Un'amicizia
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Un'amicizia

  1. 464 pagine
  2. Italian
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Un'amicizia

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Informazioni sul libro

Tutti credono di conoscere Beatrice: famosa icona social, ammirata e invidiata, la odiano o la adorano ma senza che nessuno immagini davvero quale possa essere il segreto dietro quel sorriso sempre uguale. Elisa invece è diventata una donna adulta schiva, un po' all'antica, che non ama le foto e i social, ma che ha deciso di rimettersi in gioco iniziando a scrivere: soltanto il coraggio in quelle parole le permetterà di restituire tutte le storie che porta dentro, a partire da quella più importante, la loro amicizia. Sì perché Beatrice ed Elisa erano amiche, le migliori. Se le chiedessero di indicare il momento in cui hanno cominciato, Elisa non saprebbe rispondere. Al contrario, sulla fine non ci sono dubbi: sono passati tredici anni, ma il ricordo fa ancora male e provare a superarlo equivale prima di tutto a imparare a parlarne apertamente.
Silvia Avallone consegna al lettore un romanzo potente e liberatorio, che ci invita a riflettere sul nostro presente, su temi delicatissimi come il rapporto tra essere e apparire, verità e menzogna, tramite la relazione più intima di sempre: l'amicizia.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788831801980
PARTE II

Infelicità e percezione

(2003-2006)
13

“Un possesso per sempre”

Sono trascorsi due giorni dalla lettura di quei diari, e cos’è cambiato, in fondo, nella mia vita? Nulla. Però oggi ho inventato una scusa per uscire prima dal lavoro, senza motivo, solo perché mi andava. Poi sono passata di fronte alla lavanderia, ma non ci sono entrata, anche se avevo due giacche da ritirare. Ho persino lasciato scadere una bolletta senza sentirmi una fuorilegge.
Non mi riconosco, non sono io questa disubbidiente. La verità è che non penso ad altro che a noi due da ragazzine, alla T dei primi anni Duemila. Li ho soffocati così a lungo, i ricordi, che ora schizzano fuori come un geyser. E non sono sbiaditi né confusi, al contrario: sono troppo vivi.
Invece di prendere la strada di casa, mi allargo e finisco fuori rotta. Mi sento audace, per cui proseguo verso zone della città in cui non capito mai. Senza rendermene conto raggiungo la più aliena di tutte: Galleria Cavour. Mi fermo davanti alle vetrine dai prezzi esorbitanti, guardo scintillare gli abiti e i gioielli. Intravedo il riflesso di Beatrice affacciata accanto a me, che indica prima una borsa e solleva dubbiosa un sopracciglio, poi una sciarpa e questa, sì, la convince.
Quando scorgo un’enoteca, mi prende una voglia improvvisa di acquistare una bottiglia per brindare. Con chi? A cosa? Non ne ho idea. Ma sono le 17.30, ho tempo. Infilo la porta, chiedo un pinot bianco di quelli buoni, e mentre pago, mentre esco e m’incanto a guardare le luminarie, mi ritrovo a sorridere.
Pur non avendo amici con la A maiuscola, posso comunque contare su tre vicine di casa che condividono l’appartamento sopra il mio e mi sono simpatiche. Decido che lo berrò con loro, il vino, e torno indietro. Senza telefonare, senza ragionare. Sto diventando impulsiva come mia madre.
Suono il campanello e mi apre Debora.
«Stavate uscendo?» chiedo. «Disturbo?»
«Uscire noi? Ma non ci conosci?»
Le frequento da quando si sono trasferite qui, nel 2016 o ’17. Ci passavamo lo zucchero, all’inizio, un uovo, quel che mancava in frigorifero la domenica sera coi negozi chiusi. Poi abbiamo cominciato a chiacchierare, abbiamo scoperto di venire tutte da fuori, di essere delle provinciali, e la somiglianza ci ha unite.
Mi tolgo il cappotto, la seguo lungo il corridoio buio e stretto, tipico di queste vecchie case del centro storico perlopiù affittate a studenti o a giovani che si arrabattano. Debora studia Antropologia fuoricorso e lavora part-time come promoter, credo abbia ventisette anni. Dev’essere rientrata da poco perché ha ancora il berretto della Nintendo in testa.
Sbuchiamo in cucina e troviamo Claudia e Fabiana sedute al tavolo, in tuta e ciabatte come sempre alla fine di una giornata di lavoro. Struccate, i capelli tenuti su con la pinza e una tisana fumante vicino.
«Ragazze, ho portato il vino» annuncio.
Loro si animano. Claudia vuota subito la tisana nel lavandino, spalanca la credenza, tira fuori i bicchieri.
«Cosa c’è da festeggiare?» s’informa. E io mi blocco perché non so rispondere. Il fatto è che nelle ultime quarantotto ore ho scritto cento pagine. Cento! Mi sembra impossibile, inaudito. Sono solo vecchi conti con me stessa, lo so. Però.
«Niente, è che è quasi Natale…» farfuglio.
«Il Natale più brutto del mondo» commenta Fabiana, «non posso manco tornare giù un giorno. Il 26 mi fanno lavorare, ’sti negrieri.»
Claudia mi passa un cavatappi. Io apro, verso: «Cerca qualcos’altro e licenziati» mi scappa. Non sono certo tipo da dare consigli azzardati, ma oggi sono un’altra Elisa: dinamitarda. «Manda tutto all’aria, torna in Puglia, reinventati.» Loro tre mi guardano un po’ sorprese, e tacciono. Reinventarsi? A trent’anni, in questa Italia? Cosa sto dicendo?
La tv è accesa a volume basso. Brindiamo a noi e alla nostra sopravvivenza.
«Odio il mio capo» dichiara Claudia rilassandosi.
«Io l’ho sognato ieri notte, lo chiudevo nella cella frigorifera. Preferivo lavorare in salumeria con quell’altra megera» dice Fabiana, «almeno non mi fissava le tette.»
Debora si gode il vino, si accorge di avere ancora in testa il cappellino da promoter, lo afferra e lo lancia sul lato opposto della cucina. Distende le gambe sul divano. «Io invece voglio ammazzare il mio ex, che semina cuori sotto le foto ammiccanti di tutte le mie amiche.»
«Tu però ti trascuri» la rimprovera Claudia, «da quando ti ha lasciata sei un catorcio. Guardati! Hai un buco nei leggings.»
«E allora? Mica sono la Rossetti.»
Dovrei esserci abituata: in ogni conversazione a cui mi capita di partecipare, specialmente qui, all’interno 4, è inevitabile che a un certo punto venga scoccato il suo nome. E io, sistematicamente, abbasso lo sguardo, mi mordo le labbra per distrarmi dal brivido d’imbarazzo che mi percorre, e subito passa, certo. Ma è come se decenni fa avessi compiuto una rapina (ancora quei jeans?) e temessi di venire scoperta. È assurda questa paura, ma è anche perenne. Perché ovunque, ogni giorno, si parla di Beatrice. Tutti la additano come esempio, buono o cattivo poco importa. Sanno cos’ha detto, cos’ha fatto, come se li riguardasse nell’intimo.
Poi Debora fa un salto sul divano, afferra il telecomando, alza il volume. Fabiana e Claudia anche, sgranano gli occhi al televisore. Sullo schermo è comparso un ragazzo, un certo Daniele, abbronzato, col pizzetto ben curato e i capelli scolpiti dalla messa in piega. Se ne sta seduto sulla poltrona dell’ospite di non so quale trasmissione, e parla con voce rotta.
«Io però non ho capito» lo interrompe la conduttrice, «è vero sì o no che vi dovevate sposare?»
Il ragazzo ci guarda, noi a casa. Con emozione rivela: «Non l’ho mai detto a nessuno, mai, Barbara, mi devi credere. Ma a Formentera, a Ferragosto, le ho chiesto di sposarla».
«E lei?»
«Lei mi ha detto sì.»
«Bugiardo!» esplode Debora.
«Un mese, due?» rincara Fabiana. «Quant’è che sono stati insieme, lui e la Rossetti? E si spaccia su tutti i canali come il promesso sposo.»
Si accaniscono contro il ragazzo palestrato, che ora piange. Loro li sanno tutti con precisione, i fidanzati o i semplici flirt di Beatrice. E io, che ne conosco uno solo, di colpo mi ritrovo a pensare a Gabriele.
Lui non l’avrebbe mai fatto, di piazzarsi lì, sotto un riflettore, a snocciolare bagni di mezzanotte senza costume, giorni interi senza uscire da una stanza d’albergo. In tutto questo tempo, Gabriele non ha mai svelato, non solo alla stampa, ma a nessuno che io sappia, di essere stato insieme a Beatrice. Non per un mese o due, ma per anni. Di più: di essere stato il primo. Al pari di me, ha mantenuto il più stretto riserbo, ha custodito il segreto. E mi sale in gola un fiotto di nostalgia, di complicità, di appartenenza, tale che mi alzo dalla sedia, tiro fuori la scusa che devo preparare la cena con urgenza.
Mentre fuggo lasciando il bicchiere a metà, penso che sto dicendo tante di quelle bugie, in questi due giorni, che è come se d’improvviso avessi un amante.
*
Apro la porta di casa, mi svesto e butto borsa, sciarpa, tutto alla rinfusa sul cassettone. Corro in camera, mi siedo subito davanti al computer e digito: “Gabriele Masini” nei principali social network. Ho dei profili anch’io, sì, ma sono vuoti: né una foto né una parola. Non servono a farmi trovare, solo a nascondermi meglio per stanare gli altri.
Un “Gabriele Masini” di T non risulta, e neppure un “Gabri Masini”. Né uno, calcolo, di quarant’anni. Né uno con la passione per le moto – chissà poi se ce l’ha ancora. Sono tutti troppo vecchi o troppo giovani, biondi, castani, brizzolati. Il tempo stringe e io niente, non riesco a trovarlo. Ci rimango male, ma non sono sorpresa.
A Gabriele non è mai fregato nulla di mostrarsi. Anzi, non si è mai neppure fatto scattare un ritratto da Bea per quei provini a cui lei teneva tanto. Era bello come il sole, cento volte più di quel Daniele. La dico tutta: ben prima che Beatrice diventasse la Mora per eccellenza a ogni latitudine, lui a T, nei vicoli della città vecchia, era stato il Moro. Quello che usciva di casa con la tuta della fabbrica, e madri e figlie lo seguivano mute con lo sguardo. Avrebbe potuto schioccare le dita e finire in passerella, in televisione. Avere tutte le donne di questo mondo, mandare in frantumi matrimoni, farsi mantenere da ricche milanesi in vacanza in Toscana. Invece se n’era rimasto in un angolo a fumarsi le canne guardando Miyazaki, soddisfatto di questa vita non replicabile, non sdoppiabile, senza menzogne né sortilegi, insieme a una ragazzetta che, per quanto notevole, all’inizio era solo una verginella di quattordici anni.
Chiudo Internet e apro Word. Torno dal mio amante. Perché è vero, ce l’ho: è quello che sto scrivendo. Che non so ancora come si chiama – sfogo, diario, romanzo – ma le definizioni non sono mai importanti.
Ricordo uno dei pomeriggi in cui la Rossetti era di là da venire, e c’era solo Bea in bikini, sdraiata di fianco a me, sulla spiaggia vuota perché non era ancora cominciata la stagione. Lei prendeva il sole per “far asciugare i brufoli”, e io, infagottata nelle consuete t-shirt larghe e lunghe come camicie da notte, ripassavo Tucidide. Il mare spalancato e irrequieto di fronte a noi, le isole e le navi all’orizzonte, la storia che, se la scrivi fedelmente, per Tucidide diventa “un possesso per sempre”. Ma a un certo punto mi ero scocciata di studiare La guerra del Peloponneso per l’interrogazione dell’indomani e le avevo chiesto: «Come avete fatto a conoscervi, tu e Gabriele?».
Bea aveva spalancato i suoi occhi leggendari, resi dall’intensità della luce di un chiaro verde mela. «Hai presente l’officina di Damiano?» aveva cominciato. «L’estate scorsa avevo un problema ai freni dell’SR e l’ho portato ad aggiustare. Mamma era rimasta in macchina ad aspettarmi con il motore acceso. Io sono entrata e mi sono trovata davanti questo figo, Eli, clamoroso. Senza maglietta. Con le mani sporche di olio, steso sotto una moto, che aiutava Damiano. Quindi mi sono nascosta dalla vista di mia madre.»
Penso: com’era facile a quattordici anni. Entravi in un posto – un’officina, una biblioteca, fa lo stesso – e subito cominciava una storia d’amore, di quelle devastanti per una vita intera.
Gabriele, col suo italiano sgrammaticato, la sua terza media arrangiata, credo avesse intuito al volo che in quella ragazzina c’era dello straordinario. Bea mi aveva detto che si erano guardati “e il mondo aveva smesso di girare”. Poi aveva preso palesemente a ricamarci su, a inventare particolari, ingigantire i fatti, perché lei una cronaca non la sapeva raccontare, ma un romanzo sì, eccome.
Quel che ricordo bene – forse l’unico pezzetto di verità in quella storia – è che c’era Ginevra, la strega, in agguato dietro il finestrino oscurato, con l’aria condizionata al massimo, la piega perfetta e la smania di raggiungere al più presto la sua boutique preferita. Bea doveva cogliere l’attimo, lo sapeva, così era sgattaiolata nell’ufficio di Damiano, aveva strappato un foglietto a un bloc-notes. Ci aveva scritto su il suo nome, il suo numero di casa, specificando: “Fai finta di essere Vincenzo quando chiami, dello studio fotografico Barazzetti”, e gli aveva dato appuntamento l’indomani dietro la scogliera della spiaggia dove ci trovavamo noi quel giorno.
«Scusa, tu hai dato appuntamento a lui?» le avevo chiesto incredula.
Beatrice si era messa a sedere e con serietà mi aveva guardata: «Se c’è qualcosa che brilla a portata di mano, perché non dovremmo afferrarlo?».
*
Però adesso mi sto perdendo, Gabriele mi ha preso la mano. Devo fare un po’ d’ordine in questa narrazione e ritrovare la bussola.
“Seleziona” mi ammonirebbe Beatrice. E, in effetti, non posso mettermi a raccontare tutto il 2001, il 2002, l’intera nostra adolescenza.
“Seduci” mi intimerebbe. Ma qui sono sola con me stessa, non devo sedurre proprio nessuno. Riapro i diari, li sfoglio per un breve ripasso. Da quel Santo Stefano terribile al belvedere fino alla primavera del 2003 non è accaduto nulla che sia degno di nota. Per quanto mi riguarda, ho solo imparato a crescere senza mia madre.
C’era Beatrice a bilanciare il vuoto, a ingannarlo. Perché lei – e rendermene conto mi commuove – m’impediva di vivere da lontano come avevo sempre vissuto, e come ho ricominciato a fare dopo che abbiamo litigato. Ero convinta di odiarla. La odio ancora.
Eppure adesso mi sorprendo ad augurarmi di essere stata per lei, specialmente in quel 2003 disgraziato, la stessa forza di gravità che lei fu per me.
14

Il ritorno delle ghiandaie

Ti prego fa’ che lui ci sia.
Sapevo quanto fosse improbabile eppure, un istante prima di uscire da scuola, sperai di trovarmelo di fronte. Appoggiato al cofano della sua auto, la sigaretta a fior di labbra. Chiusi gli occhi, varcai la soglia trattenendo il fiato. Scesi due gradini e mi dissi che forse una possibilità c’era.
Li riaprii, e al suo posto trovai mio padre.
Odiavo l’11 aprile perché mi ribadiva ogni anno quanto fossi irrilevante, e che i miei desideri non si sarebbero realizzati.
Papà era l’unico cinquantenne. Gli altri erano ragazzini freschi di patente, ansiosi di baciare con la lingua l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Un’amicizia
  4. I DIARI
  5. PARTE I. Prima che la conoscessero tutti. (2000)
  6. PARTE II. Infelicità e percezione. (2003-2006)
  7. PARTE III. Lezioni di vuoto. (2019-2020)
  8. UN’AMICIZIA
  9. Ringraziamenti
  10. Testi citati
  11. Copyright