Cima delle nobildonne
eBook - ePub

Cima delle nobildonne

  1. 272 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Cima delle nobildonne

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Ambientato nell'estremo Nord Europa, a Stoccolma, dove si ritrovano figure emerite provenienti da ogni angolo del mondo, Cima delle nobildonne mette in scena con fulminea brevità la stratificazione della nostra identità culturale. Opera moderna e visionaria, marca uno stacco netto dal romanzo-mondo Horcynus Orca. Qui una realtà concreta e scientifica - l'operazione chirurgica che trasformerà in donna il bellissimo ermafrodito amato dall'emiro di Kuneor - si fa pista di lancio per il volo dell'immaginazione. Così il razionale si trasforma in irrazionale, dando luogo ad avventure vertiginose, in cui "un uomo è un animale che può diventare un dio", come ricorda Walter Pedullà. Il tema al cuore di questo romanzo è attuale in modo speciale, come lo è sempre la natura, deposito inestinguibile di storie nuove. D'Arrigo la racconta attraverso la scienza e la religione, amalgamando il tutto con le materie prime della sua narrativa: la fantasia e una lingua che, come il bisturi di un chirurgo, è capace di fare epica.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Cima delle nobildonne di Stefano D'Arrigo in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Literatur e Literatur Allgemein. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
ISBN
9788831804455

Cima delle nobildonne

a Jutta
“Cima delle nobildonne” (metafora di Hatshepsut, lett. “Colei che va davanti alle nobili”) per Amadeus Planika, placentologo, è sinonimo enfatizzato della placenta.
Hatshepsut, della XVIII Dinastia, unica donna Faraone, regnò sull’Alto e Basso Egitto dal 1511 al 1480 a.C. in anni di pace e di splendore delle arti.
«In questo momento...»
Dall’anfiteatro sopra la sala operatoria Mattia avvertì come un’esitazione nella voce di Belardo, una voce che sino a quel momento era stata d’una freschezza di timbro sorprendente, una voce che si sarebbe detta ancora quella che era all’inizio, come non fosse cioè la voce di uno che ormai da due ore portava avanti un intervento a dir poco impegnativo come quello.
Belardo stava per dichiarare che quella appena fatta era la mossa record, tanto da esaltare quel momento come avesse qualcosa di storico per lui. E l’aveva, considerato che quello per la neovagina è tutt’altro che un intervento abituale e si affida a chirurghi di consolidato prestigio.
Era per questo che l’operatore, Belardo appunto, anche se si trattava di un “Pi heic Di”, cioè di un libero docente straniero, tesaurizzava l’intervento sviluppandolo, viavia che ne dettava le mosse al pubblico di studenti e non studenti che lo seguivano dall’anfiteatro, come una vera e propria lezione in sala operatoria, diffondendosi talmente tanto, specie su certe mosse e fra mossa e mossa, da far sospettare delle volte a Mattia che quella lezione lui l’avesse precedentemente incisa, e non necessariamente in sala operatoria, incisa su di un nastro, ed era da questo ora, per play-back, che la sua voce (quella sua voce, perlappunto, che si sarebbe detta uguale a quella che era all’inizio) parlava al pubblico dell’anfiteatro.
Un momento storico, dunque. Difatti:
«In questo momento» ripeté con una certa antipatica enfasi «passo alle mie strumentiste alle mie spalle prima una, poi l’altra pinza di Four che fra le punte stringono quelle che nel verbale di questo primo tempo dell’intervento descriverò come le gonadi, parti terminali di colorito biancastro di due formazioni peduncolate, due corpiccioli di consistenza duro elastica, simili a due mandorle sgusciate. In parole più semplici, questi due corpiccioli sono i testicoletti rudimentali della giovane paziente che noi, come primo atto, concludendo la parte addominale dell’intervento, abbiamo asportato perché essi potrebbero andare incontro a degenerazione e che noi molto rapidamente ci apprestiamo a sottoporre a esame istologico preliminare estemporaneo studiandone la struttura, se cioè ci sia già un indizio di degenerazione, e la funzionalità, e cioè la loro capacità di produrre ormoni.» (“Nella sindrome di Rokitanski” aveva detto Belardo due ore prima, nella presentazione agli studenti dell’intervento che stava per iniziare “la paziente ha le ovaie normali per quanto riguarda la loro funzionalità ormonale, il soggetto-donna cioè riceve il beneficio della produzione degli ormoni da parte delle ovaie. Nella sindrome di Morris, quella che interessa a noi, dello pseudo ermafroditismo maschile, si tratterà di vedere se il soggetto, mancante di utero tube ovaie e vagina, è un soggetto-donna o un soggetto-uomo, oppure se è portatore di un mosaico cromosomico aberrante, quello dei due cromosomi sessuali della donna, XX, più la X o la Y dei due cromosomi sessuali dell’uomo.”)
Alle spalle di Belardo, a tempo con la sua voce, le due strumentiste, ognuna con la sua pinza che stringeva uno dei due testicoletti, dopo averle tenute per qualche tempo alte sopra una bacinella posata su un tavolino in mezzo a loro, piena di rifiuti, tamponi d’ovatta, frammenti di filo di catgut, batuffoli, bustine per stellette di filo e zaffi di garza, si mossero cautamente fuori dall’alone della scialitica, verso l’antisala della sala operatoria dove si trovava l’anatomo patologo con il refrigeratore, e quando tornarono alle spalle di Belardo le punte delle due pinze non stringevano più niente.
Lo stupore di quell’evento, l’evento dell’uomo che mette mano dove solo il Creatore, anche se distrattamente, l’ha messa, trascorreva con improvvisi brividi nel silenzio d’acquario dell’anfiteatro.
Tutt’intorno alla vetrata, assieme a quella diecina di studenti stranottati dall’ora d’inizio di quell’intervento monstre anche quanto alla durata (perché, fra i due tempi chirurgo-ginecologico e chirurgo-plastico, cominciando alle sette, si finisce ben oltre mezzogiorno), Mattia dalla sua posizione d’angolo vedeva muoversi in quell’istante l’esotico gruppetto di spettatori formato dalle tre signore in cachemire, dall’aria di tre mannequin, e dal giovane emiro Saad Ibn as-Salah dell’Emirato di Kuneor sul Golfo del Petrolio, col suo kefieh d’un candore luccicante nelle mezze luci dell’anfiteatro e che era tutto quello che del disdah, dell’abbigliamento tradizionale, resisteva nel suo finissimo completo occidentale.
Erano stati prima come presi di contropiede dall’annuncio che per bocca di Belardo era venuto dalla sala operatoria, e dopo avevano aguzzato gli occhi per vedere, ma a quella distanza forse solo intravvedere, i due pezzi anatomici simili a mandorle sgusciate che le due strumentiste stringevano fra le punte delle pinze sinché non andarono e tornarono dall’antisala.
Mattia poteva vedere ora, ora che erano uscite dall’allineamento alla vetrata, dove prima il profilo col kefieh del Principe gliele copriva, le tre cosiddette Mogli Anziane dell’Emiro, molto probabilmente principesse di rango anch’esse come la Moglie Giovane che stava sul lettino operatorio, tre ragazze che dimostravano un’età fra i venti e i venticinque anni. Mattia, che la mattina alla presentazione col loro Principe le aveva appena guardate, le vedeva ora come per la prima volta. Tutte e tre assai simili fisicamente, molto alte, la pelle olivastra, i capelli neri corvini, l’identica mise le rendeva più somiglianti ancora, e in un certo senso qualcosa di familiare c’era effettivamente fra di loro. Erano difatti tre del numero imprecisato di Mogli Anziane del Principe che esse accompagnavano in quel viaggio per svolgervi un compito che a Mattia appariva semplicemente decorativo, di contorno, sinché la loro presenza, la loro presenza di giovani, seducenti donne non rivelò di avere uno scopo più che calcolato in quel viaggio.
Il Principe si era ritratto di qualche passo dalla vetrata e con lo sguardo sembrava cercare l’attenzione di Mattia.
Dopo due ore era la prima volta che levava gli occhi da giù, dalla sala operatoria, dal lettino dove giaceva senza coscienza quell’adolescente principessa che si chiamava Amina, che era, secondo l’esatta espressione di Belardo, “una splendida parvenza di donna come sono quasi tutte queste pseudo ermafrodite maschili”.
In quel momento, che con l’estrazione delle gonadi Belardo concludeva la parte preliminare, destruens, dell’intervento (dopo sarebbe iniziata la vera e propria costruzione della vagina), al giovane Principe insorgeva forse qualche dubbio, qualche scrupolo: aveva fatto bene ad accettare il sacrificio della sua Amina?
Nelle due ore di fissità d’occhi e immobilità di corpo passate là alla vetrata senza mai un segno di cedimento o solo di rilassamento (Mattia non l’aveva visto muoversi nemmeno per cambiare, anche una sola volta, piede di appoggio), mostrando non solo di disporre di una capacità di resistenza fisica che era anche e soprattutto dell’animo, ma di possedere inoltre la tempra di maratoneta che l’intervento per la neovagina richiede agli spettatori non meno che all’operatore, doveva essersi tormentato a lungo intorno a quell’interrogativo: ho fatto bene? ho fatto male? come intorno a un’ombra di rimorso.
Tuttavia non chiedeva né approvazione né disapprovazione con lo sguardo che rivolgeva all’amico che era anche medico, al medico che era anche amico, a lui, a Mattia. Amico d’una curiosa amicizia che era iniziata ed era andata avanti per telefono, lunghe telefonate che il Principe gli faceva dal Golfo a Stoccolma sinché quella mattina non si erano finalmente conosciuti, presentati da Belardo davanti alla presala operatoria.
Belardo l’ultimo inverno aveva soggiornato a lungo alla reggia di Kuneor perché il Principe fra i tanti progetti di modernizzazione del suo Paese, alcuni da tempo realizzati, altri in via, aveva anche quello di un Istituto di Sanità della Donna. Belardo era andato a rendersi conto de visu del procedere dei lavori e della dotazione assolutamente d’avanguardia dell’Istituto di cui lui sarebbe stato il primo direttore.
Era quindi per affidare al futuro primario di Chirurgia ginecologica del suo Istituto di Sanità della Donna come al suo operatore di fiducia, la sua giovanissima, platonica moglie, soggetto pseudo ermafrodita maschile, che l’Emiro aveva fatto quel viaggio in Scandinavia, senza tener conto che a Lubiana e a Zurigo c’erano Scuole che nella pratica di quell’intervento avevano apportato nella parte plastica (quella non di competenza di Belardo) alcune non trascurabili novità, quella soprattutto di foderare il cosiddetto “intruso” o fallo artificiale con pezzettini di intestino e non più con lembi di cute asportati dalle cosce della paziente.
Ciononostante, nell’annunciargli il viaggio del Principe, Belardo gli aveva accennato solo di passaggio alla neovagina della piccola Amina e gli aveva parlato di quel viaggio come fatto esclusivamente per conoscere lui Mattia Meli, e conosciutolo, tentare ancora una volta di convincerlo ad accettare la direzione della sua ormai famosa, anche se ancora inesistente Placentateca.
Mattia non aveva saputo spiegarsi quelle parole di Belardo. Si fosse trattato di un altro, avrebbe detto che si cercava di sfotterlo, ma Belardo tanto era grande chirurgo, quanto povero di spirito. Bisognava pensare allora che Belardo aveva proprio deciso di fare qualcosa per liberare l’Emiro di quella sua fissazione (doppia fissazione, una era la Placentateca, l’altra avere Mattia a dirigerla). Ma non era più credibile dire che l’Emiro con quel solo viaggio faceva o sperava di fare due servizi, neovagina alla sua Amina e contratto di direttore al dottor Meli? Questo, Mattia non avrebbe fatto un grande sforzo a crederlo, specie dopo quanto, cosa davvero impensabile, il Principe gli aveva detto quella mattina alla presentazione.
«Se Maometto non va alla Montagna, allora è la Montagna che va da Maometto», questo gli aveva detto l’Emiro stringendogli la mano.
Belardo doveva essersi accorto dall’espressione perplessa del suo volto che quelle parole lo mettevano in un certo senso in crisi. Sì, perché no? era andato dicendosi poi. Se mi parla così, se mi parla come se lui fosse la Montagna e io Maometto, perché non credergli che venne anche per me, anche per convincere me a dirigergli quella sua Placentateca che sembrava un’idea campata per aria sinché non mi telefonò per dirmi che una nave carica di marmi di Carrara, destinati alla Placentateca, navigava dall’Italia verso il Golfo? Poteva dire che lo aveva convinto più l’Emiro con quella sua inattesa sortita che Belardo con tutti i suoi discorsi. Belardo, chissà perché, sembrava credere che per persuaderlo d’una cosa (l’Emiro era venuto a Stoccolma per incontrarsi con lui) dovesse a ogni costo spersuaderlo di un’altra (l’Emiro non era venuto a Stoccolma per far fare la neovagina alla sua platonica moglie).
Belardo, senza girare il capo, aveva alzato la mano destra all’altezza della spalla tenendola un poco all’indietro, e una delle strumentiste, quella più esile e minuta che stava da quel lato, sveltamente gli aveva messo nel palmo della mano prima una, poi un’altra cosa che dall’anfiteatro non si distingueva. Belardo riprese allora a dichiarare le sue mosse, parlando attraverso la mascherina di garza, nel microfonino appeso al collo, se non era davvero da un nastro inciso che parlava:
«Adesso» dichiarava, dichiarando le mosse eseguite un attimo prima dalla strumentista situata alla sua destra e quelle che avrebbe eseguito lui un attimo dopo «la mia prima strumentista mi porge un tampone montato col quale io provvedo a fare la toilette del cavo peritoneale. Mi porge poi gli antibiotici che io metto in cavità. A questo punto non resta che fare quello che in verbale descriverò come “appendicectomia en passant, chiusura a strati della parete e punti in seta sulla cute”.»
Mattia girò gli occhi al profilo dell’Emiro, fermo sotto l’alone rifilato di nero del bianchissimo kefieh, curioso di vedere se aveva qualche reazione a quel taglio trasverso, cavo o cavità, che doveva riuscirgli nuovo naturalmente anche a lui.
Perché prima, stranamente (ma non tanto stranamente forse, considerato il tipo di distrazione, un evento!, che avevano avuto), tutti quanti erano in anfiteatro (io per primo, riconobbe Mattia) si erano persi cogli occhi dietro quei due minuscoli cosi, tenuti alti, in vista, tra le punte delle pinze delle due strumentiste, sicché nessuno di loro aveva posto non solo occhi ma nemmeno mente a quella vasta incisione, che era poi l’incisione di Pfannestiel, sull’addome della paziente attraverso la quale Belardo per due volte era andato in profondità colle pinze di Four, sino ai due testicoletti.
Mattia però, ci avrebbe giurato, nessuno, nemmeno ora, faceva caso al taglio trasverso. Gli occhi di tutti (i miei per primi, riconosceva ancora), anche se non li vedeva uno per uno in faccia, erano come calamitati da quell’inimmaginabile lavoro di rammendo di pelle che Belardo dichiarava e già eseguiva, rivelando di sé una specie di impensabile risvolto al femminile che lasciò tutti a bocca aperta in anfiteatro (compreso Mattia che un giorno, chissà, avrebbe rivelato anche lui quell’impensabile risvolto).
La voce di Belardo, sicura e come recitante sino a un attimo prima, sembrava essersi fatta bassa, prudente, come contratta dall’attenzione che quel lavoro delicato gli richiedeva a lui e alle sue due strumentiste. Lui, Belardo, era collocato di fianco alla paziente, a metà del lettino. Delle due strumentiste, quella che gli faceva sempre da porgiferri, gli stava di fronte, anche lei di fianco alla paziente, mentre l’altra, che ora gli faceva da porgiagugliate, gli stava alle spalle, messa davanti al tavolinetto sistemato fra sé e il pube depilato della bambina-non donna-non moglie che stava sul lettino, tavolinetto che era pieno zeppo di aghi con l’agugliata di catgut pronti da prendere e usare.
Le tre figure, con le braccia e le mani in movimento attorno al lettino, armonizzarono di primo acchito talmente all’unisono i loro gesti, sempre uguali precisi puntuali, che viste dall’anfiteatro sembravano a volte di tre figure una sola, sempre la stessa, collocata in posizioni differenti ma reciproche, con sei braccia e sei mani.
«Colle pinze di Pean che la mia strumentista mi ha levato prima dalle mani e ora mi ridà, afferro quindi e accosto i lembi della ferita» proseguiva Belardo, dando l’impressione, ora, di parlare riflessivo e assorto, come se ora parlasse non per dettarle al pubblico di studenti e non studenti dell’anfiteatro, le mosse che faceva, ma a se stesso, per aiutarsi con le sue stesse parole a farle come andavano fatte, e così risollevando ancora una volta in Mattia quell’ombra di sospetto che faceva vaeviene nella sua mente, il sospetto che la lezione tenuta dal vivo, si ascoltava però in play-back. «Con punti staccati in catgut cucio quindi i pieni sottocutanei.»
Mattia, non sapeva dell’Emiro, delle Mogli Anziane, degli studenti, ma per quanto lo riguardava, rischiava ormai di farsi come ipnotizzare dalle mani di Belardo intente svelte svelte a quel lavoro donnesco, a quei “punti in seta sulla cute”. Era ancora però abbastanza in sé per rendersi conto che quel rischio il Principe non lo correva né poteva correrlo perché lui, forse perché lui vi era coinvolto come ci fosse lui al posto della sua Amina, continuava a seguire cogli occhi, quasi gli s’improntasse tutto dentro al piccolissimo neo nero delle pupille, il lavoro di rammendo di quelle tre figure in cuffia e mascherina, guanti e camice verdino, un lavoro a sei mani, tutte assieme, sempre in movimento, che procedeva ripetendosi e ripetendosi, come se quei punti di sutura non dovessero mai finire o non dovesse mai finire la lunghezza del taglio trasverso da suturare, per cui, dopo un po’ che uno ci teneva gli occhi sopra, la scena att...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Il giallo metafisico di Stefano D’Arrigo. di Walter Pedullà
  5. Cima delle nobildonne
  6. Saggi e contributi critici
  7. Copyright