Dopo mesi che non ci vedevamo, compare Oleksandr al bar One Way. Un bestione ucraino, incontrato in festini organizzati nelle case. Dall’aspetto eravamo entrambi già a mezza cottura, e la sua corporatura imponente non mi faceva affatto paura, perché qui si trattava di capacità nel bere. Ed eravamo due pesi massimi. Ci demmo tre bacetti come si usa da loro e gli chiesi: «Cosa prendi?». «Tequila con fetta di limone» mi rispose. «Fanne due.» Le moltiplicammo fino alla chiusura del bar. Quando il bar chiuse, uscimmo in strada. E non avendo più il bancone a cui appoggiarci, camminavamo appoggiandoci l’uno all’altro per trovare un equilibrio.
Finiamo il secondo round in un kebab con le Peroni (mai scendere con la gradazione).
Convincendomi di avere ancora il senno, presi la responsabile decisione di andarmene a casa a piedi invece che con la macchina.
Il giorno dopo, tra i postumi della sbornia e la fotofobia mi incamminai in cerca della macchina che non trovavo più. Mi squilla il telefono, è un numero che non conosco: «Ciao Ugo, sono Alessandro, mica ti ricordi dove ho messo il motorino?»
«No Alex, anche io sto cercando la mia macchina, stiamo nella stessa barca.»
E vvote s’adda accettà pure o’ pareggio.
La cortina di ferro è più arrugginita della mia Opel Corsa storica. Una coda infinita al confine tra Ungheria e Ucraina. Mi accendo un’altra sigaretta. Gli ucraini la oltrepassano anche a piedi attraverso un corridoio, carichi di valigie. Buona diaspora!
Ho la caviglia piena di acido lattico per colpa del pedale della frizione, ma ci sono quasi. Militari armati si segnano il numero di targa e uno di loro mi controlla il chilometraggio infilando la sua faccia di cazzo nel mio quadro strumenti. Non sono contrario alle frontiere, anzi, le valico da sempre, però: poca confidenza, signor doganiere! Mi guarda storto, lo afferro per i capelli sbattendolo contro il volante. Approfittando del suo stordimento, in uno scatto veloce afferro il kalashnikov che porta a tracolla, glielo punto in gola e premo il grilletto all’impazzata. Giace in una pozza di sangue blu.
Esco dal mio film mentale.
Mi trovo vicino alla guardiola. Mi chiedono perché il passaporto è francese e la targa italiana. Dove vado, da chi, per quanto tempo, per fare cosa. Ma chi sei, mia moglie? Aprono il passaporto, “casualmente” c’è un biglietto da venti euro dentro per agevolare la procedura. Lo richiudono, si accertano di fare il loro lavoro e mi ridanno il documento timbrato in cirillico. Ci manca la mia banconota. So come funziona. Anche la dignità è quotata in borsa.
Eccomi in Ucraina. Mi fermo alla prima pompa di benzina. I volti sono inquietanti in quel posto. Meno male che riesco a leggere il loro alfabeto, così faccio da me. Apro la cartina autostradale per capire dove devo andare, ma è impossibile. Quel che sulla mappa è indicato come strada, in realtà è suolo lunare con accenni di asfalto, senza strisce, né cartelli, né lampioni, in mezzo a boschi dove non c’è campo per il telefono. Inizio a slalomeggiare ai trenta all’ora in mezzo ai camion mastodontici ancora reduci dell’Unione Sovietica. Voglio arrivare prima di notte se no sono fottuto!
Arrivo di notte. Mi trovo nel centro di Ternopil’. L’atmosfera è lugubre. Devo raggiungere un villaggio vicino ma non so come. Accosto la macchina vicino a un taxi che mette in moto e scappa. Il mio amico Denny al telefono mi spiega che è una reazione normale. Hanno paura del racket. Mi viene incontro lui, per poi portarmi a casa della nonna che ha accettato di ospitarmi.
Erano anni che i miei amici ucraini di Caserta mi invitavano ad andare da loro quando si trovavano lì per le vacanze.
La mattina, quando mi sveglio, trovo in cucina la padrona di casa. Baba (nonna) Marta ha un’ottantina di anni. Grembiule, occhiali tondi e fazzoletto in testa. Il fascino della divisa. Abita con un gatto cieco e suo figlio Bogdan, che mi tira fuori un sorriso smagliante d’oro. La capostipite mi chiede come mi chiamo: «Ugo» rispondo.
Il nipote amico mio mi traduce che per lei è troppo difficile pronunciare queste due sillabe.
Allora da oggi in poi sarò “Roman”. Mi specchio nell’argenteria per vedere se ho una faccia da Roman. Potrei averne una peggiore. È tempo di integrarsi.
Chiedo cosa stanno facendo, incuriosito da un alambicco sui fornelli. Il Samagon.
Una bevanda fatta in casa con lieviti e non so cosa che mi tormenterà durante tutto il mio soggiorno, ma non ne sono ancora consapevole. Bogdan mi propone di assaggiarlo ovviamente. Ha un gusto strano; e il mio fisico capisce che è un alcol cattivo mandandomi chiari segnali, ma in fondo tutto fa brodo. Vai col tango!
Beviamo e ci alluciniamo, mangiando pesci essiccati come fossero patatine.
Chiedo dov’è il bagno. Bogdan mi fa segno in giardino, in uno stambugio di legno consumato dal tempo. Vado. Apro la porta e non c’è altro che una panca con un buco, con affianco un rotolo di carta igienica riciclata senza anima. Mi libero dal Samagon con una bella pisciata, ma il rumore dell’impatto del getto mi suona strano. Mi affaccio nel buco e vedo che non c’è né sifone né scarico, solo un semplice secchio pieno di merda, come te che stai leggendo.
Baba Marta funge da sciacquone svuotando il secchio sul letamaio una volta pieno, che concimerà il grano per il pane, che verrà ricacato l’anno dopo a impatto zero.
Gli ambientalisti non hanno capito un cazzo! Le rivoluzioni si fanno in silenzio.
Andiamo al mercato in cerca di carne da affumicare.
Guardando dal finestrino dell’auto, la moltitudine di tabelloni pubblicitari che si sovrappongono l’uno sull’altro mi dànno l’impressione di stare in Asia in qualche viuzza thailandese. Tra la folla del suq ci sono persone con dei malloppi di danaro nei borselli che ti cambiano euro e dollari in grivnia a tassi convenienti, ovviamente in nero. Si vedono le sagome dei calci di pistola sotto le magliette. E lo capisco, in un posto dove vendono mele marce e ammuffite a poco prezzo per chi vuole permettersi un lusso… Sapendo che per il cambio bisogna dividere l’euro per dieci grivnia e che una grivnia è ancora banconota, mi chiedo quanto valga allora la moneta da un centesimo. Il nulla!
Mentre discuto di questo in dialetto con il mio amico Denny che parla più napoletano di me, sento una voce da dietro che rimpicciolisce il mondo:
«Guagliù, e ró ne site?»
«Caserta, e vuje?»
«Alvignano.»
«E che state a fà ccà?»
«Niente, m’agg pigliat’ a n’ucraina e ccà e agg’ passat o’ guaio pur’io.»
«Ce verimm’ a Caserta!»
«Tante belle cosce.»
Il campano è come l’alcol, lo trovi dappertutto.
Torniamo a casa a bere fiumi di Samagon con i contadini scavapatate che smettono di lavorare almeno per oggi. La vedo nera. Anche perché domani vorrei andare dal mio amico Nazar che si trova a Leopoli.
Come si dice “salute” da voi?
Sono ancora nel letto stordito dal Samagon quando sento la voce di Bogdan che pronuncia il mio nome parlando con la madre.
Cosa vuole da me?
«Roman!» Bogdan mi fa segno di andare in cucina, in mano ha un litro di birra alla spina preso alla bottega per la colazione, e il suo sorriso scintillante a ventiquattro carati.
Attraverso il villaggio in cerca della fermata dell’autobus. Meglio lasciare la macchina qui.
Gli abitanti mi salutano.
«Ciao Roman!»
«Priviet.»
Arrivo in stazione, scendo dal catorcio e faccio il biglietto per Lviv ossia Leopoli.
Il treno arriva, entro nel carro bestiame.
Credo ci sia gente qui sopra che viaggia da giorni, infatti qualcuno è addirittura in mutande. Mi accomodo nel primo sedile di legno che trovo. Una signora a piedi nudi ci sale sopra per arrampicarsi sulla cuccetta. Mi incanto guardando il paesaggio. Distese di terra a perdita d’occhio, e stormi di corvi che svolazzano tra i nidi di cicogna posti sui pali della corrente abbandonati. Mica come da noi, che siamo abituati a sfruttare ogni centimetro quadrato. Il convoglio avanza facendosi spazio nel deserto come un rompighiaccio in una banchisa.
Alla stazione di Leopoli c’è il mio amico Nazar e il fratello Pavlo, pronti ad accogliermi. Mi chiedono notizie dei nostri amici di bicchiere di Caserta mentre ci dirigiamo in centro.
La maestosità delle chiese ortodosse attira le mie pupille mentre assaggio un caffè alcolico appena uscito dalle fiamme.
Quei pochi minuti da turista che mi concedo attirano la milizia che mi infila un mitra nello stomaco. Sarebbe stato più educato puntarmi una pistola in faccia, ma di certo non glielo dico. Le guardie sono come le puttane, le trovi dappertutto.
Mi chiedono i documenti, caccio il mio passaporto franco-misogallista e mi lasciano stare. Perché in questa città il nemico sono i russi, e io della Russia ho solo l’immensità. Puoi dirlo forte, Johnny!
«Però io adesso ho avuto paura e che cazzo! Qua ci vuole una birra eh… stavano sparando al mio caffè nello stomaco, per una volta che ne bevo uno!»
Una statua di bronzo mi attira nel primo bar che incontriamo.
È la scultura di Masoch, il filosofo del masochismo, ma noi che ne sapevamo. Ci sediamo in questo bar decorato da catene, cazzi vari e tacchi a spillo.
Il mio amico chiama la cameriera che risponde: «Io qui sono la padrona!».
«E a noi che ce ne fotte?»
Ci porta le nostre pinte.
Mentre sto bevendo mi arriva una frustata dietro la schiena che mi paralizza per un attimo.
«Nda chella fess’ e mammete! Sta puttan’ i ‘mmerd!» (chi vuol capire capisca).
Urlo dolorosamente, mentre me ne infligge altre. Il mio amico si presta al gioco della padrona masochista facendosi frustare ventotto volte, il numero dei suoi anni.
«Ti apro la testa con un lucchetto appeso alla catena, te la faccio vedere io la perversione.»
Usciamo dal bar per recarci nel rione di Nazar dove rimarrò qualche giorno. Il posto si chiama Novyj Rozdil, e per andarci bisogna prendere una marshrutka, che non è nient’altro che un taxi-furgone.
Siamo quasi arrivati ma la marshrutka si ferma, la strada è troppo dissestata, bisogna proseguire a piedi per poi arrivare in questo ghetto di case popolari sovietiche.
Blocchi di cemento con infissi arrugginiti e verande a pezzi. Lo stesso grigiore in cui sono cresciuto. Tra il bene e il male. Il bianco e il nero. Intorno ai palazzi vedo la tossicità dell’alcol sui volti degli zombie, quello industriale a poco prezzo, che rende pazzi.
Compriamo vodka, birre, cetrioli e uova di quaglia in un negozietto, per la serata. Al calar del sole non si vede più niente fuori, non c’è illuminazione, la gente si fa strada con la luce del telefono. Siamo lucciole nella notte.
In casa iniziamo a banchettare con gli amici di Nazar che ci raggiungono. Nazar ha un po’ d’erba, allora inizia a tagliare bottiglie di plastica vuote per fabbricarsi un bong gravitazionale.
Simpaticamente chiedo se conoscono qualche donna disposta a farci compagnia e uno di loro chiama una ragazza affetta da sindrome di Down vantandomi le sue doti sessuali. Intristito dalla situazione, la mando via ma lei non se ne va, se non le danno prima una birra. Se ne va. Il sole torna.
Mi sveglio tardi, mi alzo stonato e mi accendo una sigaretta affacciandomi dalla veranda. Giù c’è gente che mi guarda e mendica birre; gliene butto tre. Non mi cacano più. Lancio il mozzicone nella stessa direzione.
Nazar mi annuncia che stasera si va in giro a fare baldoria. Vabbè.
Ci troviamo all’entrata di un disco-pub non lontano dalle case popolari.
Prima di entrare mi mette in guardia: «Mi raccomando, non fare sguardo sbagliato, movimento sbagliato o parola sbagliata».
Meno male che dovevamo fare baldoria, penso.
C...