«Per una volta, sarebbe davvero bello che tutti ci accorgessimo che siamo stati straordinari.» Il 4 giugno, a tempesta momentaneamente passata, durante una delle decine di conferenze stampa – più che altro dei comizietti, vista la risibile percentuale di contraddittorio a fronte della vastità dei sermoni inflitti agli spettatori – l’ego di Domenico Arcuri prende definitivamente il sopravvento sulla ragione, spingendolo sul crinale di un immotivato autoelogio. «Possiamo dircelo che siamo stati straordinari?»
Il Paese ammutolisce. Il silenzio nazionale si fa corale risposta. E allo stesso tempo, nello sguardo severo dei pochi presenti nella stanza, si legge chiaramente il non detto: «No, signor commissario. Non possiamo». Delle due, l’una: o Arcuri è stato colto da un improvviso attacco di egomania, oppure deve essere successo qualcosa che lo ha portato a un disallineamento radicale dalla realtà e dalla sua percezione.
Dunque, vediamo. Avevamo lasciato il nostro boiardo nell’agosto del 2019 alla periferia di Foggia.1 Accanto a Giuseppe Conte aveva annunciato uno tsunami di milioni in arrivo (ricordate il Coefficiente Arcuri?) sul malandato territorio della Capitanata. Il presidente del Consiglio aveva così potuto posare la prima pietra del suo futuro edificio elettorale, mentre l’amministratore delegato di Invitalia aveva acceso un’importante linea di credito con l’avvocato del popolo. In quei giorni in cui il destino di entrambi sembrava precario e scritto a matita – Conte lontano da Palazzo Chigi, Arcuri in scadenza di mandato – la manovra aveva le sembianze di una scommessa o poco più. Invece, a causa del virus, si è rivelata un colpo di genio.
Dopo quella trasferta alla Capitanata, Arcuri si inabissa, si tiene lontano dai riflettori, facendo perdere le sue tracce nella fitta trama carsica che a Roma scorre al di sotto di tutto e collega con insospettabile discrezione terrazze con il buffet e Parlamento, circoli sportivi e palazzi del potere, salotti televisivi e stadio Olimpico (tribuna Monte Mario). Per tutto l’autunno il suo nome rimbalza sui taccuini dei giornalisti sotto il capitolo rovente delle nomine, costantemente a un passo dal vestire l’ambita casacca di Leonardo (ex Finmeccanica), nel ruolo di amministratore delegato, al tempo occupato dal banchiere Alessandro Profumo. Sarebbe per lui una posizione di potere assoluto, un discreto salto in alto che stupisce solo gli smemorati che hanno dimenticato la storia degli investimenti alla Capitanata: sui suddetti taccuini, infatti, a fianco al nome di Arcuri è scritto, tra parentesi, quello di Conte. A indicare, se non proprio un’appartenenza o una cordata, almeno la «provenienza» di quell’indicazione.
A questo sta lavorando fattivamente Arcuri, nei giorni in cui dalla Cina il Covid-19 si imbarca su un volo di linea per l’Europa e, «a bordo» di una qualche persona ignara, arriva in Italia. Ancora il 5 marzo, alla terza settimana di panico da contagio, l’amministratore delegato di Invitalia e il presidente del Consiglio si ritrovano per presentare in pompa magna l’avvio dei lavori alla Capitanata (il video è pubblicato sul canale YouTube dell’ufficio stampa di Invitalia).2 Il quotidiano bollettino emesso dal ministero della Salute parla di 148 morti e 3296 persone trovate positive al Covid-test, ma il manager Arcuri pare assai lontano da questa partita. E invece a Roma si mette in moto un complicato meccanismo che di lì a una settimana lo porterà al centro del campo. Dove però c’è già un commissario straordinario per l’emergenza: Angelo Borrelli, il capo della Protezione civile.
Se siamo al punto di commissariare il commissario, qualcosa di grosso deve essere andato storto.
Occorre fare un piccolo passo indietro, per capire perché l’Italia si è trovata all’improvviso con due commissari straordinari, e andare alla sera del 31 gennaio, nella Sala Situazione Italia (la stanza dei bottoni della Protezione civile) dove, come racconta «la Repubblica», Conte battezza Borrelli «responsabile unico per l’emergenza».3 Quella sera, Borrelli, confiderà ai presenti, è sopraffatto da un improvviso e sgradevolissimo senso di inadeguatezza. In qualche modo figlio del suo carattere, dell’assoluta sincerità e severità con cui è abituato a misurare se stesso.
Non sa niente di coronavirus. Ciò che è peggio, è consapevole che il suo dipartimento – 1086 assunti – non è specializzato in materie quali posti letto, terapie intensive negli ospedali e dispositivi di protezione individuale. La priorità è rimediare in fretta quante più mascherine chirurgiche e le Ffp2 con filtro per i medici si possano trovare. Sì, ma dove? E come?
Borrelli, che dal 2017 dirige la Protezione civile, non è un medico, a differenza del suo ingombrante predecessore Guido Bertolaso. Secondo la descrizione dei giornalisti «è un grigio civil servant di cinquantacinque anni, per giunta senza alcuna dimestichezza con la comunicazione – fondamentale in ogni emergenza – o propensione naturale alla leadership. Non è un maschio alfa, insomma. E sa che non sarà il golf in lana blu, che i capi dipartimento vestono di fronte al Paese in passaggi drammatici, a trasformarlo in ciò che non è».4
Borrelli è un revisore dei conti, un uomo mite, nato in provincia di Latina (comune di Santi Cosma e Damiano) con una carriera trascorsa a navigare tra le scartoffie dell’amministrazione pubblica: gli uffici di finanza, bilancio e risorse umane della presidenza del Consiglio. E poi, appunto, la Protezione civile, «dove, per sei anni, ha trattato commesse milionarie senza che nessuno potesse sollevare anche un minimo rilievo: acquisti di tende, roulotte. Requisizioni di alberghi, aree pubbliche».5
Di fronte alla pesante investitura voluta dal premier, Borrelli non sa come reagire. Accenna un sorriso di circostanza e accetta, non può fare altro. La nazione chiama. Quando esce dalla Sala Situazione Italia, al piano meno uno dell’edificio di via Vitorchiano – lo stesso da cui nei giorni a seguire saranno trasmesse le conferenze stampa delle 18 – viene avvicinato da uno dei suoi principali collaboratori, il direttore operativo: «È vero che tocca a noi?». Borrelli allarga le braccia: «Sì. Prendiamolo come un segno di fiducia». Gli interlocutori attorno non sembrano convinti: «Siamo stati fino a ieri lo specchietto per le allodole della politica. Vedrai, Angelo, che ora diventeremo il punching ball degli italiani».6
La profezia si avvera nel giro di pochissimo, non appena il Paese si accorge di essere nudo e disarmato. Quando capisce, cioè, che le uniche armi contro il dilagare del Covid-19 sono le mascherine e che il governo non è in grado di trovarne con la rapidità necessaria. L’Italia è stato il primo Stato al mondo, dopo la Cina, a subire gli effetti della pandemia. Questo ha comportato mille difficoltà, ma in teoria ha offerto una posizione di vantaggio rispetto agli altri sul mercato internazionale delle forniture. Nei giorni cruciali a cavallo tra fine febbraio e inizio marzo, le mascherine e gli altri Dpi si trovano ancora in abbondanza e a prezzi accettabili.
Eppure l’Italia fa fatica a procurarsene. Il capo della Protezione civile riadatta gli uffici amministrativi del bilancio e dei contratti in unità di reperimento dei dispositivi di protezione. Senza successo.
Il 22 febbraio Borrelli firma l’ordinanza per l’acquisto di mascherine in deroga alle regole, con possibilità di anticipi del 100 per cento. Ci si affida ai mediatori, purché selezionati nelle white list dei soggetti affidabili stilate dalle prefetture: è il via libera per presentarsi alle aziende con le valigette piene di contanti in nome della salvezza dell’Italia. Ma niente, il risultato è ancora insufficiente. Il virus «va più veloce di noi».
Il 25 febbraio, l’incontro con le imprese produttrici collegate a Confindustria non dà gli esiti sperati: la Protezione civile compra 44.000 mascherine Ffp2 e Ffp37 quando il fabbisogno complessivo stimato è di 2,5 milioni al mese. (Il 3 marzo salirà a 35,5 milioni, l’11 marzo a 106,5 milioni, il 16 marzo a 198 milioni.) Il 26 febbraio, ventisei giorni dopo la dichiarazione d’emergenza, Borrelli fa attivare il meccanismo europeo di Protezione civile per il reperimento dei dispositivi individuali. Nessuno risponde.
Il bollettino quotidiano di morti e contagiati, in rialzo, pur con tutte le perplessità di alcuni epidemiologi sulla correttezza di quei dati8 è la promessa statistica di una futura ecatombe. Le corsie degli ospedali si stanno trasformando in un incubatore del virus, un generatore di focolai. Ed è altrettanto chiaro che la Protezione civile sta fallendo: l’incapacità di trovare materiale si è sommata all’ingenuità degli uffici. Il dipartimento ha comprato poco e male, ha chiuso contratti esigui e farraginosi, si è esposto a truffe. Clamorose, in questo senso, sono le vicende che coinvolgono l’imprenditrice Irene Pivetti9 e il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti.10
Un vortice di errori e inefficienze di fronte al quale la politica non può che reagire, chiedendo a Conte di staccare la spina a una gestione così deludente e di cambiare la guida. A insistere già nei primi giorni di marzo è il ministro Dario Franceschini del Partito Democratico. Conte, pressato anche da Roberto Speranza, cede, ma a patto che sia lui stesso a scegliere il nuovo pilota. Deve essere un uomo di sua stretta fiducia.
E chi altri se non l’amico Arcuri?
Quando l’annuncio viene fatto in diretta Facebook la sera dell’11 marzo (la nomina formale è di poco successiva),11 lo conoscono solo pochi addetti ai lavori. Alcuni giorni più tardi Domenico Arcuri è già una sorta di celebrità nazionale.
Il debutto è esplosivo, e televisivo. Il (secondo) commissario si presenta davanti alle telecamere del Tg1 e promette: «Inonderemo l’Italia di tutto ciò che serve». In un altro salotto tv, a DiMartedì, è meno pop e più analitico preannunciando una stagione di «economia di guerra»: «Le epidemie» dice «sono come le guerre. Tutti i Paesi devono attrezzare prima possibile un’industria nazionale. Come nelle guerre dobbiamo produrre prima possibile ciò che ci serve: stiamo riconvertendo i sistemi produttivi, importando industrie che ora sono localizzate altrove». Il ragionamento è sensato, peccato che si scontri con l’urgenza. Per creare un’industria nazionale di Dpi ci vogliono mesi, se non anni. Può essere utile per la prossima epidemia, o, a essere bravi, per la prossima ondata. Ma adesso no, e adesso si muore.
Contro questa obiezione, Arcuri sfodera fin da subito la propria arma segreta: il famigerato Coefficiente. A dispetto dell’industria nazionale che non c’è e della guerra commerciale ora sì in atto, perché il virus ha raggiunto decine di altri Paesi nel mondo, i numeri, per qualche ignoto motivo, sono comunque dalla sua parte: «Abbiamo già distribuito molti milioni di mascherine e acquistato 4950 respiratori con l’obiettivo di raddoppiare i posti in terapia intensiva».
Questa dichiarazione chiave rilasciata al Tg1 segna la separazione definitiva tra il commissario e la realtà. Di qui in avanti – e almeno fino a maggio inoltrato – tutti i conti almanaccati da Arcuri avranno come caratteristica quella di tornare solo a lui e come conseguenza quella di spiazzare ogni interlocutore, disarmandolo. Dribbling aritmetici. Come del resto gli fa notare su Facebook, con la sua ben nota avversione per i giri di parole, il governatore della Campania, Vincenzo De Luca: «Avevo parlato con Arcuri e ricevuto un impegno perché venissero inviati in Campania 225 ventilatori polmonari e 621 caschi. A oggi sono arrivati 5 ventilatori polmonari».
Il 22 marzo le mascherine in Italia non le ha quasi nessuno, i medici in corsia sono disperati, il personale di interi reparti le condivide, poi a sera le lava e le mette ad asciugare sul termosifone, per non parlare della società civile segregata in casa e completamente sguarnita: su YouTube spopolano i tutorial su come farsele da soli utilizzando calzini o salviette umidificate. Il commissario Arcuri procede dritto per la sua strada e rilancia, come in una disperata partita a poker dove ormai non si disdegna più neanche il bluff. «Da lunedì 30 marzo o al più tardi da martedì tutte le regioni italiane avranno le mascherine che servono ai medici, agli operatori sanitari, ai malati. A partire dalla settimana successiva contiamo di poter dare a tutti gli italiani che ne hanno bisogno un dispositivo di protezione individuale.» La promessa viene irrobustita ricorrendo al Coefficiente Arcuri. «Fino a ora veniva distribuito un milione di mascherine. Ieri ne abbiamo distribuiti 3 milioni, nella prossima settimana contiamo di riuscire a incrementare questa dotazione.» Anche con i ventilatori procediamo alla grande: «Oggi distribuiremo 150 ventilatori: in un solo giorno il 30 per cento di quanti ne sono stati distribuiti finora. Dalla prossima settimana ne distribuiremo quantità ancora più importanti. Noi siamo in guerra, io devo trovare le munizioni».
Il 24 marzo il divario tra i numeri sciorinati dal commissario e la realtà si allarga ancora un po’. Mentre medici e infermieri continuano a lanciare appelli disperati, Arcuri esulta: «Negli ultimi giorni è cresciuta notevolmente anche la disponibilità di mascherine. Ieri ne sono state distribuite 4,9 milioni, di cui 1,5 milioni di tipo Ffp2 e Ffp3 per il personale sanitario. Siamo passati da 370.000 pezzi al giorno a circa a un milione e 337.000 al giorno. Altri milioni di mascherine arriveranno dalla Cina».12 Non solo. Nel giro di una settimana aggiunge «questo commissario» è a un passo dal risolvere in via definitiva il problema, grazie a un consorzio di imprese del Sistema Moda Italia: «A regime» annuncia «produrrà 50 milioni di mascherine al mese. A noi ne servono il doppio ma contiamo che si possano aggiungere al consorzio altre imprese, fino a diventare autosufficienti». E dunque, conclude, «essendo assicurata la fornitura dalla Cina per i prossimi due mesi, se in questo arco temporale riusciremo ad attrezzare un’offerta sufficiente, quello è il termine che dobbiamo guardare».
Peccato però che tutto questo bendidio, in giro, non si veda. Da quando si è insediato, si lamentano le Regioni, Arcuri non ha consegnato quanto promesso. Gli unici dispositivi reperibili con facilità sono quelli che De Luca chiama le mascherine «del coniglietto Bunny» e che i sindacati definiscono «carta igienica». Pezzi di stoffa privi di potere filtrante. Nei reparti servirebbero invece le Ffp2 o Ffp3 o, almeno, le chirurgiche. A trovarle.
Siamo a primavera inoltrata, ormai. Mentre Palazzo Chigi e Regioni si rimpallano accuse per la mancanza di approvvigionamenti, i giornali cominciano a pubblicare storie che documentano il fallimento della Protezione civile prima e del commissariamento poi: sono i resoconti di cittadini italiani in rapporti commerciali con la Cina che hanno provato a rimboccarsi le maniche e a procurare quante più mascherine possibile. I loro tentativi si sono però scontrati contro la rocciosa resistenza di Borrelli e Arcuri e dei loro funzionari che – per paura di essere truffati o di finire, come i loro predecessori, coinvolti in qualche inchiesta giudiziaria – inizialmente hanno aspettato il bando della Consip e in seguito, dopo il fallimento della gara pubblica (per mancanza di adesioni e la poca trasparenza degli sparuti partecipanti), hanno scelto di procedere solo attraverso grandi fornitori, rimbalzando contro il muro del mercato internazionale che a metà marzo è letteralmente impazzito.
Una strategia inconcludente e confusionaria che a molti appare sin da subito inspiegabile visto che lo Stato – e il commissario con i suoi poteri straordinari – dispone di t...