La vita è un segno
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La vita è un segno

Storia di Hugo Pratt e delle sue avventure

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La vita è un segno

Storia di Hugo Pratt e delle sue avventure

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«Se voglio comprendere Hugo, devo sognarlo» dice Thierry Thomas lanciandosi nell'impresa di raccontare la vita di un maestro del fumetto, che per lui è stato un vero e proprio mentore. Prima di conoscere personalmente Pratt, Thomas ha incontrato - come tanti lettori in giro per il mondo - il suo antieroe per eccellenza: Corto Maltese.
Il marinaio, infatti, era sbarcato in Francia nel 1970, sulle pagine del settimanale per ragazzi «Pif Gadget», quando la spinta del maggio '68 stava ancora rivoluzionando la cultura ufficiale. Immaginate cosa può voler dire essere un adolescente e ritrovarsi per le mani un fumetto in cui il protagonista non è un cavaliere senza macchia e i suoi nemici hanno delle valide ragioni per detestarlo. Nel mondo di Corto, come in quello di Pratt, nessuno è escluso e tutto coesiste: azione e distacco, amore e voglia di sfuggire, utopia e pragmatismo.
Thomas segue le tracce del maestro usando l'evoluzione del suo segno grafico come una bussola per orientarsi: dall'infanzia veneziana alla parentesi argentina, dal ritorno in Italia all'avventura editoriale francese, dal successo internazionale alle infinite peregrinazioni nei luoghi e nelle culture di tutto il mondo. Il risultato è un saggio romantico, riccamente illustrato, nel quale i ricordi personali dell'autore e la vita di Pratt si legano magneticamente, senza soluzione di continuità.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788831801966
Argomento
Art

ITALIE

«È morto.» Sono queste le parole che mi sono detto, la mattina del 21 agosto 1995, quando ho aperto il giornale? No, senza dubbio. È solo dopo la sosta rituale ai tavoli del solito caffè sotto ai portici, mentre mi dirigo verso il mare attraverso il dedalo di viuzze della città vecchia, all’ombra di questi palazzi fatiscenti, dalle facciate scrostate, allungati come le fiancate leggermente dondolanti delle grandi navi, che comincio a pensarci: «Non c’è più».
Bevo il caffè in Place Garibaldi, a Nizza. Sulla prima pagina di «Libération», Corto Maltese. Tutti i quotidiani hanno fatto questa scelta: nessuna foto di Hugo, ma l’immagine del suo personaggio più famoso. È per questo che mi è difficile crederci? Gli eroi non muoiono, e non importa se è solo un cliché, perché è una verità che mi alleggerisce. Semplicemente spariscono, se ne vanno. Hugo se n'è andato, e ha lasciato dietro di sé solo quei segni leggeri che, nel fumetto, suggeriscono il movimento. Sta scritto, nero su bianco: «HUGO PRATT SE NE VA». Mi rifiuto di leggere, ma non posso evitare di essere leggermente contrariato: avrebbero potuto scegliere un’immagine dalla Ballata del mare salato o da Corte Sconta, quando il suo segno era all’apogeo… Ma hanno scelto questa vignetta da Tango: Corto, di cui si distinguono in controluce i contorni del berretto, il profilo dell’orecchio, la spallina e un bottone della giacca, si dilegua nella nebbia. Il fumo della sigaretta taglia il profilo all’altezza del collo. Questa voluta bianca, così chiara, attira la mia attenzione. Se «Libération» avesse riportato la citazione di uno scrittore, avrei pensato: «Solo lui poteva avere l’idea di rendere più vivace una frase un po’ noiosa grazie all’uso di quell’aggettivo». Amiamo un’opera come amiamo una persona, osservandola da vicino.
Mi concentro su quei pochi centimetri quadrati di carta. I rumori della città si affievoliscono.
Questo disegno contiene al contempo la violenza e l’amara rinuncia che impregnano Tango. Mi viene in mente la vignetta che la precede: la figura snella di Corto è resa con due tratti d’inchiostro che confluiscono a formare la giacca, in una macchia che termina con una gamba, un braccio incompleti. L’eroe sta lottando per restare se stesso, per restare una figura intera. «Che nebbia, non si vede più nulla!» si dice. Poi quella vignetta, in cui Corto prosegue il suo cammino, senza parole. Avrebbero dovuto pubblicarle entrambe, sarebbe stato il modo migliore per dare un’idea dell’arte di Hugo, del suo stile arioso. Più tardi, camminerò come Corto, rientrando per Rue Segurane, prima di passare davanti alla Montée Eberlé, che, ogni mattina, una bizzarra associazione mentale mi fa chiamare «Salita delle Sberle»?
Scrollo il giornale. Lo scrollo solo un po’: non c’è bisogno di esagerare per tenerlo dritto, i giornali, in questa fine di secolo, hanno un formato così ridotto! Ai tempi dei supplementi illustrati che videro la nascita del fumetto, i giornali sembravano voler rivaleggiare in dimensioni con le praterie del Far West. Dopo aver letto un episodio di Dream of the Rarebit Fiend di Winsor McCay (uno dei miei preferiti: al crepuscolo, un taxi avanza nel mare in modo che il suo passeggero possa salire a bordo di un transatlantico), avrei potuto addormentarmi avvolgendomi in quei fogli enormi e colorati. Accoccolato in un sonno odoroso di carta e d’inchiostro fresco, indifferente al frastuono delle prime automobili scoppiettanti, non avrei saputo nulla di quotidiani e necrologi. Ricordo quest’altra tavola della stessa serie, un vero incubo: un vecchio, che si regge al bastone, si ostina a volere attraversare una strada sterrata nonostante il traffico. Siamo all’inizio del XX secolo e, come i gatti, non sa niente o non vuole sapere niente del pericolo costituito da questi matti che corrono nelle loro terribili carrozze. A ogni tentativo una vettura lo investe, lui perde un pezzo, ritorna sul suo lato della strada e ci riprova, fino al completo annientamento. Finisce disperso in coriandoli nella polvere.
Osservo «Libération»; non si tratterà piuttosto di una vignetta di Favola di Venezia? No, la grazia dell’avventura veneziana è assente da quest’immagine. Subito mi vergogno di queste divagazioni, il pensiero che sto evitando s’insinua: Hugo non c’è più; continuo ad analizzare il disegno, e mi rifugio nell’immagine. Non era tanto per vantarsi che Hugo sosteneva di avere assimilato gli stili dei suoi maestri americani. Qui, come spesso in Tango, rende omaggio ai due Gould, Will e Chester, che non erano parenti. Will, autore di Red Barry, fumetto degli anni Trenta, e Chester, il creatore di Dick Tracy, una delle serie più popolari d’America, con quel suo lato «nero», quel segno piatto, quella rozza ingenuità e quella incredibile galleria di mostruosi cattivi. Ma che me ne faccio, adesso, di Dick Tracy, il poliziotto con la mascella squadrata? Vorrei non sapere più leggere. Riprendo a respirare regolarmente, le mie dita allentano la presa, il giornale si piega in rapporto al mio sguardo. Il rumore della piazza mi raggiunge, folata sonora che porta in sé il crescente calore di una giornata d’estate. Improvvisa, una straziante tristezza: Hugo, stamattina, non può più apprezzare il profumo dell’aria.
In questo istante la frase «Hugo se ne va» mi trafigge, e nella frazione di secondo che segue: «La mia giovinezza è finita».
Questa fine era cominciata due anni prima. Hugo era l’ultimo filo che mi legava alla mia adolescenza. Il 31 ottobre 1993, se n’era andato anche Federico Fellini. Il mio dolore era stato devastante, benché non inaspettato, essendo stato preparato da quel continuo alternarsi di angoscia e speranza che aveva caratterizzato la convalescenza del regista al Grand Hotel di Rimini, dopo l’ictus cerebrale di cui era stato vittima, e poi dalle atroci settimane della sua agonia al Policlinico di Roma. Ogni giorno compravo tutti i quotidiani italiani che riuscivo a trovare a Parigi. Una notte di quella fine d’ottobre 1993, ero in taxi; la notizia mi colpì proprio mentre la vettura si fermava davanti a casa mia, e mi accingevo a pagare la corsa: «Il regista italiano Federico Fellini ha ormai i giorni contati». All’inizio, quella stessa notte pensai: «Solo vent’anni fa il nome di Fellini era così famoso che nessun giornalista avrebbe precisato che si trattava di un regista. È passato di moda…». Poi, dimenticandomi d’un colpo del taxi e dei miei pensieri in fuga, sono rimasto immobile, sbalordito: Fellini stava morendo, forse era già morto. Alla radio davano altre notizie. La voce del tassista mi ha riportato alla realtà: «Dovrebbe scendere, signore». Ho aperto la portiera. Fuori, pioveva. Sono sicuro di aver pensato: «Cosa ci faccio qui?»
Pioveva, anche quella notte di novembre del 1971, ma nessuno se ne preoccupava. Di certo non io, che non avevo altro da fare che tenere gli occhi spalancati. Nei giardini di Cinecittà era stato praticato un grande scavo, per costruirci la scenografia di un cantiere della metropolitana appena avviato, assemblaggi di tubature di plastica gonfiate d’aria, per richiamare la lucentezza del metallo, e rotaie sulle quali circolavano carrelli carichi di operai con l’elmetto, che si muovevano come sonnambuli in partenza per un viaggio al centro della terra. Alcuni responsabili del cantiere erano raggruppati attorno a un falso sismografo, che avrebbe dovuto rilevare la presenza di vuoti nel sottosuolo. Una trivella, a forma di braccio o sesso meccanico giaceva a terra, come un animale preistorico. Fellini stava girando in esterna notturna la prima parte della sequenza degli affreschi di Roma. Gli avevo scritto una lettera alla quale avevo allegato dei disegni. La busta era piena da scoppiare. Suppongo che, anche se riceveva lettere da tutto il mondo, una lettera firmata da un ammiratore della mia età, per di più affetto da grafomania, non fosse molto frequente. Fatto sta che avevo ricevuto per posta la sua risposta: mi invitava a venire a vederlo lavorare. La sua lettera era piena di quel calore, di quella benevola curiosità che lui accordava con generosità al momento del primo contatto (in seguito, dopo qualche giorno, non si doveva più perdere tempo sui suoi set: la troupe ritornava a essere la troupe e i visitatori dei viaggiatori). Mi aveva scritto, avendolo dettato a una segretaria o a un assistente: «Leggendoti, ho avuto l’impressione di ritrovare un vecchio amico». Avevo letto e riletto quella frase con la stessa incredulità del clarinettista di Prova d’orchestra, che ripete senza sosta un complimento di Toscanini («Bravo giovanotto, finalmente sento un bel suono di clarinetto!»). È solo retrospettivamente, riesumando questa lettera, devotamente conservata, che ne ho rilevato la deliziosa punta d’ironia, perché ero troppo giovane, nel 1971, per essere qualificato come «vecchio amico» da chiunque. Dunque ero a Cinecittà, protetto da un ombrello grande come un parasole e con i piedi nel fango. Un italiano molto simpatico, che distribuiva caffè in continuazione, mi aveva procurato un paio di stivali di gomma troppo grandi per me, ma tanto ero risoluto a muovermi il meno possibile. Attorno a me ferveva l’agitazione di quelli che a Roma venivano chiamati i «Fellinidi» – l’espressione si è persa; anche l’epiteto «felliniano» non si sente praticamente più –, cioè i membri più ferventi della squadra del regista, che non vivevano che per lui e grazie a lui, capaci di attendere anche due anni la messa in orbita di uno dei suoi film, miracoloso precipitato formatosi dalla reazione chimica di capitali internazionali, al fine di essere sicuri di venire annoverati tra gli officianti di questi riti cinematografici. Perché mai potrebbero avere la fortuna di sentirsi così intensamente vivi come durante queste riprese imprevedibili, estenuanti ma assolutamente divertenti. Sotto le loro lucide cerate, i tecnici di studio e i lavoratori della metro si confondevano in un magma indifferenziato, che risuonava di voci e del frastuono delle macchine. Ero riuscito a identificare i momenti in cui la cinepresa girava, non dal «Motore!» di Fellini, che malgrado il suo megafono io quasi non sentivo, ma dal fatto che l’illuminazione, in tutto il set, si metteva a tremolare. Ero stupefatto dalla brevità delle riprese rispetto alla lunga gestazione, fatta di sforzi sincronizzati, che ciascuna di esse richiedeva. Questi sforzi per me erano indecifrabili: i segreti del cinema, a quel tempo, non si insegnavano né al liceo né all’università. Fellini aveva dimenticato la mia lettera, ma non i miei disegni. Al mio arrivo mi aveva fatto sedere su una sedia di tela di fianco alla sua e mi aveva fatto una domanda: «Cosa vuole fare?». Non riuscivo a rispondere, ammutolito dall’emozione. «Come mestiere?» balbettai. «I fumetti, il disegnatore.» Avrà sorriso, o inarcato il sopracciglio, sentendo la parola «fumetti»? – lui che aveva cominciato pubblicando vignette sulla rivista «Marc’Aurelio» e che aveva appena girato la sequenza del suo arrivo a Roma, ispirandosi alle vignette del disegnatore di punta di quel giornale, Attalo, l’osservatore più sagace delle contraddizioni dell’Italia popolare degli anni Trenta; lui che per Giulietta degli spiriti aveva preteso da Piero Gherardi arredi e costumi che richiamassero i colori vivi e il segno Art nouveau delle illustrazioni di Antonio Rubino (all’epoca le fantasie di Rubino facevano parte della memoria collettiva degli italiani perché tutti erano stati lettori del «Corriere dei Piccoli»); lui che aveva citato Flash Gordon definendo il suo Satyricon «un’esplorazione del passato come territorio della fantascienza». Cosa ci siamo detti durante quelle pause di lavorazione? Poche parole di cui non mi ricordo oggi come non me ne ricordavo quel 21 agosto 1995, quando ci ripensai all’ombra dei portici di Place Garibaldi, perché la scomparsa di Hugo mi faceva tornare in mente Fellini, a quello che entrambi avevano significato per me. Non me ne restano che delle immagini, delle sensazioni. L’impermeabile e il cappello nero del regista, la sua sciarpa, la sua postura, con le gambe allungate. Quando se ne stava seduto, durante i preparativi per una ripresa, proteggeva la propria concentrazione attraverso l’assenza, il ritiro. Si era alzato per andare a verificare un’inquadratura. Mi ricordo l’occhio nel mirino, la sua calma, la sua meticolosità, in quell’ambiente caotico di cui si nutriva. Il movimento di macchina lo obbligava a spostarsi di alcuni metri, e lì ricominciava. Fischiettava nel frastuono. Nulla avrebbe potuto distoglierlo da quel compito: realizzare l’immagine in movimento che aveva in mente, estrarla, liberarla dal materiale di scarto che la imprigionava in quel limbo, grazie alla sua abilità artigianale. Quando girava, non c’era alcuna vanità in lui, nulla di quella posa da «artista» che ostentava nelle interviste. Avresti detto di vedere all’opera un chirurgo, un ceramista, un ebanista. Non era nemmeno quella persona che mi aveva spedito una lettera tra due pause della realizzazione di Roma, realizzazione che aveva la particolarità di svilupparsi attraverso pause che corrispondevano alla scrittura della sequenza successiva, perché Fellini aveva fissato solo questo limite: «Quando saranno finiti i soldi, sarà finito il film». Sul set scompariva come individuo sociale, per diventare solo il corpo attraverso cui si realizzava, veniva compiuto il film. Non sapevo cosa ero venuto a cercare a Cinecittà, meno ancora che a Malamocco, dove sarei andato qualche mese più tardi, a raccogliere l’opinione di Hugo sulla mia attitudine al disegno. Fellini mi aveva invitato a venire a vederlo lavorare, ed era alla sua sparizione che mi aveva permesso di assistere. Era quello ciò che desideravo vedere?
Il giorno dopo, sul finire del pomeriggio, incrociai Fellini in un corridoio degli studi di posa. L’estenuante notte di lavoro non era ancora cominciata. Lui era ritornato a essere come me lo ero immaginato, affabile, divertente e affascinante. Mi presentò a una sua collaboratrice: «Un futuro autore di fumetti!». Lei rise, facendo notare che il fumetto stava sbarcando in forze sul set, dato che Lee Falk, l’autore di Mandrake il mago, era arrivato qualche giorno prima.
Lasciando gli studi, Fellini mi consigliò di aspettare l’inizio delle riprese al caldo negli uffici della produzione. Sulle scale mi chiese quale fosse il mio fumetto preferito. «Little Nemo» gli risposi. Ne fu sorpreso, e si fece attento. Aveva reso omaggio a Little Nemo all’inizio di I clowns, con un ragazzino in camicia da notte appollaiato ai piedi del letto, svegliato dalle grida rauche degli attrezzisti intenti a montare il tendone del circo. Lo rifarà con Mastroianni-Snaporaz, vestito con la stessa tenuta, diventato capriccioso, ridicolo (cosa c’è di più osceno di un adulto travestito da bambino?), che gattona sotto un letto fatato per raggiungere lo slittino dei ricordi di La città delle donne, film in cui le allusioni a Little Nemo si moltiplicano fino alla disinvolta conclusione: «È stato tutto un sogno!». Questo epilogo minimale di una sceneggiatura priva di intrighi, Snaporaz che si risveglia per riaddormentarsi praticamente subito, non si rifaceva solo alle fantasmagoriche «illusioni» di Méliès, ma anche alla vignetta che chiudeva ogni tavola di Little Nemo: il bambino strappato ai suoi sogni dai genitori, dispiaciuto di interrompere l’esplorazione del Paese dei sogni – o, per Snaporaz, della città delle donne. Fellini, ancor più di Hugo, aveva auto un vero e proprio colpo di fulmine estetico scoprendo le tavole di McCay: «Il mio adorato Little Nemo» diceva. Non si immaginava che un fumetto potesse essere di una tale inventiva e di una tale precisione a proposito dei meccanismi del sogno. L’attrazione che il genio di McCay esercitava su di lui veniva a coronare questo felice periodo della sua vita, cominciato dopo La dolce vita, durante il quale gli arcani dell’attività onirica gli erano stati svelati dal suo psicanalista junghiano, Ernst Bernhard. Costui gli aveva consigliato di non cercare più di sfuggire alle proprie nevrosi ma di considerarle come materiale destinato ad alimentare la sua creatività. Gli aveva anche raccomandato di tenere un diario dei suoi sogni – che il regista disegnava. Bloccato lì, in mezzo alle scale da quella domanda di Fellini, dopo aver pronunciato il nome di «Little Nemo», aggiunsi una di quelle frasi che si osano dire solo a quell’età: «A parte i suoi film, non conosco niente di più bello». La mia voce deve aver tremato, un po’. Mi sembrò di percepire in Fellini dell’imbarazzo, e di fronte alla mia nuda timidezza, un furtivo ritorno della sua, di cui gli capitava di parlare davanti allo scetticismo dei giornalisti che prendevano questa affermazione per l’ennesima bugia «felliniana».
Un’ora dopo scendeva il crepuscolo, il cielo era nero e viola come la sera prima, si accendevano i proiettori e le riprese di Roma riprendevano. Non sapevo nulla di come si fa un film: guardavo, senza capire. Con un’emozione mista al sentimento di una distanza incolmabile. Quan...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Solo il suo disegno
  4. Un giorno un treno
  5. Lui e noi
  6. Italie
  7. Il sentiero degli acquerelli
  8. L’estate non ha ancora detto la sua ultima parola
  9. Appendice
  10. Ringraziamenti
  11. Copyright