InFame
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InFame

  1. 224 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

Se per te l'amore è quello che manca e non quello che resta; se sei capace di mangiare otto gelati Cucciolone così velocemente da non riuscire nemmeno a leggere le barzellette disegnate sopra il biscotto; se nella vita non sei un fuoriclasse ma un fuoricoda, se per staccare col mondo hai bisogno di ipnotizzarti davanti alla Prova del Cuoco; se conosci a memoria la canzone de Il gatto puzzolone; se tra tutto quello che hai nel tuo armadio scegli sempre lo stesso pantalone da almeno cinque anni; se sei un maniaco dell'igiene specialmente di quella del bagno. Se dentro di te c'è Lei; se trovi che Elettra sia un bel nome a cui dare la colpa di tutto, se ogni tanto hai la testa abitata da una scimmietta che suona piattini o da criceti che girano nella ruota e soprattutto... se anche la tua pancia pensa, piange, ama più della testa e del cuore, allora... questa è anche la tua storia... Ambra

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788831802383

1

La faccia è distesa, il respiro lungo, le spalle sciolte, sto guidando con una felicità addosso che se trovassi le parole le butterei per non minimizzarla. Ho in macchina tutto quello che mi serve per sentirmi amata e, anche se durerà soltanto qualche ora, quando provo tutta questa adrenalina sento che avrò una grande giornata.
Tra poco sarò finalmente a casa.
Scendo dalla macchina, scarico tutto, ho fretta e desiderio. Carico la mia felicità in ascensore, salgo al quarto piano, anche la chiave è confusa e stordita dalla mia mano che non vede l’ora di entrare per cominciare.
Nulla è andato storto, anche questa volta la cassiera non se n’è accorta o se lo ha fatto chissenefrega, tanto posso cambiare ancora e ancora. Sono libera di girare tutti i supermercati della zona, ho già una piantina di quelli da saltare per questo mese e dove ripassare il mese prossimo.
In questo momento il mio cuore non pesa come al solito.
Tutto quello che ho comprato lo scarico sul letto, vado in cucina e metto l’acqua a bollire per sicurezza, apro una scatoletta di tonno mentre comincio a mordere il gelato biscotto che mangiavo da piccola. Ho soltanto la sensazione della solita sottile incertezza sull’andare fino in fondo, mi fermo qualche secondo a riflettere, poi addento il gelato biscotto che nel frattempo è il terzo della confezione da sei. Accendo la tv. Mi tuffo sul letto insieme a carboidrati, grassi saturi e non, proteine, fibre, zuccheri, addensanti, coloranti, sali minerali, tracce di frutta secca, di soia e glutine, latte e tutti i suoi derivati. Non saranno amici o uomini ma almeno non prendono iniziative strane e soprattutto non mi amano. Non mi piacciono le mani degli uomini quando con presunzione mi accarezzano e disegnano la forma di una pera, io non ho chiesto di sapere come sono fatta.
Intanto il sesto e ultimo gelato biscotto scende giù e la pancia comincia a tirare. Per un attimo, ho anche pensato che questa volta ingoierò solo queste milleequattrocentochilocalorie poi basta; mentre lo penso la televisione mi schiaccia sotto un masso di tentazioni che non mi fanno più sentire il peso di quello che sto per compiere. Ogni canale mi offre quello che già mi circonda. Io ho tutto qui, così vicino! Cerco ancora di distrarmi guardando il soffitto ma uno chef insistente mi spiega quanto sia facile preparare un muffin ripieno in quindici minuti. Bene, anzi no male, ora che faccio? No, sì, no, sì… sì! Lo seguo e preparo il muffin. Cambio canale e trovo una signora che guarnisce fantastiche bruschette alla “mia madre sopra” ovvero, con qualsiasi ingrediente già morto o ancora agonizzante. Bene, anzi no male, ora che faccio? Le preparo.
Porto le bruschette sul letto, praticamente il pane è rimasto schiacciato sotto un intero reparto del supermercato, inizio a masticare. Bevo l’impasto dei muffin crudo perché tanto cosa cambia, continuo a cercare un senso di nausea che non arriva. Eppure questo mix di elementi assemblato senza alcun senso dovrebbe portare al disgusto, o almeno a dire BASTA, invece avendo azzerato il sapore del cibo, la voglia resta quella di continuare a riempire.
La mia testa è lucida, almeno credo, si rende conto della follia totale del momento ma nulla può contro la forza delle braccia, delle mani, della bocca… delle dita.
Non avevo mai pensato che alcune parti del corpo potessero prendere il sopravvento sulla testa, sul suo ripieno… tanto per restare in tema.
La fatica che faccio nessuno può immaginarla, non è da persone comuni questa esistenza, non credo che qualcuno possa riuscire a resistere a questa pratica per più di un anno. Nessuno, tranne me.
Vivo con il mio segreto da circa dieci anni, e credo che se avessi regalato tutto il cibo che ho masticato e poi vomitato avrei potuto salvare almeno una colonia di bambini malnutriti, anche per questo mi sento una merda.
“Macché cazzo dico?”
Penso di averli salvati i bambini malnutriti, da questa droga che ti frega sorridendo, che finge di non essere uguale alle altre. Non devi essere un delinquente o frequentarne, gli spacciatori sono ovunque. In televisione il più spietato è La prova del cuoco, quando inciampo in questo show, e ho il vuoto dentro che urla incazzato tra una canzoncina e un grembiulino, penso che non sia grave sfogarmi, anzi, condivido la mia esperienza con un pubblico divertito che applaude, balla e canta Le tagliatelle di nonna Pina. Mi unisco all’entusiasmo televisivo, cucino quello che vedo preparare allo “spacciatore” di turno e concludo con una bella vomitata.
“Cosa voglio di più?”
Io non voglio niente. Però tutto il niente del mondo perché anche del nulla ho fame, una fame insaziabile, una voragine che non riposa mai.
Dopo aver fatto il pieno di amorealimentare mi metto davanti allo specchio e comincio a ridere dallo schifo che vedo. Sono gonfia, la pelle è in Lombardia e gli organi in Puglia, in mezzo tossine di ogni genere come una specie di barca traghetta profughi senza approdo.
Mi metto di profilo e guardo con interesse la mia pancia, sembro incinta al settimo mese e la cosa non mi dispiace affatto, mi porta in uno stato catartico che m’impone di continuare a recitare la parte della gravida felice. Mi purifico dalla colpa e sogno che tutto quel cibo pari a uno scaffale intero di un vecchio alimentari sia il mio primo figlio e che ad aspettarmi fuori dalla porta ci sia tutto l’amore del mondo. Mi siedo e mi rialzo sentendo la pressione della pancia, fingo di percepire qualcuno dentro e per un attimo mi dona quella pienezza che da sola proprio non riesco a sentire.
Sono felice, per dieci minuti.
Chiudo gli occhi, respiro sorridendo, bradicardica come quando nuoto sott’acqua con il cuore che rallenta per lasciarmi lì sotto ancora un po’. Ora dovrei andare a vomitare, ho già aperto l’acqua del lavandino in bagno che non sarà l’oceano ma rilassa come se lo fosse. Devo andare, devo portare a termine la pratica ma in questo momento io… sto così bene… così bene… così bene… così ben… così be… così… b… così… mi addormento.
“Che cosa ho fatto?!”
Sì, l’ho fatto ancora.
Riapro gli occhi soltanto perché le orecchie hanno percepito una variazione della pressione dell’acqua del lavandino del bagno che scorre da ieri.
Mi sono assopita, forse svenuta. Ho costretto il mio corpo a digerire chili di cibo e del mio bambino? Nessuna traccia.
Non credo proprio che il risveglio di una neomamma sia così, questo assomiglia di più ad un post Cristiana F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino solo più grasso, io… molto più grassa.
Mi do ancora più fastidio quando penso di piangermi addosso. Ora, tra l’altro, proprio non posso.
Devo sparire dalla circolazione per una settimana, tempo tecnico per tornare nelle mie forme normali; che poi potrei anche uscire tanto non mi riconoscerebbe nessuno questa mattina, a stento mia madre.

2

Lei ci ha provato e ci riprova sempre, mia madre sa che io so che lei sa ma sbagliamo tutte e due lo stesso.
Mi è sempre piaciuto tutto di lei, da piccola le sue contraddizioni erano le mie fantastiche ossessioni. Portava solo tacchi altissimi e l’unica volta che si è fracassata una gamba è stato perché l’avevamo convinta a “scendere” per infilarsi un paio di LA Gear (le scarpe da ginna degli anni 90’ con i lacci colorati). Era bionda ma si decolorava i capelli, per sicurezza. Andava sempre dal parrucchiere ma appena tornava a casa li rilavava, perché li voleva sistemati ma non pettinati “da parrucchiere”.
Una donna in viaggio. Da se stessa a se stessa, andata e ritorno. Pur di non smettere di “andare” anche per mangiare restava in piedi, in continuo movimento, dal tavolo della sala alla cucina. Non c’era un vero motivo se non quello, credo, di ignorare la quotidianità e le sue regole.
Continuare a vagare pur rimanendo sentimentalmente fermi nelle proprie scelte. Un modo complesso, ingannevole ma sicuramente vincente per tirare su una famiglia.
Mi ha insegnato tutto quello che so e anche quello che non so.
Da piccola avevo oggettive difficoltà nella lettura, mettere insieme le sillabe e leggerle a voce alta davanti a tutti mi procurava un certo disagio. Così, mia madre, che doveva esaminare la contabilità dell’azienda per la quale lavorava, mi teneva vicina e mi sottoponeva quei fogli incomprensibili che studiava per far quadrare i conti. Era a tratti disperata, sia per quello che doveva sistemare della contabilità, sia per quello che non riusciva a sbloccare in me, la lettura.
Un pomeriggio dei tanti, senza che lei se ne accorgesse, all’improvviso…
«I…l… con…tri…bu…ente, ut…i…liz…zando il ri…go E6, pu…ò in…cre…men…ta…re…» e poi sempre più spedita: «Sen…za appli…ca…zione di sanzioni, i compen…si indica…ti nei righi precedenti, per adeguarli alle risultanze dei parametri di cui al D.P.C.M…».
Silenzio.
Poi mia madre urla e continua a baciarmi, sembra la pastorella di Fatima davanti all’apparizione mariana. Ce l’avevo fatta! Quel giorno avevo iniziato a leggere il mio primo modello unico 740.
L’indomani, a scuola, seguirono attimi di vero delirio. La suora mi fece leggere pure la novella del giorno, compito che fino a quel momento aveva potuto svolgere soltanto la supersecchiona Amalia.
Comunque, tornando a mia madre, insegnandomi a leggere sul modello unico 740 mi aveva già trasformata in una cittadina responsabile e che negli anni a venire avrebbe sempre provato un senso di gratitudine nel pagare le tasse. L’enfant prodige dei contribuenti, solo meno incazzata, molto meno.
Mia madre, grazie alle tasse del suo datore di lavoro, mi aveva regalato il primo passo verso l’emancipazione.
Il nostro modo di amarci è sempre stato originale in tutto, per scelta o per destino.
Credo che lei l’abbia scoperta subito la mia trasformazione in “vuoto a rendere”, ma non prevedendo una tutina e non essendo un superpotere non l’ha mai potuta condividere con le sue amiche. Non poter chiacchierare di sua figlia mantenendo lo sguardo orgoglioso per l’oggettiva genialità della stessa, come la mamma di Wonder Woman o di Margherita Hack, credo, dev’essere stata dura. Ovviamente questo non me l’ha detto lei, lo penso io.
«Ma se i miei geni non sono tali, non sarà soltanto colpa mia… no?!?»
… e questo, ovviamente, non gliel’ho mai detto.
Non ho chiesto a nessuno di aver bisogno di due dita in gola, anche tre o quattro, per essere felice. La felicità, dicono, dovrebbe avere un’accezione temporale lunga, invece la mia dura quanto un’eiaculazione precoce in un uomo ansioso. Cinquanta secondi, poi flotte di sensi di colpa si riprendono ogni organo del mio corpo.
Una volta mia madre ha fatto una cosa abbastanza geniale e ammetto che lì ho dubitato fortissimamente di riuscire a concludere il solito capolavoro.
Avevo mangiato di nascosto, più precisamente nel suo bagno, una scatola intera di Oreo oltre a vari resti della cena perché durante non potevo farlo, mi sentivo i suoi occhi imploranti addosso. Pensavo: “Perché non parli? Perché non t’incazzi, non mi dici di farla finita? Perché non mi abbracci forte come in quei film dove le madri bloccano i figli e piangono con loro perché la smettano di drogarsi???”.
Niente. Solo i suoi occhi grandi concentrati sui miei gesti e sulla mia bocca.
Le dico che sono stanca e che devo andare a casa, fingendo di dover andare a letto presto. Lei non ci crede assolutamente ma annuisce e mi lascia ancora fingere quando le dico: «Mamma, mi lavo i denti e poi vado a casa».
Il suo bagno aveva già fatto amicizia con i miei succhi gastrici. Così, mentre mi piego velocemente sul water “per amore”, alzando gli occhi, trovo il suo biglietto…
Aveva scritto un biglietto altezza vomito, era stata scientifica, spietata, unica, geniale. Avevo appena messo le dita sulla lingua e mentre lo stomaco le assecondava concedendo la prima contrazione, l’avevo letto. L’avevo dovuto leggere.
«Sei sempre e comunque il mio grande amore. Ti amo, mamma.»
Quella sera i sensi di colpa hanno fatto la spesa per me, è andata anch...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. 1
  4. 2
  5. 3
  6. 4
  7. 5
  8. 6
  9. 7
  10. 8
  11. 9
  12. 10
  13. 11
  14. 12
  15. 13
  16. 14
  17. 15
  18. 16
  19. 17
  20. 18
  21. 19
  22. 20
  23. 21
  24. 22
  25. 23
  26. 24
  27. 25
  28. 26
  29. 27
  30. 28
  31. 29
  32. 30
  33. 31
  34. 32
  35. 33
  36. 34
  37. 35
  38. 36
  39. 37
  40. 38
  41. 39
  42. 40
  43. 41
  44. 42
  45. 43
  46. 44
  47. 45
  48. 46
  49. EPILOGO
  50. Copyright