Desideri deviati
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Desideri deviati

Amore e ragione

  1. 416 pagine
  2. Italian
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Desideri deviati

Amore e ragione

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"I segreti sono l'unica cosa per cui vale la pena vivere."

La città del Nord che ospita i personaggi di Desideri deviati è anche la sua protagonista, con i suoi uffici, le sue fabbriche dismesse e le sue passerelle. Chi la abita è animato da forze molto diverse: amore, cultura, successo, giustizia politica. E dunque, cos'è che vuole veramente, qual è il desiderio più profondo di Nico Quell, inquieto "ragazzo senza qualità" che avevamo già incontrato in Cuori fanatici? Attorno e insieme a lui, si muovono gli altri personaggi di questo romanzo, che a cavallo tra realismo e fantasia gotica racconta con uno sguardo affilato l'editoria e la moda, miniere di sogni e frustrazioni, all'inizio di un decennio, gli Anni Ottanta, in cui tutto è in mutazione: l'editore Minaudo e il deforme Coboldo, la modella Sheila B., misteriosa amazzone nera, gli ambigui architetti Igor e Vera Macchi, Irene, sorella persa e ritrovata, il maestro Chirone… Ognuno ingaggiato in duelli intellettuali o amorosi, fatui o violenti, dove ci si gioca il senso della vita. Ma il desiderio non si compie mai, è per sua natura deviante: nella capitale del lavoro - fotografata un istante prima che si trasformi in città delle attrazioni - si smania sempre per qualcosa, e si finisce per ottenere o perdere qualcuno. E sotto la sua superficie scintillante, come nel film Metropolis, c'è un popolo che vive nelle sue viscere, un'energia barbarica, selvaggia, pronta a ribellarsi per riconquistare la città.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788831801928
Capitolo VI

Party dai Macchi

1.

Sheila B. si intratteneva vicino al bar. La prolungata assenza di Nico non la preoccupava. Aveva voglia di rilassarsi. Si era abbracciata, strillando di gioia transitoria, con alcuni modelli assieme a cui aveva lavorato, ragazzi con le spalle larghe e i capelli fissati verso l’alto. Ma quella sera non aveva voglia di stare con gente del lavoro.
Le risate di Sheila B. erano prima squillanti, quindi cavernose.
Spinse via un amico ficcandogli le unghie violette nello stomaco. Poi a turno varie persone, alzando la voce per coprire la musica, che veniva dal salone accanto, dove qualcuno già ballava, le avevano proposto all’orecchio di bere qualcosa, ma lei rifiutava indicando il bicchiere pieno d’acqua minerale. La beveva a piccoli sorsi. Si spostò nella sala dove si ballava. Per un po’ rimase con le spalle al muro, succhiando la sua minerale, ascoltando la musica che pulsava e guardando quelli che ballavano.
Il modo di ballare evolve di festa in festa. Certi movimenti da un giorno all’altro diventano antiquati, il corpo si rifiuta di replicarli per l’ennesima volta e ne crea altri senza pensarci, che i meno fantasiosi imiteranno presto. Qualcuno chiude le mani a pugno e le agita all’altezza del viso, e dopo un po’ tutti ondeggiano i pugni. Qualcuno, un geniale anonimo iniziatore, della stessa stirpe dello scopritore del fuoco, prova a nascondere un piede dietro l’altro facendo un passetto mezzo laterale e mezzo indietro, una specie di saltello che ha qualcosa di agreste, pastorale, e questa diventerà una formula buona per due o tre anni. Da quando non esistono più le figure fisse delle danze tradizionali, il ballo vive avidamente di queste innovazioni. Dato che si balla sul posto, tutt’al più ruotando sul proprio asse e in mezzo a una folla che preme da ogni parte, mani e piedi e testa assumono un’importanza decisiva. Una scuola minimalista vuole che tutto sia ridotto a puro significato, i movimenti appena accennati, alludendo a una danza geometrica piuttosto che eseguirla nello spazio, mentre esiste una versione spaccona e acrobatica dei medesimi gesti portati ai confini della ginnastica.
All’epoca in cui si svolge questa storia stava per prendere il sopravvento uno stile robotico, frenetico, si indossavano, anche al buio, occhiali neri, e le mosse erano balzi in alto, calci laterali, la testa ruotata di scatto e colpi di gomito all’indietro e sventole con le braccia che dovevano far svolazzare giacca e cravatta, e pure i capelli delle ragazze, se non erano fissati con il gel. Il tutto eseguito in modo meccanico, con vibrazioni della testa, come se si fosse percorsi da scariche di corrente.
Venivano suonati Dreams Never End, Mirror In The Bathroom, Whip It, Girl U Want.
Poi Sheila si staccò dal muro e fece alcuni passi ancheggiando, alzò le braccia e già stava ballando, i movimenti del corpo accentuati appena, le ondulazioni di gomiti e ginocchia un po’ più ampie. Quasi tutti gli altri intorno ballavano facendo perno su un piede e trascinando in diagonale l’altro piede all’indietro, poi con un saltello brusco cambiavano piede d’appoggio ed eseguivano lo stesso passo simmetricamente, mentre le braccia a gomiti in fuori seguivano il ritmo, come quelle di un canoista che alterna colpi di pagaia a destra e a sinistra. Qualcuno invece a testa bassa tirava calci a gamba tesa e accompagnava le estensioni con vigorosi fendenti menati col braccio opposto: gamba destra-braccio sinistro, gamba sinistra-braccio destro. Giravano la testa di scatto dalla parte opposta a dove stendevano la gamba, come se volessero riprodurre i movimenti di un automa, solo che gli automi di solito si muovono lenti e loro invece tenevano un ritmo persino più veloce della musica, andando spesso fuori tempo, dunque se imitavano dei robot oppure volevano essere dei robot, si trattava di robot impazziti, di quelli che nei film di fantascienza stanno andando in corto e tra poco esploderanno sfrigolando in una fontana di scintille.
L’ultima moda consisteva infatti nel de-umanizzarsi. Svuotarsi e diventare neutri come macchine. La voce dei cantanti veniva filtrata in modo che sembrasse generata da un apparecchio artificiale. I cantanti si truccavano la faccia di bianco per apparire come bambolotti siderali, cloni, gelidi replicanti dagli occhi vitrei cerchiati di nero, e indossavano vestitini plasticati o tutine o giacchette dai riflessi metallici. Non sorridevano mai. Non mostravano sentimenti. I loro capelli erano fissati dal gel in posizioni innaturali. Ripetevano la stessa frase monotona come un annuncio ferroviario. La mimica da manichini di crash-test. Zero emozioni. La gamma dei suoni generata da sintetizzatori. Con un po’ di ingenuità, ci si voleva dimostrare pronti a una svolta tecnologica per cui gli uomini sarebbero stati poco alla volta sostituiti dalle macchine. L’avanguardia consisteva nell’adeguarsi all’artificiale e all’inumano, creando un’immagine il più possibile esanime del futuro. In verità, si trattava di un fenomeno nato in ritardo: proprio mentre se ne scimmiottava il funzionamento rudimentale, in quel periodo le macchine cominciavano a perdere il loro aspetto sferragliante e a evolversi e a perfezionarsi con l’obiettivo di riprodurre le sfumature del gesto e del pensiero, il calore e la grana della pelle umana, la flessibilità del sogno, i guizzi dell’intuizione; i congegni artificiali si animavano, e intanto gli uomini aspiravano a devolversi, a irrigidirsi come macchine.
Sheila B. invece ballava in un modo naturale e seducente. Si era mescolata a un gruppetto di automi ma non seguiva il loro ritmo prevedibile. Intanto questi, ballando attorno a lei, la osservavano e cercavano di imitarla, ma non era facile, perché i suoi movimenti cambiavano di continuo. Soprattutto due di loro si facevano notare – il primo sui venticinque, l’altro sui quarant’anni – che si erano messi intenzionalmente a danzare nei dintorni della ragazza, ora davanti, ora dietro a lei ma comunque attirandola nella loro orbita e cercando di trattenercela. Quando si balla in gruppo non è mai chiaro con che partner si stia ballando, e dunque si è inventato un sistema di corrispondenze che legano i ballerini tra loro anche se non si toccano o non si tengono per la vita, senza intrecciarsi e abbracciarsi come nelle danze tradizionali. I due uomini sorridevano a Sheila; alzavano le braccia quando le alzava lei; se si metteva di fianco a loro, subito ancheggiavano, se lei accelerava il ritmo anche loro acceleravano e non appena Sheila azzardava un passo strano, loro le rispondevano con evoluzioni ancora più strane, facevano la mossa di buttarsi in spaccata o si levavano la giacca e la roteavano per aria come per lanciarla.
Uno di loro era Mario Fumo. Era vestito in modo ricercato, si vedeva che la serata era importante per lui, eppure si muoveva con un certo disagio, come se avesse comprato i suoi abiti il giorno stesso e li indossasse per la prima volta. Dopo vari ripensamenti e oscillazioni di gusto, in quel momento la moda voleva che giacca e pantaloni fossero ampi, ma quelli di Fumo lo erano eccessivamente. Ci ballava dentro. Sotto la giacca di tweed dallo spinato gigante, portava una camicia dal colletto stretto e piccolo, a righe bianche e porpora, da cui pendeva una cravatta rossa un po’ luccicante; i suoi pantaloni flosci erano abbondanti al bacino e si stringevano alla caviglia. Non sapendo muoversi, privo di scioltezza, Fumo era costretto a rifarsi al modello dei ballerini visti al cinema o in tv. Voleva apparire sfrontato, frenetico e rapito dal ritmo come loro. Quel modo di ballare libero da regole assolute lo permetteva. Era stata una grande conquista: chiunque poteva ballare anche senza saper ballare, non c’era più un modo giusto e uno sbagliato, d’accordo, ma la cosa singolare era che proprio i ballerini scarsi erano quelli che si agitavano di più. L’idea che tutto è permesso rende più intraprendenti gli incapaci. Bastava fare un qualsiasi movimento e poi replicarlo, esasperarlo, e quella mossa sgraziata poteva essere presa per un passo di danza. Fumo saltellava e scuoteva i capelli per immedesimarsi nel ruolo, faceva anche delle smorfie, stralunate o feroci, affettava l’aria col taglio delle mani, e finalmente cominciò a sentire che andava bene, il ritmo lo trascinava in alto, le gambe e le braccia non avevano bisogno di ricevere ordini. E non si preoccupava più di controllare se i suoi movimenti corrispondevano a quelli degli altri. Ballando vicino a Sheila B., Mario Fumo si stava dimenticando del mondo.
Non sentì più lo sforzo. Il grande sforzo per essere arrivato sino a lì, a quel punto della vita, a casa del noto architetto, in mezzo a gente facoltosa, col vestito a cui poche ore prima aveva sforbiciato l’etichetta con la taglia e il prezzo.
Era sparita tutta la fatica di tenere duro. Stava ballando con una bellissima modella nera più alta di lui, e lei gli sorrideva.
Venivano suonati: Rock Lobster, Baggy Trousers, Canary in a Coalmine, Looking For Clues, Just Can’t Get Enough.
E Sheila sorrise al ragazzo con il blazer dalle spalle dritte. Dentro quella giacca nuova c’era Mario Fumo, il giovane e promettente filologo, deciso a sfondare nel mondo della cultura. Forse avrebbe fatto meglio a scegliere un altro settore dove fare la sua scalata. Nel mondo in cui Fumo aspirava a primeggiare giravano pochi soldi e molto risentimento, non c’era proporzione tra gli sforzi fatti e i risultati ottenuti: il successo guadagnato a caro prezzo era comunque irrisorio rispetto a quello raggiungibile in altri campi. Autentica fama, denaro, lusso, scarseggiavano. Nel mondo della cultura venivano orditi intrighi, celebrate e disfatte alleanze, combattute battaglie e guerre, distrutte amicizie, sacrificate vite e reputazioni, erano ogni giorno bestemmiati il pudore e la logica, violata la parola data, deformate a proprio vantaggio le più elementari norme di comportamento, la gente si nutriva di invidia e crepava di solitudine, si commettevano infamie sottili e impalpabili ma non per questo meno gravi e dolorose, si respirava un fitto fumo di ipocrisia, il che certamente avviene in tutti i campi, l’industria, la finanza, la politica i giornali e la tv eccetera, le professioni eccetera, ma con la differenza che, nelle Belle Lettere, in ballo c’è ben poco. Abiurare per un regno, può darsi che valga la pena. Ma per una rubrica di quindici righe su un settimanale? Insomma, ragazzo mio, verrebbe voglia di dire a uno come Fumo, non era meglio se facevi il dentista? E se proprio volevi il tuo nome sui giornali, perché non provare col cinema, invece di intraprendere la carriera del critico letterario?
Il bello era poi che Fumo voleva uscire vittorioso come un angelo con la spada, mantenendosi puro e giusto. La sfida l’avrebbe vinta con le sue sole forze. Sei sicuro di questo, Mario? Ne sei sicuro? Sì, risponde e intanto annuisce stringendo le labbra con quella sua tipica smorfia da ragazzo serio, che è venuto su svegliandosi alle cinque della mattina per sottolineare manuali di filologia romanza. Luce gialla di lampadina e righello, sennò le righe vengono storte.
Ma è anche possibile che lui faccia questo solo per un sincero e smisurato amore per la letteratura.

2.

Il guaio è che in quella città, che ambiva a essere riconosciuta come l’autentica capitale, l’attività intellettuale si ritrovava spesso mescolata ad altre assai più redditizie e trattata alla stessa stregua, il che ingenerava un po’ di confusione, come alla festa di Igor e Vera Macchi, la coppia diabolica, abilissima nel creare occasioni in cui gli invitati si sentissero lusingati dalla presenza di altri invitati che potevano supporre più importanti di loro, più ricchi di loro o ancora più alla moda. La presenza di gente ricca e alla moda faceva credere a un ingenuo come Fumo che il mondo culturale scintillasse notte e giorno di lusso e belle ragazze. E in fondo, perché non dovrebbe essere così? Il luccichio delle idee si è sempre riflesso in quello degli oggetti e dei corpi.
A Sheila faceva tenerezza quel suo modo sgraziato di a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Desideri deviati
  4. Preludio alla città del Nord
  5. Capitolo I. Sheila B.
  6. Capitolo II. Una testa quadra
  7. Capitolo III. Il Fabbricone
  8. Capitolo IV. Come un gesuita
  9. Capitolo V. Jai-alai
  10. Capitolo VI. Party dai Macchi
  11. Capitolo VII. In piscina
  12. Capitolo VIII. Un muto stupore le prese l’anima
  13. Capitolo IX. Telefonate
  14. Capitolo X. Arkadia
  15. Capitolo XI. La Marta
  16. Capitolo XII. Lo sgombero
  17. Capitolo XIII. Il senso della vita
  18. Capitolo XIV. Innamorarsi
  19. Copyright