Verona, aprile 2005
«Mahalo. Dài, Urania, ripeti: Ma-halo. È facile.»
«Che roba sta dicendo quela tusa?» La voce gracchiante di zia Talia si intromette nella lezione di hawaiano. È giovedì, e il giovedì di solito viene Kai, l’insegnante di mia madre Urania. Quando le zie si sono ammalate, una dopo l’altra, di Alzheimer, la mia amica Giada mi ha suggerito di incoraggiare mia madre a imparare una lingua straniera. Non so come facesse a saperlo, ma secondo lei lo studio di un idioma molto lontano dalla propria lingua d’origine metterebbe al riparo dalla malattia, soprattutto nel caso di una familiarità alta come nel caso di mia madre con le sue sorelle. Oggi, però, la lezione cade giusto giusto nel giorno del compleanno di zia Melpomene, così Kai è rimasto a pranzo.
Ho capito che è stata una pessima idea all’altezza del terzo primo. I nostri pranzi di famiglia sono tutti a base di primi, pasta all’uovo, nella fattispecie. Alle zie piace impastare in casa, tutte insieme, tortellini, tagliolini, lasagne, e insieme mangiano al grande tavolo della cucina, schiamazzando considerevolmente, data l’età. Loro impastano e mangiano, loro, maghe paffute che combinano pozioni e intrugli segreti. Io no. Io la pasta la guardo e basta. Sono assuefatta all’odore e al colore che ha, certo, e come in ogni dipendenza che si rispetti provo piacere e dolore nell’avere tutto il giorno sotto gli occhi intere lenzuola di gialla ed elastica pasta, odorosa di farina. Cerco di starne alla larga… ma lei mi cerca, manco mi scorresse nelle vene. Che poi non è altro che il motivo per cui me ne voglio allontanare.
Impastare, mangiare, il tavolo su cui zie e mamma, e nonna prima di loro, lo fanno con tanta gioia, e gli strumenti che usano, gli ingredienti… tutto questo mi permea: a volte mi tiene in vita, nel ricordo di momenti felici ancora presenti in questa cucina, dove oggi abita almeno un fantasma; più spesso, invece, mi schiaccia.
«Allora? Cosa dice la tusa?» insiste zia Talia, indicando Kai col dito che non riesce a distendere del tutto.
«È un maschio! No l’è mia na tusa!» grida zia Tersicore, dalla sua sedia con i braccioli imbottiti. Ha sempre male dappertutto, da quando…
Zia Melpomene si alza con sforzo dal posto a capotavola e taglia una fetta di torta per Kai, il quale, peraltro, non mangia dolci. «Tè chì, bèl. Mangia la torta» lo incoraggia, allungandogli, tutta tremante, il piatto.
«Zia, hai tagliato la torta prima di spegnere le candeline» le faccio notare, anche se so che è inutile cercare di far ragionare una persona con l’Alzheimer secondo i modi e i tempi che a me sembrano normali.
La mamma si allontana dalla finestra, quella che dà sul giardino, la sua preferita, e apre un cassetto. Ne tira fuori delle candeline, sei per la precisione, e le dispone sulla parte di torta non affettata. Ne mancherebbe almeno un’altra sessantina, ma a questo punto tanto vale assecondare il delirio generale che si è creato in questa casa da quando le zie si sono ammalate.
Giada attacca con Tanti auguri in portoghese. Viene da Santa Catarina e, oltre a essere l’assistente delle zie, è la brasiliana col sedere più enorme che io conosca. Il che mi piace.
Il mio modo di cantare Tanti auguri è accompagnare le voci degli altri col battito delle mani sul piano del tavolo. Amo le vibrazioni. I medici dicevano che avrei sviluppato molto gli altri sensi, visto che sono stata sorda fino a sette anni; non era vero, ho solo un gran gusto per il ritmo, e forse è anche per questo che la mia unica amica è una brasiliana.
Alla fine della canzone, tra applausi e bandierine colorate, Kai, nel suo impeccabile completo gessato, accetta la torta e la posa davanti a sé, senza toccarla. «Mahalo, signora.»
«Màlo? Màlo? Che cos’è màlo?» sento borbottare il nonno. Mi giro verso di lui, che staziona in piedi vicino alla porta. Ha quasi cento anni e non lo si vede mai seduto, mai una volta. Dice che, se si siede, muore.
«Mahalo significa grazie, nonno» gli dico, accarezzandogli i capelli ancora folti. Sono rimasta solo io, in famiglia, a prestargli attenzione: le altre, mamma e le zie, non vanno d’accordo col nonno Beniamino e se possono lo evitano. Oggi era difficile: è il compleanno della terza delle sue cinque figlie, non potevamo lasciarlo a casa.
Il pensiero delle cinque figlie del nonno mi saetta nel cervello come un razzo impazzito a Capodanno. Ne manca una. Zia Euterpe, la sua primogenita, è morta ieri mattina. Il posto che le riservavamo quando veniva a trovarci qui a Verona, dove le zie e mamma si sono trasferite prima che io nascessi, da Brescia, la città in cui sono cresciute loro, oggi è occupato da Kai. Un cubetto di ghiaccio mi si forma di colpo nel petto e si scioglie lentamente, dolorosamente, nel corpo.
Zia Euterpe è una parte di me, e lo sono mamma e le zie, da sempre. Sono tutto quello che ho. Mi costituiscono, ossa e sangue e particelle elementari di me stessa. Non riesco a immaginarmi al di fuori di loro, di questa casa. Di questa stanza tiepida, dove, da quando mi posso ricordare, ci incontriamo almeno dieci volte al giorno.
«Quanti anni fèt, pütina?» mi chiede zia Talia. È la più vivace e giocosa, se nel gioco includiamo dispetti e scoppi d’ira non lontani da quelli di una bambina monella.
«Io ho ventidue anni, zia, ma la festa non è per me» cerco di spiegarle.
La mamma interviene, afferrando i manici della sedia a rotelle rosa di sua sorella (una sorella davvero molto ricoperta di briciole) e spingendola al lavandino. «Sei tutta sporca, Talia. Adès te pare vià le mìgule… ti pulisco.»
Zia Melpomene si anima all’improvviso e comincia a gridare che vuole farlo lei, che la bocca a zia Talia la pulisce lei. Cerco di calmarla, ma con la coda dell’occhio vedo zia Talia afferrare una spugna fradicia dal lavandino e mirare sua sorella. Zia Melpomene, con velocità insospettabile, mi scappa via e inizia a correre intorno al tavolo.
«Ma ’ndo càso sèt drìo a cùrer, Melpomene?»
«Mamma!»
Sbatto sul tavolo il piatto di tortellini con cui stavo tentando di adescare la zia: gocce di brodo caldo si sollevano e ricadono tutt’intorno sulla tovaglia. Degenerazione aterosclerotica, ecco che succede a casa mia da qualche anno, ma io sono convinta che la cosa sia iniziata ben prima delle diagnosi. Poi sono arrivate anche quelle, certo. Ma mia madre, l’ultima delle cinque e l’unica a non essere ancora ufficialmente malata, già ci marcia sopra, ne sono sicura. Adesso ha una scusa per dire cose come Ma dove cazzo stai correndo a sua sorella.
«Mamma, modera il linguaggio davanti agli ospiti.»
Lei fa finta di niente. È il suo metodo. Sorride tra sé e sé, mi ignora. E mi manda in bestia.
Le zie si guardano tra loro, disorientate. «’Sa è sucèss?» domanda zia Tersicore, sull’orlo delle lacrime. Un altro sbalzo d’umore. Ne abbiamo vissuti tanti, qui dentro: sono cresciuta insieme ad altre cinque donne – mia madre, tre delle sue sorelle e nonna Bianca –, anzi, sei donne se contiamo le visite frequenti di zia Euterpe, e Giada è sempre qui. Ogni giorno è come svegliarsi e dover camminare sulle uova anche solo per raggiungere il primo caffè.
«Non è successo niente, Tersi» la rassicura Giada.
Zia Talia, nel frattempo, riattacca con Tanti auguri. «Sta’ zitta, te! L’abbiamo appena cantata!» sbotta il nonno.
«Calmi, state calmi» mi inserisco io. «Non litigate, per favore.»
«Lasciate stare la tuséta!» ordina Melpomene a voce altissima, tornando al suo posto.
Zia Tersicore si contorce sulla sedia a rotelle – da qualche settimana la usa anche lei – e si guarda intorno alla ricerca della tuséta, la ragazzina, che poi sarei io. «La tuséta si è agitata! Non bisogna!»
I suoi orecchini di smalto azzurro le oscillano ai lobi ormai lunghi, stressati dal peso di tanti ninnoli. Lobi morbidi, bianchi e connessi a tutte le ore della mia infanzia in cui mi spaventavo per il silenzio e mi attaccavo a una delle zie, a una parte qualsiasi della loro persona, una ciocca di capelli ricci, una gonna, un dito dall’unghia curata. Un lobo. Toccarle mi tranquillizzava.
Talia nota gli orecchini azzurri della sorella e le strilla nelle orecchie che è una ladra. «Questi sono miei! Mii, iè!»
«Enterügòm i morc’!» propone Melpomene del tutto a sproposito.
«No! No se pòl far la seduta spiritica, adèss» abbaia Talia, sempre intenta a recuperare gli orecchini, «ci sono gli uomini.»
«Tranquille, signore» dice Kai alzandosi, «io devo andare.»
Ne approfitto. «Mi dai uno strappo?»
Non aspetto il suo ’Ae e sguscio in corridoio a mettermi le scarpe.
«Università, oggi?» mi chiede Kai mentre estrae da una tasca le chiavi della sua vecchia Golf grigia. Kai significa “Oceano”, e tanto gli basta per considerarsi il più figo del pianeta.
Mi infilo una delle mie fantastiche giacche vintage.
«No, oggi negozio.»
«Tesoro, sarà un mese che non ti presenti a lezione» osserva il mio amico dagli occhi di caramello.
«Sssh, mia mamma ti sente. Lo so, ma col discorso delle zie e tutto il resto se non ci vado io in negozio non ci va nessuno. In qualche modo dobbiamo tenere aperto.»
«Non potete trovare una commessa?»
«Ci penseremo. Grazie del passaggio.»
«’Ae» risponde lui, «ma quand’è che impari a usare l’autobus?»
Sbuffo e mi sistemo per bene i capelli sull’orecchio, quello con l’apparecchio acustico. «Per arrivare al negozio non serve l’autobus. È vicinissimo.»
«Non so proprio da chi ha preso questa tuséta» commenta zia Melpomene, ciabattando verso di noi. «Nòter abbiamo sempre utilizzato i mezzi. La Euterpe ci ha vissuto, sui treni, te pòl dirlo.»
«Infatti lo so che mi avete adottata» ribatto.
«Smettila» mi ammonisce mamma dalla cucina. Sta finendo di sparecchiare e già la vedo che comincia a tirar fuori cartoni di uova dal frigorifero. Torno sulla porta della piccola stanza affollata e odorosa di anziani, un odore che sa di borotalco Felce Azzurra e di tempo ripiegato su se stesso come una coperta, tanto ce n’è.
«Ti metti a impastare?»
«Sì. Ho un’ordinazione grande per stasera.»
Ho paura delle uova. Meglio levare le tende.
«Aloha. Ci vediamo dopo.»
Passo da tutti, nonno, Talia, Melpomene, Tersicore e mamma, a dare il bacio di rito. Poi trascino via Kai prendendolo per una manica della giacca. Vedo che mi odia per questo.
«Aloha, Urania. Grazie del pranzo, favoloso. A giovedì prossimo. Esercitati!»
Kai guida come...