni vogata è ancora più difficile, perché la forza necessaria per spingersi oltre i propri limiti diventa solo ed esclusivamente una questione di testa.
È una fatica così intensa che ti sembra di morire. C’è una battuta di quella serie, che si chiamava Una storia italiana, che non dimenticherò mai. Nonostante non toccasse a me interpretarla, mi si è impressa a fuoco nella memoria. A un certo punto lo zio dei due fratelli Amitrano, parlando con il loro professore, dice: «Ma tu lo sai perché la chiamano la barca delle tre morti? Perché uccide tre volte in quei duemila metri. Dopo i primi cinquecento, si accumula una quantità tale di acido lattico nei muscoli che sembra quasi impossibile continuare. Ci vuole una grande forza di volontà. Ma poi dopo altri milleduecento metri in quelle condizioni, manco la forza di volontà è più sufficiente. C’è perdita di lucidità, c’è sfinimento, c’è dolore fisico. A questo punto, è qui che si scoppia, è questa la seconda morte. E ci sono ancora gli ultimi trecento metri da fare e sei così avvelenato dall’acido lattico che te li devi fare in apnea, morendo per la terza volta».
Ecco, bisogna essere disposti a morire non una ma tre volte se si vuole diventare campioni e io, da atleta e nuotatore, lo sapevo benissimo. Sapevo che finché non raggiungi l’apice della fatica, è come se nemmeno ti stessi allenando. Quella sensazione di non farcela più, di essere sul punto di scoppiare, l’ho provata sulla mia pelle. Mi sembra di sentirlo ancora adesso il cuore che sta per esplodere, le gambe che sprofondano, le braccia pesanti come macigni, il fiato corto, cortissimo. Poi improvvisamente la fatica sparisce ed è come se il corpo si rigenerasse, pronto ad affrontare qualsiasi sfida. In quel momento ti senti invincibile, un vero eroe. Non importa se c’è qualcuno che va più forte di te, se nella gara che stai disputando non arriverai primo, la tua vera battaglia, quella contro i tuoi stessi limiti, l’hai vinta e la soddisfazione che ne ricavi è immensa, perché a quel punto pensi di poter raggiungere qualsiasi traguardo.
Il corpo si piega alla volontà, il cervello comanda e lui ubbidisce, e i veri campioni lo sanno. E quindi insistono, corrono, nuotano, remano fino allo stremo delle forze: perché sanno che è quella la strada giusta, la strada che li porterà a superare i propri limiti e quindi se stessi.
Ma percorrerla non è affatto facile. Ci vuole una guida, qualcuno che sappia sostenerti quando non ce la fai più, che ti dia la possibilità di riprendere fiato e allo stesso tempo ti incoraggi a ripartire. Ci vuole un vero allenatore. Uno che ti dica quello che non vuoi sentirti dire e ti mostri ciò che preferiresti ignorare, per permetterti di diventare chi vorresti veramente essere. Un vero allenatore non fa altro che sottolineare le tue mancanze e i tuoi difetti, ti mette costantemente davanti ai tuoi errori, al solo e unico scopo di renderti sempre più fluido, perfetto. Un vero allenatore è l’unico in grado di trasformare un atleta in un campione. Il suo non è un mestiere facile, così come non è semplice per uno sportivo affidarsi completamente a qualcuno, che detta le regole non solo dei tuoi allenamenti ma di tutta la tua vita. Ci vogliono estrema fiducia, una buona dose di umiltà, intuito e molta pazienza sia per allenare sia per lasciarsi allenare. Se alla fine arriva la vittoria, il merito è sempre di entrambi.
L’allenatore di Carmine e Giuseppe Abbagnale, il loro zio Giuseppe La Mura, medico della mutua, cardiologo ed ex canottiere, è un esempio concreto di quanto per qualsiasi atleta sia fondamentale essere seguito da qualcuno che sa come farlo. È stato La Mura a “scoprire” i nipoti e ad allenarli, al Circolo Canottieri di Castellammare di Stabia, dove tutto si aspettavano meno che di vedere quei due ragazzoni con la medaglia d’oro al collo. La strada che ha condotto Carmine e Giuseppe in cima al mondo non è stata affatto in discesa: è passata per allenamenti massacranti, all’alba o persino di notte, dopo una corsa sulla statale da Pompei a Castellammare come riscaldamento, e tanto, tantissimo sudore. Giuseppe e Carmine cominciavano a remare alle cinque del mattino, poi alle otto e mezza entravano a scuola. Nel pomeriggio bisognava aiutare il padre a zappare la terra, perché la loro era una famiglia di contadini, poi prima di cena di nuovo gli allenamenti. L’intensità dell’allenamento la stabiliscono infatti gli avversari che vuoi battere: più sono forti gli altri, più devi faticare. E i vogatori dell’Europa dell’Est, all’epoca, erano considerati praticamente imbattibili.
Nel canottaggio, così come nel nuoto, c’è poco spazio per la creatività o per l’estro individuale: allenarsi significa abituarsi a resistere alla fatica, perfezionare il gesto tecnico, la bracciata o la vogata, riuscire a essere più forti o più veloci degli altri. Bisogna dare sempre il massimo, ogni singolo giorno, come se si stesse lottando per l’oro olimpico. Non deve esserci distinzione tra allenamento e gara: solo così quando arriva il momento di affrontare quest’ultima non ci sarà bisogno di pensare al da farsi. Basterà limitarsi a ripetere dei movimenti che, nella loro perfezione, ormai sono diventati spontanei. Così la gara diventa più semplice, ma gli allenamenti sono sempre più duri, perché bisogna dare il massimo tutte le volte.
E quando ti senti morire per la fatica, quando pensi di non poter dare di più, quando sei sul punto di mollare, esiste una sola voce, un solo volto. Quello del tuo allenatore. Basta un urlo di incoraggiamento, basta un pugno chiuso, per aiutarti a tenere duro, a vincere la morte, a fare un buon tempo e arrivare al traguardo.
Un bravo allenatore deve sapere quando è il momento di insistere, quando è meglio rallentare, quando può pretendere uno sforzo in più e quando invece è più saggio tirare i remi in barca e accettare la sconfitta. Allenare un atleta non significa solo aiutarlo a raggiungere il massimo della forma fisica, ma conoscere le sue paure e i suoi punti deboli, guidarlo, ascoltarlo. Perché è soprattutto con la testa che si vincono le gare.
Vestire i panni di Giuliano Amitrano, e cioè di Giuseppe Abbagnale, per me è stato un onore e un dono. La sua vogata, quel remo che si immerge nell’acqua, spingendola via e accarezzandola, forte e gentile allo stesso tempo, senza mai strappare, mi ha ricordato la mia bracciata. Grazie ai fratelli Abbagnale sono riuscito a vincere le Olimpiadi, come sognavo da bambino, a diventare un eroe, a portare al collo la medaglia d’oro. Poco importava che fosse un film: l’emozione che ho provato è stata fortissima, reale, e l’ho custodita a lungo, proteggendola dagli screzi del tempo.
È rimasta sepolta per anni, insieme ai ricordi più cari, poi un giorno, per caso, parecchio tempo dopo, l’ho ritrovata ancora lì, nascosta in un angolo della mia mente. Avevo da poco perso entrambi i miei genitori e, passando davanti alla piscina in cui mi allenavo da ragazzo, mi è venuta all’improvviso voglia di entrare. Non era la prima volta che capitavo da quelle parti, eppure mi è scattato qualcosa dentro, come se avessi sentito tutt’a un tratto la necessità di provare a riallacciare quel filo che si era spezzato tanti anni prima.
Sulla soglia, però, mi sono ritrovato a esitare: era un periodo duro e sapevo benissimo che cedere al richiamo dei ricordi sarebbe stato un colpo al cuore, ma alla fine ho deciso di entrare e di affrontare il passato. Anzi, forse ne ho sentito ancor di più il bisogno proprio perché stavo vivendo un momento tanto difficile: rivedere i luoghi della mia infanzia, rispolverare i sogni che avevo avuto da bambino, mi è sembrato un modo per ristabilire un contatto che andasse al di là del tempo e dello spazio con quella parte di me, per sentire mia madre e mio padre ancora al mio fianco.
Non appena ho messo piede nell’atrio, sono stato investito dall’odore del cloro e tutti gli anni trascorsi dall’ultima volta in cui ero stato lì, almeno una trentina, sono evaporati in un istante. Era tutto stranamente identico a se stesso. Si vedeva che era passato del tempo, ma in un certo senso l’anima di quel posto era rimasta immutata, come un vecchio signore con qualche ruga in più ma con lo stesso sorriso e lo sguardo luminoso di quando era ragazzo. Oltre alla mensola con tutti i trofei conquistati dagli atleti della scuola nuoto, c’era ancora la cabina telefonica (forse una delle poche ormai superstiti) dalla quale chiamavo mio padre per dirgli di venirmi a prendere quando non restava ad assistere agli allenamenti, oltre la vetrata che separava l’ingresso dalla piscina. Mi è sembrato quasi di rivederlo, lì nell’angolo in cui si metteva sempre, mentre controllava il tempo sul suo cronometro e ogni tanto alzava lo sguardo per farmi un rapido sorriso di incoraggiamento.
Ritrovandomi dopo tanti anni davanti alla corsia uno, quella in cui ho imparato a nuotare, al cospetto dello stesso orologio sul quale controllavo i miei tempi e di quella vasca di cui mi sembra di conoscere ogni singola piastrella, non ho potuto fare a meno di chiedermi qual era stata la vera ragione che mi aveva portato lontano da lì, da quello che un tempo era stato tutto il mio mondo.
Da bambino, o meglio, da “giovane promessa”, mi sembrava che tutto ruotasse intorno ai miei allenamenti: il mio allenatore storico, Cesare, mi veniva persino a prendere a casa con la sua 127 bordeaux per portarmi in piscina, se mio padre aveva qualche impegno di lavoro che non gli consentiva di farlo. A un certo punto un turno di allenamento al giorno non bastava più, dovevo farne due, mattina e pomeriggio. In mezzo c’era la scuola, che era diventata solo una parentesi, una pausa tra un set di vasche e l’altro. Nel frattempo i miei genitori mi avevano comprato il motorino, così potevo fare avanti e indietro dalla piscina da solo. Erano quaranta chilometri di distanza, e a volte, d’inverno, quando pioveva tornavo a casa fradicio come se fossi appena uscito dalla vasca. Avevo le mani così fredde che mi facevano male, ma era uno di quegli effetti collaterali da annoverare tra i sacrifici che lo sport inevitabilmente pretende.
Cesare, così come m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le regole dell’acqua
  4. Start e Stop
  5. Le onde e le altre regole
  6. Lezioni acquatiche per principianti
  7. Il tempo nelle braccia
  8. Cambiare stile
  9. Conquistare nuovi orizzonti
  10. Allenarsi alla resistenza
  11. Incontri con il delfino
  12. Zitto e nuota
  13. Provarci ancora
  14. L’ultima gara
  15. Il giorno dopo
  16. Cadere e poi rialzarsi
  17. Ringraziamenti
  18. Copyright