Il peso dell'essere
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Il peso dell'essere

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Il peso dell'essere

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Informazioni sul libro

Questo libro l'ho scritto per te.
Per te che stai attraversando un periodo buio.
Per te che rimani sveglia a guardare il soffitto, a pensare tante, troppe cose, finché non inizia a farti male la testa. Che ti alzi ogni giorno con un sorriso
più triste di quello prima. Ma, nonostante questo, ti alzi, affronti la giornata, resisti.
Per te che ti senti inferiore, inadeguata. Che dai il meglio, e il tuo il meglio non è mai abbastanza.
Per te che ti insultano perché non ti capiscono.
Questo libro l'ho scritto perché tu sappia che non sarà sempre così. Perché il tempo passa e le cose cambiano e tu sei abbastanza forte per superare tutte queste sfide. Il Peso dell'Essere è la storia di Sophie. Sophie che odia il suo corpo e che, a un certo punto, della vita vede solo le ombre. Che non vuole più mangiare e prova sollievo solo liberando quel dolore che si porta dentro attraverso le ferite che si autoinfligge. E che anche quando incontra Alex, l'unico che sembra non aver paura del buio che ha dentro, sceglie di abbandonarsi alle tenebre risvegliandosi poi in un letto d'ospedale. E proprio da lì inizia la sua rinascita. Un viaggio lungo centosei giorni in compagnia di ragazzi che come lei sono rimasti schiacciati sotto il peso dell'esistenza. Una strada fatta di alti e bassi, dolore e solidarietà, medici, infermieri e amicizie sincere e soprattutto coraggio, quel coraggio che porterà Sophie a non avere più paura di vivere.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788831802291

SECONDA PARTE

13

ANASTASIA

Anastasia era ancora con me, dentro di me. Ci convivevo da così tanto che ormai mi ci ero pure affezionata. In fondo era lei che mi aveva reso quel che ero, che incanalava ogni forza del mio corpo e della mente. Era lei la vocina che risuonava nella mia testa e mi diceva cosa fare, era lei la mia determinazione, quel demone che mi possedeva anche ora che non avevo quasi la forza di respirare.
Ormai ero sveglia da qualche ora, e la flebo che avevo attaccata al braccio continuava a fornirmi da bere. Concentrandomi, percepivo i liquidi depositarsi nei capillari. Percepivo la mia impotenza, la mia dipendenza, il mio essere ancora una volta prigioniera della vita. E mentre ero lì con gli occhi lividi, le occhiaie così profonde che risaltavano sul viso come tulipani in un prato verde, così debole che non riuscivo neppure ad accavallare le gambe che spuntavano sotto il lenzuolo, Anastasia era l’unica voce che sentivo. Mentre ero lì che contavo le ore, i minuti, i secondi e tutti quei numeri mi rimbalzavano in testa tra un pianto e l’altro, mentre ogni respiro era una corsa contro il tempo, Anastasia era la mia unica compagnia. E mi ricordava che il mondo là fuori faceva paura, che qualsiasi evento, una parola o anche solo uno sguardo, sbatteva contro la mia emotività ed era capace di distruggermi. Che solo la musica non mi aveva mai fatto del male perché la musica non sbatte contro le emozioni, ma al massimo le asseconda, le accompagna.
In realtà c’era un’altra presenza nella mia testa, Adele, la mia voce bianca, la voce che diceva «sì» invece di «no», «vivi» invece di «muori», «reagisci» invece di «subisci». Solo che non la ascoltavo da così tanto che all’inizio si era indebolita fino a diventare un sussurro, infine era scomparsa.
14

NEUROPSICHIATRIA

Passarono alcuni giorni da quando rividi la luce. Giorni lunghi, lenti, scanditi da visite ed esami, ai quali mi presentavo sempre scortata in sedia a rotelle.
Una mattina, con la luce del sole che filtrava dalla finestra e si rifletteva in quella arida e fredda del neon, un’infermiera bussò piano alla porta della stanza e si sedette ai piedi del letto. Si chiamava Stefania ed era l’unica di cui ricordavo il nome, perché era la mia preferita tra tutte quelle che giravano per il reparto. Aveva un tono di voce gentile ed era sempre premurosa, a volte mi faceva usare il suo tablet per collegarmi a Netflix, altre convinceva i dottori a staccarmi la flebo per farmi fare qualche passo in corridoio. Nella mia testa ero convinta di piacerle e spesso dimenticavo che starmi accanto fosse solo il suo lavoro, fatto sta che fino a quel momento era la cosa più simile a un’amica che avessi trovato lì dentro.
Quel giorno mi sorrise e come sempre, prima di tutto, mi chiese come stavo, dopodiché prese a elencarmi tutte le conseguenze legate al non mangiare: la mancanza di energia, il corpo che si affatica più velocemente, le mestruazioni sballate, l’apatia, l’isolamento sociale… Roba che ovviamente conoscevo alla perfezione perché le avevo vissute più o meno tutte sulla mia pelle.
Poi mi spiegò come lavarmi nonostante la bendatura attorno ai polsi e mi rassicurò: «Appena possibile ti sposteremo in un altro reparto, così ti annoierai di meno e potrai continuare a seguire il tuo programma scolastico».
Annoiarmi di meno? Seguire il programma scolastico? Credeva davvero che me ne importasse qualcosa?
In quel momento la mia unica preoccupazione era che tutto passasse veloce, che la seconda occasione arrivasse presto, perché allora non avrei sbagliato, allora non ce l’avrebbero fatta a salvarmi.
«Dimmi la verità» chiesi bruscamente, «quanto mi terrete in questo cazzo di posto?»
«Dipende da te, Sophie» rispose senza scomporsi, mentre si alzava dal letto. «Appena avrai recuperato un po’ di forze e le ferite saranno guarite ti sposteremo in Neuropsichiatria infantile, e una volta lì saranno i dottori a decidere quando sarai pronta per tornare alla tua vita.»
Avevo capito bene? Neuropsichiatria infantile? E poi… tornare alla mia vita? E chi mai l’avrebbe voluto?
15

BENVENUTA IN PRIGIONE

Giorno 1
Dopo aver raccolto la mia roba in una borsa di tessuto e aver messo definitivamente da parte la carrozzina ci infilammo nel corridoio che portava all’ascensore. Le persone che incontravo lungo il percorso avevano un’espressione spenta, e gli altri pazienti mi guardavano con un’aria di compassione, come ad augurarmi buon viaggio.
Quando, raggiunto il terzo piano, le porte dell’ascensore si aprirono, mi ritrovai di fronte a una robusta porta blu che riportava le seguenti iniziali: NPI.
Il mio cuore batteva all’impazzata.
L’infermiera, una donna sulla quarantina, con l’accento dell’Est e un modo di fare brusco e sbrigativo, mi lanciò uno sguardo gelido poi digitò un codice sul tastierino fissato sulla parete, e la porta, come per magia, si sbloccò. Prima il piede destro, poi il sinistro: spaventata, riuscii a fare due passi e, superata la soglia, mi ritrovai in un lungo corridoio azzurro sbiadito sul quale si affacciavano tante porte. Ma prima che potessi proseguire un dottore alto e calvo come una palla da biliardo mi venne incontro, mostrandomi uno dei sorrisi più grandi che avessi mai visto, che ovviamente non ricambiai.
«Ciao, Sophie, sono Marco.» Mi allungò la mano. «Seguimi, ti porto nella tua stanza, così potrai cominciare a sistemare le tue cose.»
Camminava con un passo deciso, col camice bianco che svolazzava sulle spalle come un mantello: peccato avessi smesso di credere nei supereroi da un bel po’…
«Ecco, ci siamo, la numero 4» disse precedendomi in una camera anonima, con le pareti bianche, tre letti e, al centro, un tavolino pieno di pennarelli colorati. Accanto a ogni letto c’era un comodino, e due erano occupati da quaderni, peluche e bottigliette d’acqua.
«Questo è il tuo letto» proseguì, indicandomi quello centrale, «mentre quelli sono di Karla e Anna, che conoscerai tra poco.»
Si muoveva come se fossimo a casa sua, come se fossi un’ospite e volesse farmi sentire a mio agio. Come se fosse normale che mi trovassi lì, in una clinica, a dividere le mie notti con due sconosciute, anzi: come se fosse bello, divertente, una specie di avventura.
Forse si rese conto del mio scetticismo, forse seguiva semplicemente un copione, fatto sta che proseguì in tono rassicurante: «So che non è facile e all’inizio ti sembrerà tutto strano, eppure sono sicuro che ti abituerai e finirai per starci bene. L’unica cosa che ti chiediamo è di seguire alcune regole. Ad esempio, in questo reparto non è consentito usare telefoni, tablet e via dicendo, se non nell’orario delle visite. Inoltre dovremo prendere in consegna ogni oggetto con cui potresti farti del male. Gli asciugamani te li forniremo noi, ma non potrai farti la doccia senza l’assistenza di qualcuno, mentre le porte dei bagni verranno chiuse per mezz’ora dopo i pasti perché alcuni pazienti soffrono di bulimia e…».
Ne parlava così, quasi con leggerezza, anche se alle mie orecchie ciò che diceva suonava come: “Benvenuta in prigione”.
«Domani conoscerai la dottoressa che ti seguirà nel tuo percorso riabilitativo e comincerai a seguire le attività di gruppo come arte, musica, giornalismo e yoga, mentre fra qualche giorno ti reinseriremo nella didattica, grazie alla nostra “scuola ospedaliera”. So che sono un sacco di informazioni, ma non preoccuparti: per qualsiasi cosa puoi rivolgerti a noi.»
Ero rimasta in silenzio per tutto il tempo, seduta sul letto che mi avevano assegnato, su un materasso duro come il legno che se m’avessero offerto una pietra l’avrei preferita. Ma, alla fine, non mi trattenni. Una lacrima mi rigò la guancia e la gola si attorcigliò in un nodo che stringeva la sua morsa. Il cuore continuò ad accelerare finché arrivò il punto in cui smisi di ragionare. E mi scagliai contro il camice di quel dottore, sferrando un pugno, poi un altro e un altro ancora. Le mie urla richiamarono l’attenzione dello staff e mentre ero lì che mi dimenavo, due infermieri irruppero nella stanza e, dopo avermi bloccato per i polsi, si fecero sotto con una siringa. Appena l’ago perforò la pelle, chiusi gli occhi e mi calmai come un sole caldo dopo la tempesta.
16

SPALLE AL MURO

Giorno 1
In clinica non sopravvivi stando da solo. Convivere con persone nella merda, arrabbiate, tristi o ferite come te può essere molto difficile. Eppure è l’unico modo per restare in piedi, per non collassare in te stesso.
La prima attività di gruppo alla quale ho partecipato, che coincide con la prima volta che ho incontrato i miei nuovi compagni, è stata musica.
Ero lì in camera che sistemavo le mie cose dentro l’armadio, avevo giusto finito di riempire i cassetti con la biancheria, quando un infermiere mi chiamò, invitandomi a seguirlo fino a una piccola stanza in fondo al corridoio. Ero confusa, non me l’aspettavo e soprattutto non avevo idea di cosa mi attendesse. La musica, per me, era sempre stata importante, era il porto dove riparare quando il mare dei miei pensieri era in tempesta, ma… una lezione di musica? Di cosa si trattava? Avrei dovuto cantare? Suonare? Leggere uno spartito? Soprattutto, chi avrei trovato? L’unica cosa di cui ero certa era che non avevo la minima intenzione di condividere la mia musica: sono sempre stata gelosa delle canzoni che ascolto, è come se fossero la colonna sonora della mia vita, come se condividessi con loro i momenti più intimi e preziosi, e vivevo col timore che qualcuno potesse vederli, potesse sentire le mie stesse cose.
Scortata dall’infermiere, attraversai il reparto, raggiunsi l’aula e timidamente entrai. Sulle pareti c’erano disegni infantili, e in generale l’arredamento era simile a quello di una scuola materna. Pur non essendo molto grande era piuttosto affollata. Una decina di ragazzi erano seduti in cerchio e in mezzo c’era un uomo con la barba e una piccola tastiera.
Avevo ancora un piede fuori dalla porta e mi sentivo già di troppo.
Tra tutti notai una ragazzina minuta, così esile da sembrare invisibile. Due trecce mogano le cadevano sulle spalle e indossava un lungo cardigan grigiastro e delle pantofole rosa anonime. L’unico posto libero era proprio vicino a lei quindi, camminando con gli occhi di tutti su di me e i miei fissi sui piedi, lo raggiunsi e mi sedetti al suo fianco. Prima che l’educatore potesse presentarmi, una ragazza con un trucco pesante e diversi piercing sul viso chiese: «Quindi tu sei il nuovo pesciolino dell’acquario?».
Rimasi impassibile, anche se il tono schietto non mi dispiacque per niente: meglio quello che la falsità, pensai.
«Sì, Karla, lei è Sophie» intervenne l’educatore, «ed è la tua nuova compagna di stanza. E visto che abbiamo cominciato con le presentazioni» continuò riferendosi alla ragazzina seduta al mio fianco, che accennò un mezzo sorriso imbarazzato, «lei è Anna, l’altra tua compagna.»
17

L’OROLOGIO

Giorno 16
Che sensazione strana vivere, assaporare la vita piano piano, soffio dopo soffio, fare attenzione a ogni singolo respiro, a ogni singola emozione. Che sensazione strana e straziante.
Allora non sapevo quanti giorni mi restassero da trascorrere lì dentro, ma sapevo per certo che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto mi pesava. Che lì dentro non sarebbe potuto essere altrimenti, che lì dentro non c’era scampo.
Anastasia era ancora con me, dentro di me. Non compariva più attraverso lo specchio, ma la sentivo come un’eco leggera, quasi impercettibile che affiorava tra un pensiero e l’altro, come se si divertisse a oscillare tra la testa e il cuore, a prendersi gioco di loro, a fargli male. Eppure più la sentivo lontana, più flebile diventava, più avevo paura. E avere paura fa schifo.
Ci sono stati periodi in cui sognavo che si azzittisse per sempre. Che mi dicesse: «Sophie, ti ho voluto bene, ma adesso ho terminato il mio lavoro». Periodi in cui sognavo una vita fatta di silenzi, solo io e il mondo, senza nessuno a dirmi cosa fare, come stare. Eppure, allora, ogni volta che avevo la sensazione che stesse succedendo, che se ne stesse andando per davvero avvertivo un brivido, come se si spalancasse una specie di abisso sotto i miei piedi, sotto di me che non sapevo, non avevo mai saputo e non avrei mai saputo volare.
A mano a mano cominciai ad ambientarmi, a conoscere quel mondo in cui ero rinchiusa. Ad esempio, imparai a calcolare il tempo pur non avendo un orologio. Le giornate erano tutte uguali: sveglia alle sette, doccia, colazione e lezione, dopo pranzo le visite e le varie attività. Il poco tempo libero lo trascorrevamo in camera, io scrivevo sul mio diario, disegnavo e chiacchieravo con Anna, con cui condividevo la passione per la musica indie e i gatti, mentre Karla se ne stava più per i fatti suoi, con le cuffie giganti sulle orecchie e la tecno sparata al massimo.
Non avendo un orologio a disposizione rischiavamo di diventare soldati che avrebbero eseguito ogni comando senza fiatare: non ci saremmo potuti lamentare della fame, del sonno, delle ore di studio perché senza tempo non avremmo avuto alcun appiglio.
Invece non solo imparai a calcolarlo, ma anche a sfruttare ogni momento a disposizione. Per dire: sapevo perfettamente quanti addominali potevo fare nell’intervallo in cui i medici andavano in pausa pranzo e arrivavano quelli del turno successivo. In quella manciata di minuti durante i quali il reparto si svuotava e nessuno controllava mi mettevo in camera, accanto al letto, e sotto gli occhi divertiti delle mie compagne, che li contavano ad alta voce, riuscivo a farne abbastanza da smaltire colazione e merenda. Oppure sapevo quanti saltelli potevo fare prima che si accorgessero di non aver chiuso il bagno dopo aver pranzato.
E poi, oltre al tempo, imparai a conoscere le persone che ci lavoravano. Non tanto il carattere, la persona in sé, che non mi interessava, quanto le sue abitudini.
Quando faceva sorveglianza durante la cena, che si teneva in sala mensa, con noi pazienti seduti a tavoli di quattro, ognuno col suo piatto pesato al milligrammo, Susi ritirava i vassoi partendo dal lato opposto al mio, lasciandomi il tempo per mettere in tasca le ultime fette di pane, che poi regalavo o gettavo nel primo bidone del corridoio.
Lucia seguiva sempre una sua routine: alle dician...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il peso dell’essere
  4. Prima parte
  5. Seconda parte
  6. Fine
  7. Ringraziamenti
  8. Copyright